DAMON KNIGHT SV - SEA VENTURE (CV, 1985) 1 Quando Emily Woodruff vide per la prima volta la Sea Venture in una limpida giornata di novembre, sentì il cuore batterle forte ed esclamò: — Com'è grande! — Suo marito Jim, fraintendendola o forse attribuendo alla frase un significato diverso da quello che Emily aveva inteso darle, disse con reverenza e col tono di chi parlasse di una nuova auto o autocaravan: — È di gran lunga la migliore. — Ma nessun depliant aveva preparato E- mily a quello spettacolo: la Sea Venture era incredibilmente, inverosimil- mente grande e svettava sopra la testa della gente, stagliandosi contro il cielo come un fantastico castello in aria. La parete bianca si levava in su descrivendo una curva che poi rientrava; sopra di essa c'erano altre curve, e oltre queste Emily vide le bandiere di segnalazione che sventolavano al sole, e un cilindro alto e bianco, sopra il quale volteggiavano i gabbiani. Jim, un uomo di sessantacinque anni, aveva il viso roseo e una testa di capelli bianchi e lisci pettinati all'indietro. Lui ed Emily erano sposati da trentacinque anni; anni buoni, nel complesso. Avevano figli adulti e diversi nipotini. L'agosto precedente Jim aveva ceduto la sua agenzia di vendite per una somma che aveva lasciato di stucco Emily, e aveva detto: — Fac- ciamoci una vera vacanza. Andiamo a Honolulu per un paio di settimane e poi partiamo per una crociera sulla Sea Venture. Ora, guardando la nave vertiginosamente alta su cui doveva salire, E- mily disse: — Jim, non credo che riuscirò ad arrivare fin lassù. — Sì che ci riuscirai, perdio — disse lui con voce ferma. Poi due giova- ni donne, una più bella dell'altra, che indossavano un'uniforme bianca, li accompagnarono alla scala mobile, e loro salirono nel cielo come bambini sulla ruota panoramica. Quando arrivarono in cima, altre due giovani don- ne li condussero in un atrio coperto di moquette, dove voci echeggiavano nell'aria profumata. Emily e Jim si unirono a una fila che terminava davan- ti a una scrivania dove un uomo in divisa prese loro i biglietti e li indirizzò da un altro uomo, un tipo abbronzato, con una giacca bianca, che sorrise loro e disse: — Seguitemi, prego, signori Woodruff. — Imboccarono un corridoio illuminato da una tenue luce azzurra ed entrarono in un ascensore che li fece salire dolcemente per poi fermarsi con un lieve lamento. Quindi percorsero un altro corridoio dalla luce azzurra, fino a una porta rivestita di pannelli; l'uomo abbronzato l'aprì, li invitò ad entrare con un cenno della testa e consegnò le chiavi a Jim. — Benvenuti sulla Sea Venture — disse. — Il vostro bagaglio arriverà tra poco. Spero che facciate un ottimo viag- gio. Emily si guardò intorno. La cabina le sembrava in qualche modo più piccola di come le era apparsa sulle foto dei dépliant. Le pareti erano rico- perte da una carta da parati con un disegno floreale azzurro e beige; la mo- quette era blu Savoia. Cerano letti gemelli con le trapunte, e una finestra da cui si vedevano la sala di imbarco e l'orizzonte scuro e brumoso di Waiki- ki. In fondo alla stanza c'era una scrivania con un terminale di computer e uno schermo sulla parete. Jim Woodruff camminava su e giù per la cabina nervosamente, con le mani in tasca. — Perché non fai un sonnellino? — disse. — Io scendo a vedere un po' come stanno le cose. Per te va bene? — Certo Jim — disse lei. Quando Jim se ne fu andato, Emily rimase un attimo in piedi immobile, poi si scosse e guardò nell'armadio. Dentro c'erano un piccolo frigo e mol- tissime grucce, anche di quelle belle e imbottite. Appese la giacca, poi i- spezionò il bagno: lavandino, doccia, water e un affare curioso, probabil- mente un bidet. Emily non ne aveva mai visto uno, prima d'allora. Gli a- sciugamani erano ben ripiegati. Tornò nella stanza e si sedette su uno dei due letti per vedere se era co- modo. Sulla parete accanto a lei c'era un pannello con alcuni bottoni sotto i quali era scritto STEWARD, DOMESTICA, TV, MUSICA, ARIA CON- DIZIONATA, FINESTRA. La finestra si apriva, dunque? Emily premette il bottone e la finestra diventò nera, come se fosse stata abbassata istanta- neamente e silenziosamente un'impalpabile tenda. Emily provò un vago senso di paura e premette di nuovo il bottone: di là dal vetro apparve di nuovo il cielo azzurro. Allora capì quanto fosse stata sciocca. La "finestra" era solo un televisore tridimensionale incassato con cura in una nicchia. Le tornò in mente la grande parete bianca, curva, priva di interruzioni che a- veva visto dalla scala di imbarco: non c'erano finestre sulla Sea Venture. Guardò la moquette blu, sotto i suoi piedi. Era davvero molto bella, si disse, quella cabina dove avrebbe passato i prossimi tre mesi della sua vita. 2 Davanti alla console, nel Centro di Controllo della Sea Venture, Stanley Bliss, direttore delle operazioni, sorvegliava l'imbarco attraverso una serie di schermi televisivi. Bliss, un veterano della Cunard, aveva cinquantatré anni ed era un uomo corpulento dagli occhi azzurro pallido. Era stato in- dotto a superare un'iniziale riluttanza e ad abbandonare la Cunard per la Sea Venture dall'offerta di uno stipendio molto più alto e di un eccezionale piano di pensionamento. L'accordo prevedeva anche che Bliss sarebbe di- ventato cittadino americano; a lui non importava, né gli importava la sepa- razione più o meno permanente da sua moglie, che stava a Liverpool. Quel che invece gli importava molto era la complessità davvero esasperante del lavoro che si era impegnato a fare. Sulla Sea Venture non era chiamato "comandante" e non era un comandante: era il principale responsabile di un'operazione in cui potevano essere coinvolti in qualsiasi momento dai novecento ai millecinquecento dipendenti. In teoria e in pratica a lui era af- fidata la sicurezza della nave (che era sicura come una casa) ma in- direttamente erano affidati a lui anche i capocuochi, i fornai, i tecnici elet- tronici, gli addetti alla manutenzione, gli steward, l'ufficio pubblicità, il giornale e lo staff del settore svaghi; e come se non bastasse, Bliss era pure membro di diritto del consiglio direttivo, che in pratica si occupava della gestione della Sea Venture, o tentava di occuparsene: e nella gestione era- no comprese le riunioni mensili che duravano una giornata intera, e le commissioni tra una riunione e l'altra, e le assemblee degli azionisti, e le sessioni operative, e le sessioni per la pianificazione e, dio santo, le inizia- tive e i referendum... I passeggeri che aveva sotto gli occhi quel giorno erano del solito tipo: da un lato abitanti di San Francisco che salivano di nuovo a bordo dopo la sosta a Honolulu, dall'altro persone abbronzate o bruciate dal sole, con camicie a fiori e collane di fiori al collo che s'imbarcavano invece lì per la prima volta. Un pubblico forse un po' più vecchio, in media, di quello della vecchia Queen, visto che era composto in gran parte da coppie tra i cin- quanta e i sessanta, con qualche punta ogni tanto verso gli ottanta. C'erano donne dai capelli azzurrastri che camminavano traballando con il bastone e che non si capiva perché andassero in crociera, considerato che uscivano dalla cabina solo all'ora dei pasti (e ce n'erano alcune che non ne uscivano proprio mai), c'era un gruppo abbastanza nutrito di uomini e donne fra i quaranta e i cinquanta, che occupavano quasi tutte le sedie dei bar, poi c'e- rano i "giovani" fra i venti e i trenta e fra i trenta e i quaranta, che stavano sempre assieme e si facevano vedere soprattutto sulla pista da ballo, nei campi da tennis e così via. E infine c'era uno sparuto gruppo di adolescenti che seguivano depressi i loro genitori. Non si capiva proprio come tutta quella gente fosse stata inizialmente attratta dalla crociera, ma una volta a bordo bisognava tenerla occupata, distrarla, darle se non altro l'illusione che si stesse divertendo moltissimo. Su un'altra serie di schermi Bliss vedeva i clienti fissi che salivano a bordo a poppa, quasi trecento metri più in là. La loro scaletta arrivava al- l'imbarco del ponte sportivo: era una minaccia all'integrità della carena che l'entrata passeggeri fosse così bassa, ma quello non era l'unico com- promesso che i progettisti avessero fatto. Bliss si rivolse all'ospite che aveva accanto. — Bene, che ne pensate fino a questo momento della Sea Venture? Il capitano Hartman sorrise enigmatico senza togliersi la pipa di bocca. Anche lui era un ex dipendente della Cunard, ora in pensione, e viaggiava con un biglietto omaggio. — Impressionante — disse. — Per le dimensioni, intendete? È la più grande nave passeggeri che sia mai stata costruita, a maggior ragione quindi il maggior sommergibile che sia mai stato costruito. E secondo me tale resterà anche in futuro. — Non credete che proseguiranno con il programma? Questo dovrebbe essere un prototipo, no? La P in PHMA non sta per prototipo? Bliss storse leggermente la bocca. — Prototipo di Habitat in Mare Aper- to, sì, qualcuno all'inizio deve avere pensato che era simpatica questa defi- nizione, ma ora non più. La chiamiamo Sea Venture, o, abbreviando SV. Non è che una dannata zattera. — L'imbarco è terminato, capo — disse il secondo, un bel giovane del Midwest di nome Ferguson. — Bene. Trasmettete il segnale ai rimorchiatori. — Quanti rimorchiatori? — chiese Hartman. — Sei. Ci condurranno al largo per circa venti chilometri, finché incon- treremo la corrente diretta a sud; dopo procederemo da soli. I rimorchiatori due anni fa le hanno fatto attraversare tutto il Pacifico partendo dai cantieri di Kure. La carena, intendo: le apparecchiature e i congegni interni sono stati costruiti tutti in America. — Siete molto fiero della nave, vero? Lo sarei anch'io al vostro posto. — Oh be' sì, certo — disse Bliss. Stava osservando sulla console davanti a sé lo schermo che mostrava la reception. Hartman seguì la direzione del suo sguardo e vide un passeggero, un giovane dall'aria sveglia e dai capelli corti e neri, che avvicinandosi alla scrivania si girò a guardare direttamente la telecamera. Il suo vero nome era Sverdrupp. Era nato a Stoccolma, era stato educato in Francia, Germania e Inghilterra e addestrato in Israele e nell'America Centrale. Al momento aveva un passaporto americano. Da dieci anni era al servizio di una certa organizzazione internazionale che gli dava ogni tanto dei lavori da fare e lo pagava molto bene. Due mesi prima era stato convo- cato a Roma a una riunione nel corso della quale, a quanto sembrava, lo avevano "dato in prestito" a un'altra organizzazione che non era stata no- minata né allora né in seguito e che richiedeva i suoi servizi solamente per quella particolare occasione. John Stevens, come si faceva chiamare adesso, era un finto magro e in- dossava abiti nuovi e costosi. Aveva un viso aperto e giovanile, che gli era utile nella sua professione. Si guardò intorno con pacato interesse mentre la scala mobile lo portava sulla Sea Venture, ma non vide l'uomo che cer- cava. Vide però molte altre celebrità: la video star Eddie Greaves, un ex senatore degli Stati Uniti, un magnate della birra, la vedova di un grosso armatore greco. C'erano anche parecchie belle ragazze. Stevens sapeva che l'uomo che cercava aveva prenotato un appartamento sul ponte delle comunicazioni, in cima alla Sea Venture, quanto a lui, ave- va fissato una cabina singola sul ponte sotto quello, in una sezione che gli garantiva al ristorante privilegi riservati di solito a passeggeri più illustri. Entrò dignitosamente nella sala della reception, mostrò il biglietto e seguì uno steward filippino che lo accompagnò alla cabina. Ispezionò ogni ango- lo della stanza quasi automaticamente, annusò l'aria, poggiò una mano sul vetro appannato della caraffa piena d'acqua ghiacciata, poi si sedette da- vanti alla console del computer, in fondo alla camera. Sul vassoio della stampante, accanto alla console, c'era il SV Journal, un piccolo foglio informativo. BENVENUTI NEL MONDO MERAVI- GLIOSO DELLA SEA VENTURE! cominciava, e proseguiva: "Se deside- rate conoscere alcuni particolari interessanti sulla Sea Venture, premete il bottone SV sul terminale del vostro personal computer". Stevens premette il bottone e fu soddisfatto di scoprire che c'era un programma con la pianta dei ponti. Nello schermo sulla parete apparve un disegno schematico in tre dimen- sioni della nave. Obbedendo al comando di Stevens, il disegno ruotò pia- no, e Stevens capì che l'impressione che aveva avuto guardando la nave dall'isola era errata. La Sea Venture era ancora più grande di quanto gli fosse apparsa: vista dall'alto, era una forma ovale la cui ampiezza era oltre tre quarti maggiore della lunghezza. Era più larga, insomma, di otto navi comuni poste fianco a fianco. Impartì al computer un altro comando, e sullo schermo comparve un puntolino rosso con la scritta VOI SIETE QUI. Chiamò altri punti: quello del ristorante Liberty, del bar del ponte delle comunicazioni, della sala da gioco, del casinò e del teatro. E il computer, compiacente, tracciò linee gialle di congiunzione tra la sua cabina e ciascun punto richiesto. Stevens, pienamente soddisfatto, azzerò lo schermo. Poi accese la tv su uno dei ca- nali privati, si sistemò comodamente contro la testiera del letto e si mise a guardare "Wild Annie e Bill". 3 Una sedia a rotelle motorizzata si avvicinò alla scala mobile, a poppa della Sea Venture, nella zona delimitata dal cartello con su scritto RISER- VATO AI CLIENTI FISSI. Nella sedia stava un uomo molto basso, con i capelli grigi; dietro di essa stava invece un giovane corpulento, dal viso rozzo e inespressivo. Quando salirono sulla scaletta, una giovane donna con un completo giacca pantaloni giallo corse accanto a loro. — Professor Newland, sono Ann Bonano del Toronto Star. — Niente interviste — abbaiò il giovane corpulento. — No, lasciate Hal — disse Newland con voce curiosamente sonora. — Conosco la signorina Bonano. Ci siamo visti al convegno di Los Angeles... cos'è stato, quattro anni fa? — Non credevo che ve ne ricordaste — disse lei, sorridendo. — Profes- sor Newland, è strano trovarvi qui, e ancora più strano scoprire che siete destinato alla sezione dei passeggeri permanenti. Certo non significherà che... — No, no — disse Newland — sto solo cercando di rendere più difficile il vostro lavoro. Faccio la spia a bordo, per dirla in parole povere. Come sapevate che ero qui? — Stavo pranzando con un amico e ho perso la cognizione del tempo, per cui dopo andavo di gran fretta e sono finita all'entrata sbagliata. Ho al- zato gli occhi e ho visto voi da una delle fessure. — Ann Bonano prese un notes dalla borsa gialla. — Visto che vi ho intrappolato, posso chiedervi come mai siete qui? Avete cambiato idea sulla Sea Venture e il programma di habitat oceanico? — No, non esattamente, ma, sapete, ho pensato che sarebbe stato istrut- tivo. Ann esitò. — Professor Newland, permettetemi di formulare la domanda in un altro modo. I nostri corrispondenti da Washington ci dicono che il di- segno di legge per la colonia spaziale verrà di nuovo bocciato quest'anno, e con una prevalenza schiacciante di voti negativi. Pensate dunque che sia ora di rinunciare? Considerate gli habitat oceanici un'alternativa possibile all'L-Cinque? — Io non porrei la faccenda in questi termini — disse Newland, disin- volto. — Vedete, che sia quest'anno, o il prossimo non ha importanza, ma nello spazio ci dobbiamo andare. Bisogna indubbiamente costruire le colo- nie L-Cinque: l'unico problema è quando. Ann si segnò un appunto. — Nel frattempo, però — disse — se il Con- gresso continuerà a finanziare il programma di habitat oceanico non crede- te che i parlamentari saranno sempre meno inclini a concedervi i fondi per l'L-Cinque? — Staremo a vedere. Io penso che il Congresso prima o poi fa sempre la cosa giusta. So che avete seguito le mie conferenze e non ho bisogno di dirvi per quale motivo ritengo necessarie le colonie spaziali. Se andremo nello spazio ci si schiuderà davanti un territorio completamente nuovo e non dovremo limitarci a sfruttare ancora di più quello che abbiamo già. Non solo: ci procureremo nuove e consistenti fonti di energia, il che è di vitale importanza. Ci occorre energia per i sei miliardi di abitanti della Ter- ra. E non la possiamo tirare fuori dall'oceano. — Alcuni parlano di impianti termici lungo i canali dell'habitat. — Be', è quello che io definisco "progetto in alto mare". Ann Bonano si segnò un altro appunto. — Professor Newland, ormai da un anno si dice che si sia verificata una sorta di spaccatura tra voi e gli altri responsabili del progetto L-Cinque. Si tratta di voci attendibili? — Abbiamo avuto i nostri screzi, nel corso degli anni. Non c'è da stupir- sene. Ann fece una breve pausa, poi riprese. — Avete detto che consideravate questo viaggio sulla Sea Venture "istruttivo". Che cosa sperate di impara- re? — Francamente, non lo so proprio. Io sono sempre pronto a imparare cose nuove. Fatevi di nuovo viva dopo che saremo arrivati a Guam, e vi saprò dire. — Voi allora scendete a Guam e poi tornate indietro in aereo? — Sì. — Che piani avete, dopo? — Nessun piano. Farò qualunque cosa occorrerà fare. Ann Bonano rimise il notes nella borsa; ormai erano arrivati in cima alla scala. — Vi ringrazio molto, professor Newland. Vi auguro un ottimo viaggio. L'area d'imbarco sul ponte era gremita di persone che si salutavano, si scambiavano pacchetti e correvano avanti e indietro. Molti si abbracciava- no e baciavano. Uno steward cinese si fece strada in mezzo alla folla e an- dò incontro sorridente a Newland e al suo accompagnatore. — Seguitemi, prego, professor Newland, se volete entrare nel reparto passeggeri senza problemi. Avevano appena percorso uno o due metri, quando un uomo corpulento e abbronzato posò la mano sul bracciolo della sedia a rotelle. — Professor Newland, non ho potuto fare a meno di sentire la conversazione sulla sca- letta. È un onore avervi con noi. Sono Ben Higpen, il sindaco. Ecco qui il mio numero di telefono. Chiamatemi a qualsiasi ora: sarò lieto di farvi da guida. — Siete molto gentile, grazie, signor Higpen. — Non c'è di che. Solo poche persone restarono a guardare la Sea Venture staccarsi dagli ormeggi e mettersi in mare tirata da quattro piccoli rimorchiatori che riem- pirono di schiuma l'acqua scura, quasi viola, del porto. Non c'era la banda che suonava e non c'era nessuno che salutava con la mano dai ponti. Del resto mancavano, sulla nave, posti da cui si potesse salutare con la mano. Quando la Sea Venture fu abbastanza lontana dal molo, altri due rimor- chiatori si unirono agli altri, a mezza nave. Poi la SV ruotò lentamente, mostrando per la prima volta le sue reali dimensioni. Due alti cilindri bian- chi, di cui solo uno era stato visibile fino allora, svettarono contro il cielo. Piano, a ritmo costante, la nave si allontanò dall'isola, dirigendosi verso l'orizzonte luminoso e verso l'orrore che l'aspettava. 4 Canticchiando fra sé come faceva quand'era alticcio, Jim Woodruff aprì la porta della lussuosa cabina ed entrò. Sua moglie era seduta in una delle poltrone imbottite e teneva le mani in grembo; a guardarla pareva quasi che non si fosse mossa. — Em — disse lui, con entusiasmo forzato — que- sto posto è incredibile, sai. Hanno i cinema e il bagno turco e la zona shopping... Che cos'hai? — Niente, caro, sto bene. — Sarai stanca. È logico. — Jim fece un giretto per la stanza, fece tin- tinnare le chiavi in tasca, poi si sedette sul letto. — Ho conosciuto un tizio simpatico al bar. È di Akron e si occupa di immobili. Ci divertiremo da matti, Em. — Sono stanca, sì, ma poi mi riprenderò. — Sicuro. Avrai un sacco di tempo per riposarti. Hai fatto un bel sonnel- lino? — No, non ci sono riuscita, ma lo farò dopo. Com'è che si chiama que- sto tizio di Akron? — Boyko. Bill Boyko. Mi ha dato il suo biglietto da visita. È proprio simpatico. Sai, Em, non crederesti ai tuoi occhi se vedessi i vestiti che por- tano certe donne, qui a bordo. Voglio dire, pellicce, tacchi alti, pantaloni alla araba e chi più ne ha più ne metta. Poi si parla del Ritz! Questo è il Ritz. Vuoi qualcosa? C'è il servizio in camera, sai. — No. Il frigorifero, là, è pieno zeppo. — Davvero? — Jim si alzò e andò a verificare di persona. Birra fresca, bibite, succhi di frutta, panini avvolti nel cellophan, formaggio. Prese una birra e tornò al suo posto. — Poco alcolica — disse. — Questa sì che è vi- ta, Em, vedrai che roba. — Attenzione — disse una voce. — A tutti i passeggeri, attenzione. Tra cinque minuti verrà effettuata una prova d'emergenza. Per favore guardate sul cartellino attaccato alla porta della vostra cabina dov'è la vostra stazio- ne di salvataggio, oppure chiedete aiuto a uno steward. Quando suonerà la sirena d'allarme, tutti i passeggeri sono tenuti a raggiungere la loro stazio- ne. Jim si alzò e guardò il cartellino affisso alla porta. — Scialuppa di salva- taggio numero trentasette — lesse. — Sarà meglio che andiamo. — Che cosa significa prova di emergenza? — Emily stava seduta con le mani intrecciate saldamente. — Significa semplicemente che dobbiamo arrivare fino alla nostra scia- luppa di salvataggio, imparare dov'è e così via, in modo da sapere già tutto in caso di emergenza. È una procedura di routine, Em; la fanno su tutte le navi. — Ma come sarebbe a dire, in caso di emergenza? La nave non affonde- rà mica, vero? — È chiaro che non affonderà. Dio santo, Em, come potrebbe affondare mai, un mastodonte del genere? Abbi un po' di buon senso, no? — Ma se è impossibile che affondi — disse Emily, con la voce in falset- to — come mai ci sono le scialuppe di salvataggio? — Sobbalzò, sentendo la sirena d'allarme suonare nel corridoio. Jim posò il barattolo di birra sul tavolo, facendolo tintinnare. — Non ho tempo per discutere con te, adesso. Vieni o no? — No — disse lei. — No, vai tu, Jim. Io non posso. — E va bene, perdio. Sulla porta Jim diede un'altra occhiata allo schema sul cartellino. La scialuppa trentasette era sul fianco sinistro del ponte delle scialuppe, vici- no a poppa: sarebbe stato facile arrivarci. L'allarme continuava a suonare. Jim entrò in ascensore con un gruppo di altre persone che avevano un'aria da turisti un po' imbarazzati. Gli altri lo guardarono e si guardarono tra loro con sorrisetti, come a dire: — Tutto ciò è davvero assurdo, ma non è anche divertente? — Jim a poco a poco fu contagiato dallo spirito del gruppo e quando arrivò giù al ponte delle scia- luppe avvertiva ormai un senso di eccitazione e di euforia. Fu facile trovare la scialuppa trentasette, perché quasi tutto il gruppo era diretto lì. Il numero era segnato sopra un cartello attaccato a una delle due porte massicce che si aprivano su una specie di profonda nicchia. Degli steward erano lì in attesa per aiutare la gente a scavalcare la traversa che c'era sulla soglia. In fondo a un breve corridoio si aprì una porta su una pa- rete bianca e curva; i passeggeri entrarono e si ritrovarono in una stanza lunga e gialla che aveva su ciascun lato una fila di sedie dai cuscini azzur- ri. Sul davanti erano collocate una poltrona e una console da pilota, con schermi televisivi e tre oblò. Uno degli steward si mise davanti alle sedie con un bloc-notes in mano. Dall'aspetto si sarebbe detto cinese, ma parlava inglese come tutti gli altri. — Ora, signore e signori, se avrete la compiacenza di sedervi e prestarmi attenzione, vi chiamerò in ordine alfabetico. — Uomini e donne s'incam- minarono svogliatamente lungo il corridoio tra le file, distribuendosi ai proprii posti. Solo due terzi delle sedie erano occupate, alla fine. — I signori Abbott? — Siamo qui. Lo steward continuò a leggere l'elenco. Molti dei nomi che chiamò erano assenti, e quando ebbe terminato scosse la testa con aria di disapprovazio- ne. — Adesso, signore e signori, vorrei descrivervi le caratteristiche della vostra scialuppa di salvataggio. Nell'improbabile ipotesi che una situazione di emergenza ci costringesse ad abbandonare la Sea Venture, suonerebbe l'allarme e tutti voi vi precipitereste qui, a questa stazione. Nel caso che ciò succeda, mi auguro che avremo più presenze di quelle registrate oggi. — La frase fu commentata da risatine imbarazzate. — Quando tutti i nostri passeggeri saranno a bordo — proseguì lo ste- ward — il portello si chiuderà e la scialuppa verrà calata tirando questa maniglia. La scialuppa può anche venir calata elettronicamente dal Centro di Controllo, purché il portello sia perfettamente chiuso. Come potete ve- dere, la scialuppa è ermetica e si può calare in mare sia quando la Sea Ven- ture è in immersione, sia quando non lo è. Se la nave è in immersione, la scialuppa automaticamente sale in superficie e comincia a trasmettere un segnale con cui comunica la sua posizione. Quando la nave è in superficie, se le condizioni lo permettono il portello che vedete lassù può essere alza- to. Negli armadietti là in alto è conservato cibo sufficiente per dieci giorni. Ci sono anche altre cose utili, come cassette del pronto soccorso e salva- genti. Nessuna domanda? — Che cosa succederebbe una volta che fossimo arrivati in superficie? — chiese qualcuno. — Nel caso che abbandonassimo la Sea Venture in prossimità della ter- raferma o di un'isola abitata, la scialuppa farebbe rotta verso un porto sicu- ro. In caso si trovasse invece in alto mare, verrebbe raccolta da una nave di soccorso. Ci sono altre domande? — Lo steward aspettò un attimo. — Be- nissimo, signore e signori, grazie per la vostra cortesia e la vostra pazienza. La prova è finita. Grazie ancora. La gente uscì in gruppo, ridendo e chiacchierando. 5 La sezione perm, scoprì Newland, era molto diversa dalla zona turisti. Higpen venne loro incontro all'entrata e si affiancò a Newland, mentre Hal, taciturno come sempre, stava dietro la sedia a rotelle. I corridoi lì erano più ampi e il pavimento era di piastrelle, anziché ricoperto di moquette; gli ap- partamenti (lì non erano chiamati cabine) avevano finestre fornite di ten- daggi che davano sui corridoi, e le maniglie delle porte erano di ottone. Nella grande piazza centrale (la chiamavano così, anziché sala) c'era una fontana; sotto il soffitto alto sei metri e vivamente illuminato c'erano alberi che sorgevano da vasche, e un terreno di gioco per i bambini. Higpen, chiaramente orgoglioso della sua "città", mostrò a Newland e a Hal la chiesa e la sinagoga, il teatro, la scuola, il caseificio, e la fattoria dove ve- nivano allevati capre e maiali. Gli animali erano chiusi dentro recinti ben puliti, e corsero a guardare Newland e a odorargli le mani. Spuntarono fuo- ri anche conigli e polli. Cerano molti bambini, più di quelli che aveva pensato di trovare Ne- wland: boy-scout, girl-scout, sea-scout. E c'era anche un club del 4-H, il programma del ministero dell'Agricoltura americano che aveva lo scopo di insegnare ai giovani agricoltori le tecniche più moderne. Higpen li condusse a vedere la fattorìa idroponica, dove innumerevoli fi- le di piante crescevano verdi e rigogliose nelle vasche piene di sostanze nutrienti. Newland vide fagioli, piselli, zucchine, pomodori, cipolle e bar- babietole. C'erano lunghe stanze zeppe di dalie, garofani, mughetti. — Sia- mo noi a fornire tutte le verdure fresche e i mazzi di fiori per i ristoranti della sezione passeggeri — disse Higpen, con orgoglio. — Tutte queste piante contribuiscono anche al riciclaggio dell'aria quando siamo in im- mersione. I raccolti sono quattro all'anno. Niente parassiti, niente squame, niente ruggine. Perfino buona parte dei prodotti chimici che usiamo viene dall'oceano. Higpen li accompagnò poi nella zona di pesca. Newland non poté entra- re nell'area pressurizzata causa i suoi problemi cardiaci, ma guardò gli schermi televisivi. Vide i pescatori che stavano accanto a una grande ti- nozza colma di acqua verde, dalla quale venivano sollevate reti in cui guizzavano masse di pesci argentei, alcuni più grandi di un uomo. — Quelli sono tonni — disse Higpen. — Ottimi da mangiare. Quelli piccoli invece non sono buoni, ma li tritiamo e li usiamo come fertilizzante e come cibo per gli altri pesci. Il prodotto destinato alla vendita è notevole: trattiamo e surgeliamo circa trecento tonnellate di pesce all'anno, oltre alla quantità che mangiamo noi stessi. Sottoponiamo a trattamento anche il krill, una specie di plancton, e ne ricaviamo pasta di pesce. Avrete forse sentito dire che il Pacifico è un oceano sterile; be', non credeteci. Si può ot- tenere un brodo nutriente da quest'acqua di mare. Dalla zona di pesca passarono nell'elegante appartamento di Higpen, do- ve conobbero una sua amica, Yetta Bernstein, una donna robusta dai capel- li grigi. — Cosa prendete? — chiese Yetta. — Io gradirei una bibita, se c'è — disse Newland. Lei portò una gazosa a Newland e una birra a Hal. — Ben, Yetta — disse Newland — la Sea Venture è ancora lontana dal- l'essere economicamente autosufficiente? Higpen alzò le spalle. — Non troppo. A finanziarci sono i passeggeri, il cui contributo ci dà un ricavato di circa dodici milioni all'anno. Parte del denaro serve ad ammortizzare le spese di investimento e le sovvenzioni statali, e il resto è versato agli azionisti. — Tutti gli azionisti sono perm? — Solo alcuni. Altri si limitano ad affittare un certo spazio qui a bordo, e abbiamo perfino diversi inquilini: gente che vuol provare a vivere qui per vedere se l'esperienza è positiva. Se non ci fosse l'operazione passeggeri no, non ci avvicineremmo nemmeno all'autosufficienza economica. Rica- viamo circa seicentomila dollari all'anno dall'industria della pesca e altri cinquecentomila dalle fattorie e dagli orti, ma è solo una goccia nel mare. — Quante persone lavorano nella zona di pesca, nelle fattorie e negli or- ti? — D'inverno circa quattrocento. — Con una popolazione permanente di circa duemila unità? Che cosa fanno tutti gli altri? — Fanno le cose che è logico che la gente faccia in una città di duemila abitanti — disse Yetta Bernstein. — Abbiamo un dentista, due avvocati, una banca e una compagnia di assicurazioni. C'è gente che gestisce dro- gherie, altra che gestisce i cinema, e così via. Ben è proprietario di un ne- gozio di ferramenta, mentre io dirigo una libreria. — Ma allora le vostre fonti di reddito sono tutte interne? — No, non tutte — spiegò Higpen. — Ci sono anche parecchie persone le cui fonti di reddito sono esterne. Abbiamo per esempio società che ge- stiscono banche dati. Abbiamo un tizio che scrive romanzi e i suoi soldi entrano nel flusso della nostra economia. Abbiamo un servizio di consu- lenza finanziaria molto fiorente. Concludono affari con il collegamento in trasmissione dati via satellite, come farebbero se fossero sulla terraferma, e i loro agenti possono fermarsi a Manila e a Taipeh e a Tokyo per vedere di persona cosa succede, senza che il viaggio costi loro nulla. — Ma anche così... Higpen annuì. — Anche così non siamo né autonomi né autosufficienti. La Sea Venture è un prototipo. Per poter essere economicamente autosuffi- cienti dovremmo avere una popolazione di almeno un milione di persone. — Pensate che un giorno la Sea Venture riuscirà ad avere una popola- zione del genere? — Oh, a volte penso proprio di sì. Ci sono tanti di quei piani e progetti in ballo. Quello che preferisco prevede la realizzazione di una struttura piatta che starebbe a fior d'acqua oppure subito sotto di essa. Avrebbe un'a- rea di parecchi acri e sarebbe costituita da un insieme flessibile di moduli collegati tra loro, sicché viaggerebbe come un ammasso di alghe. Tutta l'a- rea sarebbe coperta da celle solari: di luce del sole ce n'è in abbondanza, qui. Non sarebbe più necessario il servizio passeggeri, non occorrerebbe programmare una serie di soste; la struttura continuerebbe semplicemente a girare e girare in cerchio. — Che parola affascinante, "cerchio". Mi ricorda Alice nel paese delle meraviglie o quella poesia di Yeats che dice: "Girare e girare nel cerchio sempre più grande..." Higpen annuì, serio. — Noi ci troviamo in quello grande, il Cerchio del Pacifico del Nord, ma ce ne sono di più piccoli in cui volendo si potrebbe entrare. Ce n'è per esempio uno a nord delle Hawaii. Oppure si potrebbe viaggiare avanti e indietro sulla corrente nordequatoriale e sulla contro- corrente equatoriale. Newland lo guardò con curiosità. — È il vostro sogno, vero? — Certo. A volte quando mi sveglio la mattina, prima di aprire gli occhi mi accorgo di aver sognato questa struttura e mi pare di trovarmi lì. Quando tornò in cabina, Newland guardò il menù e trovò un nome che aveva sentito da Higpen poco prima: paté de krill, un antipasto. Lo ordinò e lo giudicò delizioso. Come si poteva riuscire a trovare le ragioni profonde delle proprie azio- ni?, pensò. E una volta trovatele, era davvero possibile analizzarle obietti- vamente? Per esempio era solo perché ormai era troppo ammalato per an- dare nello spazio, o almeno per andarci con la sicurezza di tornare vivo, che aveva cominciato a dubitare del programma L-5, a cui aveva dedicato trent'anni della sua vita? O, per andare ancora più indietro, era stato forse il fatto di avere quel determinato cognome (Newland = terranuova) a in- dirizzarlo inconsciamente, tanto tempo prima, verso il progetto di coloniz- zazione dello spazio? Di coincidenze del genere era piena la sua storia. Ed era perché passati i settanta gli era parso di seguire una parabola discen- dente che aveva cominciato a chiedersi se in fin dei conti non ci fosse qualcosa da fare lì sulla Terra? Conosceva bene gli argomenti pro e contro il progetto. Li aveva usati, durante conferenze e dibattiti, troppo a lungo e troppo spesso per attribuire ad essi grande valore. Sapeva quanto fosse facile e necessario convincere prima se stessi, se si voleva convincere gli altri. Era stato uno scienziato molto prima di diventare un avvocato, e aveva ancora l'abitudine di mo- strarsi scettico verso le ipotesi non dimostrate, e più che mai verso le pro- prie. Poi c'era la logica degli avvenimenti. Il primo prototipo di habitat ocea- nico era una realtà: costruirlo era costato due miliardi di dollari, ossia, in percentuale, meno dei tre decimi del preventivo più basso calcolato per la prima colonia L-5; e quel preventivo rappresentava solo l'inizio. Newland camminò su e giù per la cabina. Sì, se a suo tempo la colonia spaziale fos- se stata costruita, i benefici da essa prodotti sarebbero stati di molto supe- riori alle spese iniziali di investimento. Ma la stazione spaziale non esiste- va ancora, mentre la Sea Venture era lì. 6 Dopo che Newland, come tutte le mattine, ebbe fatto il bagno, Hal Win- ter lo accompagnò in ospedale, lo fece sdraiare Sul lettino e cominciò a piegargli e stendergli le gambe. — Come va? — chiese. — Discretamente. Per dimenticare il dolore, Newland pensò al facsimile ricevuto la sera prima da Marcia Sonnabend, responsabile delle pubbliche relazioni dell'L- 5 Inc., a New York. "Ha sollevato un sacco di domande", aveva scritto Marcia, "l'articolo apparso di recente sul Toronto Star e ripreso da agenzie giornalistiche negli Stati Uniti e all'estero. Vi mando i facsimile degli arti- coli apparsi sul New York Times, il Washington Post e il Los Angeles Exa- miner. Alla riunione del consiglio d'amministrazione, lunedì, è stato detto che questa pubblicità è dannosa per la nostra immagine e che dovrebbe es- sere neutralizzata al più presto. Vi prego di farmi sapere la vostra opinione sulla faccenda. John Howard del Time, che è sempre stato favorevole a noi, è disposto a intervistarvi per telefono non appena potete; anche Times e Newsweek sono interessati a un'intervista. Se intendete accettare il collo- quio con Howard, vi prego di farmelo sapere, in modo che possiamo fissa- re l'appuntamento". Uno degli articoli era stato intitolato: LA FEDE DEL GURU DELL'L-5 VACILLA?. Lo steward portò la colazione: fiocchi d'avena e pane tostato per Ne- wland, uova strapazzate, polpette e pomodori fritti per Hal. — Che ora è a New York adesso? — chiese Newland quando ebbero finito. — L'una e un quarto. — Saranno fuori a mangiare. Proviamo fra un paio d'ore. Hal lo riportò a letto e Newland si mise seduto con in mano un libro di oceanografia, ma in realtà non vedeva nemmeno le pagine. Che cosa a- vrebbe detto in sostanza a Marcia? Se avesse concesso un'intervista e rila- sciato le consuete solenni dichiarazioni, la gente ci avrebbe creduto? Ci credeva, lui? Newland onestamente non sapeva dirselo. Era attratto dalla genuinità dei perm, dal tranquillo entusiasmo che mostravano per la Sea Venture. C'era una enorme differenza tra loro e i patiti della colonia spa- ziale; ai primi mancavano quella sorta di mistica da alpinisti e il fanatismo: erano persone semplici, provinciali, la cui città per caso si trovava in mez- zo all'oceano Pacifico. Sentì Hal parlare sottovoce nell'altra stanza e poco dopo lo vide entrare con il telefono in mano. — È Marcia Sonnabend. È rimasta in linea. — Pronto, Marcia? Come state? — Pronto, Paul — disse lei con la sua voce argentina. — Vi sento così bene che sembrate vicinissimo. Come va? — Non c'è male — disse Newland. — Sto facendo un viaggio istruttivo. È molto interessante, ma forse ho esagerato un po'. Temo di non sentirmela in questo momento di affrontare un'intervista per telefono. — Capisco — disse lei dopo un attimo. — Potete spiegare ai giornalisti che mi metterò in contatto con loro ap- pena sarò più in forze, cioè circa tra una settimana? — Certo, Paul. Sentite, come formulereste il discorso? Posso buttar giù una dichiarazione e trasmettervela domattina? Giusto un boccone per tener buoni i lupi. D'accordo? — Sì, va bene. — Perfetto — disse lei. — Ecco qui Olivia. Vorrebbe parlarvi. Olivia Jessup era l'amministratore delegato dell'L-5, una vecchia amica di Newland. Aveva la voce stridula e sottile. — Paul, mi dispiace sentire che rifiuti di usare una certa scaltrezza. Non voglio farla lunga; voglio solo che tu Sappia che Bronson e un paio di altri stanno piantando delle grane. — È normale — disse Newland. — Sì, ma è una faccenda seria, Paul. Bronson sta macchinando perché tu non venga più eletto. Il suo obiettivo è di espellerti dall'organizzazione. — Lo so. — E va bene. Comportati come credi meglio, ma non aspettare troppo a lungo. Ciao, carissimo. Newland restituì il telefono a Hal e mise da parte il libro, senza più nemmeno fingere di leggere. Si sentiva la bocca amara; era stanco di tutte le manovre, i discorsi, le cose vere che in qualche modo avevano perso ve- rità nel corso degli anni. Quand'era che tutto aveva cominciato ad andare male? I primi sintomi di disagio, quasi inavvertibili, li aveva avuti già cinque anni prima. All'inizio era stato un bel gruppo, gente fantastica e piena di ideali, legata da un rapporto fraterno. Ma adesso gli habitat dell'L-5 resta- vano dei progetti su una carta ormai ingiallita agli orli, ed erano stati inve- ce realizzati i Veicoli Orbitali con Equipaggio Umano, i cosiddetti VOEU, forniti di armi laser. Forse sviluppi del genere erano sempre inevitabili. I militari, prima in Germania, poi negli Stati Uniti e in Unione Sovietica, avevano finanziato la ricerca missilistica durante i lunghi anni difficili. Bisognava accettare i loro soldi, perché non era possibile ottenerli da nessun'altra parte. Se si vo- levano costruire astronavi, bisognava fare quel che volevano i militari e non perdere di vista l'obiettivo finale. Gli tornò in mente una vecchia poesia. I razzi salgono, i razzi scendono. — I Trasporti non sono il mio reparto — dice Werner von Braun. 7 Uno dei compiti per i quali Bliss perdeva più tempo era fare da maestro di cerimonie ai cocktail e ai pranzi i cui invitati erano scelti dal commissa- rio di bordo tra i passeggeri più ricchi e potenti. Con tutti quegli inevitabili avvenimenti mondani Bliss si sarebbe sicuramente rovinato il fegato se non avesse adottato lo stratagemma del signor Gibson, quel famoso tizio astemio che con una mancia aveva convinto i barman a servirgli acqua ghiacciata in un bicchiere da martini e a metterci una cipollina da cocktail per distinguere il martini finto da quello vero. Ma poiché ormai il Gibson era un drink troppo noto, Bliss aveva sostituito la cipollina con una fetta di cetriolino sottaceto, il che a volte provocava commenti. Quando questo ac- cadeva, com'era appena accaduto, Bliss alla fine confessava. — Che idea insolita — disse la signora Pappakouras, una bella greca che indossava un caffetano a fiori confezionato a Parigi. — Un cetriolino in un... come lo chiamate? Un Gibson o un martini? — Per la verità è un Bliss, un drink di mia invenzione. — Ma no! Posso prenderne un sorso? — Certo, ma vi deluderà: è acqua pura. La signora Pappakouras strinse gli occhi, divertita. — Oh, mi prendete in giro, allora! Non è una bevanda alcolica? Bliss le raccontò la storia di Gibson: — Un funzionario governativo di Washington, credo. Curioso che sia passato alla storia per questo particola- re episodio. Ma quel che adesso chiamiamo Gibson è in pratica gin puro. L'ex senatore del Colorado William Firestein, che stava in piedi accanto alla signora Pappakouras con un bicchierone di scotch in mano, disse se- rio: — Ho conosciuto parecchia gente a Washington che ricorreva allo stesso stratagemma, anche se non usava un sottaceto, signor Bliss. E ho conosciuto un sacco di gente che avrebbe fatto meglio a ricorrervi. — Be', sapete — disse Bliss — se non adottassi questo trucco finirei io sottaceto, anzi sott'alcol. Le battute di Bliss erano al massimo così, e suscitavano, come in quel frangente, risate molto contenute. Maurice Malaval, l'industriale francese, osservò con un sorriso: — È davvero interessante vedere in che modo stra- no certe persone, come dite voi, passino alla storia. Conoscete natural- mente monsieur Guillotin, che diede il nome allo strumento da cui fu de- capitato. E conoscerete probabilmente monsieur Daguerre, che inventò il dagherrotipo. Ma forse non conoscete monsieur Poubelle... — No. Chi era? — chiese Firestein. . — È stato l'inventore della pattumiera, o, come dite in America, del bi- done dell'immondizia. — Davvero? — Sì, e in Francia il nome di quel signore continua a essere citato spes- so, perché pattumiera si dice appunto poubelle. Dall'altra parte della stanza il magnate della birra Howard Manning sta- va parlando con Eddie Greaves. — Eddie, voi scendete a Guam, vero? — Sì, amico, e lì mi infileranno su un aereo per Tokyo, dove il quindici devo tenere un concerto. Sapete, mi sono imbarcato su questa nave per sfuggire al telefono e lavorare in pace ad alcune canzoni, ma anche qui il telefono squilla in continuazione, giorno e notte. Manning sorrise. — Potete sempre staccarlo. — Già, e avrei potuto farlo anche a Los Angeles. Ma così ho cambiato ambiente. E voi, quanto restate a bordo? — Scendo anch'io a Guam. Ho una riunione a Manila proprio il giorno del vostro concerto. Mi dispiace perderlo. — Pazienza, non si può avere tutto. Passato qualche giorno, Emily era riuscita a superare l'iniziale nervosi- smo e adesso si sentiva quasi a casa sua, sulla Sea Venture. Tutte le matti- ne nel vassoio della stampante li aspettavano l'SV Journal, il piccolo quo- tidiano di bordo, e spesso anche delle lettere. Come diceva Jim, le di- mensioni della cabina avevano poca importanza; in fin dei conti la usavano solo per dormire, e c'erano tanti di quei posti dove andare e tante di quelle cose da fare. Un giorno in sala conobbero i Prescott, una coppia con cui si trovarono molto bene, e in seguito cominciarono a passare parecchio tem- po con loro. Dopo circa una settimana Jim trovò delle persone con cui giocare a carte e si eclissò con loro. Emily andò alle terme e a varie conferenze che trovò interessanti. Cominciò a prendere lezioni di origami e ikebana dalla signo- ra Oruma, proprietaria del Negozio Orientale, l'"angolo dei musi gialli", come lo chiamava Jim. Ci fu un solo momento critico prima che l'orrore iniziasse: il momento in cui il giornale riportò in prima pagina la notizia che ci sarebbe stata u- n'immersione temporanea. "Per spostarsi in una corrente più favorevole la Sea Venture scenderà alla profondità di circa cento metri all'una di domat- tina e resterà in immersione per circa sette ore. L'immersione sarà effettua- ta durante la notte per provocare meno inconvenienti possibili, ma i pas- seggeri che saranno alzati a quell'ora potranno osservare l'operazione dalla sala, dal ponte di passeggio e dagli schermi delle cabine". — Jim, io non voglio che la nave vada in immersione — disse Emily. — Deve farlo per incontrare una corrente favorevole, è scritto qui. E poi lo sapevi pure già da prima di imbarcarti. — Sì, ma credevo che la prima immersione ci sarebbe stata solo dopo che eravamo arrivati a quelle isole. — Be', adesso o dopo che differenza fa? Su, fatti coraggio, Emily. Ma Emily non ci riuscì. Quella sera andò a letto presto e azzerò lo schermo: preferiva vederlo nero come la pece che osservare l'oceano calar- le sopra la testa. Invece di una pillola ne prese due, con l'unico risultato di sentirsi intontita. Al Centro di Controllo, poco prima dell'una, il capitano Hartman stava seduto accanto a Bliss e osservava il secondo Womack alla console. Dal- l'altro lato della console il radiotelegrafista (coordinatore delle comunica- zioni, lo chiamavano) sorvegliava una serie di schermi e ogni tanto parlava sottovoce al microfono. — Sono molto interessato all'operazione — disse Hartman. — Per me questa è la caratteristica più sorprendente della Sea Venture, non è uno scherzo spedire in immersione una nave così grande. Che io sappia è un esperimento mai tentato prima. E a dir la verità non capisco perché sia giu- dicato necessario. — Be', vedete, è utile quando ci sono tempeste, ma la vera ragione del- l'immersione è il governo della nave. Sul mare ci sono solo vento e corren- ti, e ci possiamo accontentare se non ci importa di impiegare dieci mesi ad attraversare il Pacifico. Ma le correnti cambiano da una stagione all'altra e sono spesso traditrici a est delle isole Marianne. Se vogliamo arrivare a Manila e non ritrovarci da qualche parte vicino alle Caroline, dobbiamo spostarci un po' verso nord. — E potete davvero farlo solo regolando la profondità? — Oh, certamente. Per via della forza di Coriolis. In qualunque corrente ci si trovi in questo emisfero, ce n'è sempre un'altra, sotto, che va verso dritta. — Così se vi spingeste troppo a nord, vorrebbe dire che sareste stati sfortunati? — Già, pressappoco. È per questo che ci pagano, vero, Womack? Il giovane secondo si girò e sorrise. — Sì, signore. — Cominciamo, allora. Avete controllato che tutto sia a posto? — Sì, signore. — Portate la nave a meno cento. Womack premette dei tasti sulla console. — Osservate gli schermi del ponte delle scialuppe — disse Bliss. Per un minuto o due non parve succe- dere niente, poi Hartman vide le onde illuminate a giorno sollevarsi un po', quindi sempre di più, e alla fine, infrangersi contro l'obiettivo delle tele- camere fissate alla carena. Gli schermi per un attimo si appannarono, poi tornarono nitidi, mostrando un mondo sottomarino verde opaco dove guiz- zavano banchi di pesciolini. Una per una, tutte le telecamere furono coperte dall'acqua: quelle del ponte "E", del "D", del "C", del "B", dell'"A", e poi del ponte di manovra, del ponte di passeggio, del ponte di coperta, del casseretto, del ponte spor- tivo e infine dello stesso ponte delle comunicazioni. E attraverso gli spessi oblò Hartman vide l'acqua sollevarsi sopra di loro. Tornata in superficie con i ponti bagnati, la Sea Venture viaggiò per giorni e giorni sola sopra gli abissi. A volte soffiavano venti leggeri e allo- ra il mare, di un azzurro pallido illuminato dal sole, era appena increspato, e i pesci volanti spiccavano salti descrivendo archi liquidi nell'aria. Ma an- che quando il mare era più gonfio e premeva con forza massiccia contro lo scafo, la nave procedeva tranquilla e stabile come una tavola. Quando co- minciò a fare più caldo, apparvero sempre più bagnanti nelle quattro pisci- ne aperte della Sea Venture, e il ponte sportivo si gremì di tennisti e di gio- catori di pallavolo e shuffleboard. Sugli schermi televisivi i passeggeri ogni giorno guardavano con un mi- sto di stupore e soddisfazione le furiose bufere che imperversavano sull'est e il Midwest. Baltimora era bloccata sotto un metro di neve; e a Minneapo- lis-St. Paul la neve era alta quattro metri. Quando arrivò Natale la Sea Venture aveva lasciato ormai da un mese Honolulu. Nella sala del ponte di coperta c'era un enorme albero addobba- to; per i corridoi affollati si sentivano i classici canti di Natale e tutti i ri- storanti servivano pranzi tradizionali a base di tacchino arrosto, puré di pa- tate, patate dolci caramellate, salsa di mirtillo, torta ripiena di frutta secca e torta di zucca. Quella sera alle nove Bliss chiamò i suoi su video circuito; a Liverpool, mezzo mondo più in là, erano le dieci del mattino. Sullo schermo apparve l'immagine di sua moglie; si era tinta di un nuovo colore i capelli, che le spiovevano in ricci sopra le orecchie. — Ciao, caro, buon Natale. — Buon Natale — disse Bliss. — Come state? — Oh, noi stiamo benissimo. E il tuo viaggio come va? — Come al solito — disse Bliss. — State bene tutti? — Sì, tutti. Dove ti trovi adesso, tesoro? — Siamo solo di un giorno più a est rispetto alla linea di cambiamento di data, puoi controllare sul tuo mappamondo. Il mare è calmissimo e il tempo è buono. Tommy è lì? — Sì, caro, e ti vuole augurare buon Natale. La signora Bliss si ritrasse e al suo posto apparve il viso giovane di Tommy. — Ciao, babbo. Buon Natale eccetera eccetera. — Anche a te, figliolo. Ti vanno bene le cose sul lavoro, spero? — Oh, il lavoro. Be', l'ho mollato, babbo. Ma ne troverò un altro al più presto. Me ne ha promesso uno un mio amico: c'è un posto vacante subito dopo il primo dell'anno. — Ah sì, capisco. I miei pacchi sono arrivati? — Sì, babbo, mille grazie. Apriremo i regali stasera, non vedo l'ora di vedere cosa sono. E i nostri sono arrivati, li hai ricevuti? — No, non ancora, ma immagino che saranno ad attendermi a Guam o a Manila. Sai come sono le poste. — Sì, funzionano malissimo. Peccato. Ci tenevo molto a che tu avessi il mio regalo il giorno di Natale. Bene, ecco che è tornata la mamma. Sullo schermo riapparve la faccia della signora Bliss. — Bene, caro, non ha senso che facciamo salire alle stelle la bolletta del telefono per niente. Buon Natale di nuovo. — Anche a te. Ciao, cara — disse Bliss. 8 Come aveva promesso, Marcia spedì un facsimile con la dichiarazione da rilasciare alla stampa e Newland, dopo avere apportato qualche piccola modifica, la approvò. A Bronson non sarebbe sicuramente piaciuta. I primi screzi con Bronson, e forse con tutto il gruppo dell'L-5, risaliva- no a circa cinque anni prima, quando Newland per la prima volta aveva cominciato a sospettare che Bronson fosse molto più legato all'industria aerospaziale e al Pentagono di quanto lui non avesse supposto in preceden- za. Gli seccava vedere che q'erano persone che sostenevano l'L-5 non per favorire il progresso dello spirito umano, ma per godere dei vertiginosi profitti che qualsiasi grossa struttura spaziale era in grado di assicurare. E per quanto conscio della propria ingenuità, appena aveva cominciato ad analizzare le motivazioni altrui si era messo inevitabilmente ad analizzare anche le proprie. Nell'ultimo anno o giù di lì, ogni volta che era stato inter- vistato sull'L-5 aveva sentito una vocina interiore che gli chiedeva: stai di- cendo tutta la verità? Naturalmente dopo che erano apparsi gli articoli sui giornali non aveva più senso che Newland cercasse di non far sapere della sua presenza a bor- do. Nonostante questo si teneva più che poteva lontano dai luoghi pubblici; non gli piaceva per niente che la gente evitasse con cura di guardarlo, sulla sua sedia a rotelle, e non gli piaceva per niente la folla. Perfino Hal a volte gli dava fastidio. Aveva bisogno di stare da solo. Aveva bisogno di pensa- re. La razza umana doveva fare qualcosa. C'erano quasi sei miliardi di per- sone al mondo, e cinquecento milioni di esse soffrivano la fame. C'era ca- restia in India, Africa e America del Sud. Piogge calde stavano distruggen- do le foreste in tutto l'emisfero settentrionale. Una dozzina di nazioni ar- mate e agguerrite erano piene di basi missilistiche per scatenare rappresa- glie in caso di aggressione nucleare. Era vero che l'oceano rappresentava un'enorme risorsa inutilizzata, una risorsa più grande della terra. Poteva ospitare e nutrire i miliardi di abitanti in più del futuro? Poteva alleviare le tensioni abbastanza a lungo da permettere all'umanità di risolvere i suoi problemi e sopravvivere? Il giorno dopo Natale, quando attraversarono la linea di cambiamento di data e domenica diventò lunedì, ci furono altri festeggiamenti. Higpen chiamò Newland al telefono. — A teatro ci sarà una rappresentazione sul tema di re Nettuno, ma se volete vedere qualcosa di più genuino, venite qui alle tre. — Grazie Ben — disse Newland. Nella piazza della città sembrava essersi riversata l'intera popolazione permanente della Sea Venture. La piazza era affollatissima, fatta eccezione per un corridoio delimitato da corde. Alcune persone erano sedute su una gradinata di metallo, altre guardavano dagli oblò del livello superiore. — Sapete che siete una delle stelle dello show? — disse Higpen all'orec- chio di Newland. — Spero non vi dispiaccia. Se avete qualche preoccupa- zione, possiamo cambiare programma. — No, no, va benissimo — disse Newland con una certa apprensione. Higpen lo lasciò nell'area delimitata da corde assieme ad altre sei perso- ne che lo salutarono timidamente. — Siamo novellini — gli disse una di loro. — È la prima volta che viaggiamo sulla Sea Venture. Anche per voi? Be', non preoccupatevi, sembra che non sia poi così male. Una banda di ottoni attaccò un allegro motivo. Dal fondo del corridoio venne avanti una strana processione: in testa c'era la banda, seguita da quelli che sembravano liceali in divisa verde e oro, da un carretto che tra- sportava una capra a cui erano stati infilati una pacca grigia, un paio di pantaloni grigi e un cappello, e da un uomo e da una donna molto belli e seminudi, mascherati e con il corpo dipinto di verde chiaro. Mentre le trombe squillavano, il corteo salì sulla piattaforma davanti alla fontana. — Sappiate, voi che siete sudditi appena giunti nel nostro regno — gridò l'uomo — che il vostro re e la vostra regina dalle sembianze di pesci chie- dono ed esigono da voi fedeltà. Se c'è qui qualcuno che rifiuta di fare atto di sottomissione, venga preso e buttato in mare. Altri squilli di tromba, e la processione si rimise in moto. Questa volta Newland e gli altri del gruppo, Hal compreso, furono condotti a due a due fino all'area subito sotto la piattaforma. Quando furono arrivati l'uomo di- pinto di verde agitò il tridente sopra la testa di Newland e Hal e gridò: — Vi battezzo nel nome del Padre Oceano! — La donna che gli stava accanto buttò loro addosso una pioggia di coriandoli verdi e subito dopo i due fu- rono baciati da un nugolo di ragazze che infilarono loro al collo delle ghir- lande di alghe. Poi cominciarono le grida e i canti; qualcuno recitò una specie di scenet- ta, e ci fu anche una premiazione, ma di tutta la faccenda Newland non riu- scì a capire molto. Alla fine la gente si disperse, e Higpen arrivò in soccor- so di Newland e Hal. — Adesso siete cittadini del mare — disse allegramente. — Ciò signifi- ca che apparterrete per sempre alla nostra famiglia, che vi piaccia o no. — Mi piace, Ben — disse Newland. 9 Il giorno dopo il direttore delle operazioni Bliss fece visitare loro il Cen- tro di Controllo (non era chiamato ponte), un posto confortevole, vivamen- te illuminato, zeppo di console e armadietti. C'erano quattro piccoli oblò di quarzo molto spesso, i primi che Newland avesse visto sulla Sea Venture, due davano a proravia, un altro a sinistra e un altro a dritta. Per il resto ci si affidava agli schermi televisivi. In seguito uno dei secondi, Ferguson, che stava smontando dal servizio, accompagnò Newland e Hal a vedere il laboratorio marino. Ferguson aprì una porta su cui era scritto VIETATO L'ACCESSO e la tenne aperta fin- ché Newland non fu passato con la carrozzella. Imboccarono un corridoio dal pavimento di piastrelle e con porte che si aprivano su ciascun lato. — Questo è il nostro settore marino — disse Ferguson. — Ne siamo orgo- gliosi. Qui è stato realizzato un sacco di lavoro prezioso. — Il che giustifica gli stanziamenti — disse Newland con un sorriso. — Che cosa fate esattamente qui? — Facciamo carte nautiche dell'oceano, analizziamo le correnti, pren- diamo campioni del fondo, misuriamo la salinità e la temperatura, esami- niamo le sostanze inquinanti: cose di questo tipo, insomma. Dalle porte aperte Newland intravide scrivanie da ufficio, schedari, file e file di apparecchiature. Attraversarono una stanza piena di vasche dove nuotavano pigramente grossi pesci dai colori vivaci. In fondo al corridoio c'era una massiccia porta aperta, che dava su una stanza in fondo alla quale c'era un ampio oblò. — Questa traversa qui in mezzo alla soglia vi crea difficoltà? — disse Ferguson. — No, nessuna — rispose Hal. — È un portello stagno? — chiese Newland. — Sì. Ci troviamo proprio in fondo allo scafo, qui, e quel settore oltre l'oblò è a diretto contatto con il mare. Ma ecco Randy Geller, che vi saprà dire di più. Geller, un giovane alto e pallido con una barba rossiccia, venne loro in- contro. Sorrise educatamente quando Ferguson lo presentò. — Stavo pro- prio per prendere un campione del fondo — disse. — Volete assistere al- l'operazione? — Sì, molto volentieri. Geller lo condusse all'oblò, attraverso il quale Newland vide una camera dai muri grigi. In alto c'erano binari con gru mobili, argani e cavi; sotto c'era un'acqua verde che si muoveva lentamente da sinistra verso destra, s'infrangeva contro il muro, per poi gonfiarsi di nuovo. — La pressione è equalizzata, immagino — disse Newland. — È per questo che è necessario l'oblò. — Esatto — disse Geller, sollevando sorpreso le sopracciglia. — La gente di solito ci chiede come mai l'acqua non entra, affondando la nave. Potremmo pressurizzare l'intero settore, come fanno nella zona di pesca, ma ogni volta che ce ne andassimo sarebbe necessario depressurizzare, e sarebbe una seccatura. Potremmo anche osservare cosa succede là dentro attraverso le telecamere, ma gli obiettivi si bagnerebbero in continuazione, così è comodo avere l'oblò. — Indicò una serie di schermi televisivi, di cui soltanto uno era acceso: su esso si vedevano dei corpuscoli gialli muoversi contro uno sfondo verdastro e indistinto. — Questa è la telecamera del ca- rotiere di fondo, che ormai dovrebbe essere arrivato giù. Sono mille metri, qui. Guardarono in silenzio, finché sullo schermo cominciò ad apparire qual- cosa: un terreno sassoso che sembrò in un primo tempo grigio-verde, poi marrone e infine, a mano a mano che la scena si avvicinava, quasi violace- o. Geller toccò un comando. — È un'anomalia — disse. — Noduli di man- ganese. In genere si trovano più a sudovest. Newland osservò attentamente. — Quanto sono grandi i noduli? — Direi che questi sono circa dieci centimetri. Vedremo quando tirere- mo su il campione. — Toccò di nuovo i comandi; l'immagine sullo scher- mo ruotò leggermente in giù, finché riuscirono a vedere il bordo d'entrata del complesso oggetto di metallo, che appariva giallo-verdastro nella luce. — Ecco. — Il bordo di metallo penetrò nel terreno, sollevando una nube di sedimenti. Geller premette un pulsante. — Ora dobbiamo solo aspettare che risalga. — Sullo schermo l'acqua torbida a poco a poco tornò normale e riapparve il carotiere, con minuscole particelle che fluivano giù in diago- nale. — Una cosa m'incuriosisce — disse Newland. — Ho notato che l'acqua sembra muoversi in direzione obliqua, ma immagino che la telecamera che ci offre questa visione sia rivolta verso prua. Ora, se ci muoviamo con la corrente, come mai succede questo? — Nel mare ci sono venti e correnti — disse Geller. — D'accordo, ma le correnti sul fondo sono diverse? È questo che inten- devo chiedere. — Sul fondo, qui, non ci sono correnti degne di tale nome, ma dalla su- perficie fino a cento metri di profondità la direzione della corrente effetti- vamente cambia: nell'emisfero settentrionale gira in senso orario. Perciò, quando ci muoviamo con la corrente di superficie, trasciniamo il cavo con- tro la resistenza di quel ventaglio di correnti trasversali, e quando lo riti- riamo avvolgendolo, torna indietro in diagonale. — Capisco. Quanto tempo occorre per riavvolgerlo? — Mezz'ora circa, ma se volete posso mostrarvi che cosa abbiamo preso con l'ultimo campione. Sotto un ampio cilindro di metallo dipinto di bianco, sulla parete accanto all'oblò, c'era un tavolo di marmo su cui era posato quello che pareva solo un mucchio di zolle e sporcizia. Quando Newland guardò più attentamen- te, vide che le zolle erano grumi granulosi e violacei grandi circa quanto il suo pugno; il resto era argilla scura. Geller gli allungò una delle piccole zolle, e Newland se la rigirò tra le mani incuriosito. — Ma come si forma- no? — chiese. — Sempre che non sia una domanda stupida. — No, è una domanda intelligente. Nessuno sa come si formano. Secon- do una teoria, il manganese si troverebbe in soluzione dentro il materiale vulcanico sotto lo strato di sedimenti, e in qualche modo filtrerebbe su condensandosi nel punto d'incontro tra sedimenti e acqua. Il motivo per cui lo si trova in terreni come questo è che si condensa solo intorno a oggetti solidi, di solito frammenti di rocce vulcaniche. Ma dentro queste zolle si trovano anche altre cose, come denti di pescecane e ossi di balene. — Interessante — disse Newland. — Come le perle che si formano in- torno a granelli di sabbia? Un sorriso lievemente ironico, da scienziato, si dipinse sul viso di Gel- ler. — Be', non esattamente. Newland non rispose al sorriso. — Si può vedere cosa c'è dentro questa? — chiese. — Certo, se volete. — Geller prese il nodulo, ne raccolse altri due dal tavolo e li portò fino a una macchina che somigliava un po' a un grande schiaccianoci di acciaio inossidabile. Collocò il primo nodulo tra le ma- scelle di acciaio, strinse l'impugnatura e ritirò un mucchietto di frammenti. — Roccia — disse, mostrando a Newland una piccola pietra rossastra e triangolare Mise nella macchina il secondo nodulo e lo ruppe. — Roccia. — Poi il terzo. — Bene, bene — disse. Volete dare un'occhiata a questo? Newland si avvicinò, curvandosi. Nel palmo di Geller, circondato da frammenti di manganese poroso, c'era qualcosa che assomigliava a una sfera di vetro cava e incrinata. — Che cos'è? — Sembrerebbe un'australite. È un'autentica anomalia. — Scusate, ma cos'è un'australite? L'orrore cominciò quando Geller aprì la bocca per rispondere. Chiuse gli occhi, barcollando. Poi riacquistò l'equilibrio e con aria stupita si portò una mano alla fronte. — Cosa c'è? — disse Newland. — Non lo so. Mi sono sentito sul punto di svenire. — State bene, adesso? — Sì. Non mi era mai successo. — Geller si chinò a raccogliere i fram- menti che aveva lasciato cadere e pulì dalla sporcizia la sfera di vetro. — L'australite è un tipo di tectite. È stata trovata vicino all'Australia, per quel- lo è chiamata così. Questa che vedete non dovrebbe trovarsi qui. — Che cosa sono, esattamente? — Non si sa nemmeno questo. Mostrano segni di fusione e de- formazione, per cui dovrebbero essere meteoriti, ma non sono mai state trovate assieme ai vari materiali meteoritici che avrebbero potuto fondersi per formarle. Esistono teorie anche sulla toro origine. Io però non è che sia un entusiasta delle teorie. La cosa essenziale sono i dati. — Posò con cura sul tavolo la sfera di vetro incrinata. — Aspettate che questa la veda il mio capo... 10 I lunghi corridoi pieni del brusio della gente avevano moquette di colori diversi: azzurra a sinistra, rossa a dritta, lilla e viola tra un fianco e l'altro, per cui era facile, sulla Sea Venture, capire dove ci si trovava. Stevens gi- rovagò per la nave, osservando la folla. La maggior parte dei passeggeri avevano l'aria degli americani medi, troppo agghindati e troppo ingio- iellati. Ma c'erano anche, qui e là, esotici sari e chador. Stevens si crogiolò al sole accanto alla piscina del ponte sportivo e imparò a conoscere di vista e salutare alcuni dei bagnanti più giovani. La sera visitò il casinò e perse alla roulette qualche centinaio di dollari. Sedette nella sala con i passeggeri più anziani e guardò il cielo e l'oceano sugli schermi televisivi, resi effica- cemente somiglianti a finestre. Parecchie volte, mentre passeggiava per i corridoi, aveva visto dal di dietro una testa grigia sopra una sedia a rotelle, ma ogni volta che si era avvicinato aveva scoperto che si trattava di una vecchia signora. Dalla sua cabina chiamò il centralinista e non si stupì di sentire che non c'era nessun Paul Newland nell'elenco dei passeggeri. Per scrupolo chiese anche di Harold Winter, il giovane che secondo le informazioni viaggiava con Newland, ma nemmeno lui era in elenco. Stevens era presente a ogni pasto che veniva servito al ristorante Liberty: colazione, spuntino delle dieci, pranzo, tè delle quattro, cena, spuntino di mezzanotte. Ma l'uomo che aspettava non comparve mai. Evidentemente lui e il suo accompagnatore mangiavano sempre in camera. Se quello stato di cose fosse continuato, sarebbe stato giudicato un grosso errore il fatto che non avesse cercato di prenotare un appartamento sul ponte delle comu- nicazioni; ma ormai non era possibile rimediare. Nel frattempo, sia per sua comodità che per motivi professionali, gli oc- correva una compagna: le persone sole sulla Sea Venture davano troppo nell'occhio. E proprio per quella ragione c'erano ben poche donne libere sulla nave. Stevens restrinse la rosa delle possibilità a tre ragazze abbastan- za carine che erano in viaggio con i loro genitori. Appena si presentò l'oc- casione, attaccò discorso in modo apparentemente casuale con tutte e tre le famiglie. Una di esse — i signori Prescott con la loro figlia Julie — lo pre- se più in simpatia delle altre due. I Prescott avevano vissuto per un certo tempo in Europa, dove Prescott era stato art director presso una compagnia automobilistica, e poterono scambiare con Stevens impressioni su Parigi, Losanna e Madrid. In risposta alle loro domande discrete, Stevens spiegò che era naturalizzato americano, che era dirigente di una società finanziaria di proprietà della sua famiglia e che aveva deciso di fare una crociera per motivi di salute. Dal canto loro i Prescott lasciarono capire che la figlia, una ragazza bionda dall'aria triste, stava cercando di riprendersi dopo un amore finito male. Aveva rinunciato a un lavoro di grafica con l'idea di mettersi a dipingere o di fare l'assistente sociale. A poco a poco Stevens diventò membro del loro gruppo; andavano alle conferenze insieme, cenavano insieme, giravano insieme per il ponte di passeggio. Con occhiate casuali Stevens mostrava che il suo interesse per Julie era un po' più che formale, ma non fece mai nessun gesto chiaro. Ben presto i Prescott cominciarono scherzosamente a spingere insieme i due giovani. Una sera, dopo che i genitori furono andati a letto più presto del solito con la scusa della stanchezza («Dev'essere l'aria di mare!» aveva detto la signora Prescott con una risata infantile), Stevens portò Julie al bar del casseretto e passò un'ora con lei in conversazione intima. Julie era ef- fettivamente reduce da una tragica storia d'amore: il suo uomo era morto. Le pareva che la vita non avesse nessun vero significato, disse, ma sapeva di dover continuare ad andare avanti. Dopo, lui la riaccompagnò al suo ap- partamento e la salutò con un inchino all'europea e un casto bacio sulla mano. La pazienza era tutto; e di tempo ce n'era in abbondanza. La sera successiva la portò a ballare, poi, prima di andare a letto, si fer- marono a prendere qualcosa da bere al bar Liberty. Era molto tardi. Oltre a loro nel bar c'erano una coppia ubriaca e piuttosto litigiosa, altre due cop- pie troppo ubriache per parlare, e un giovane corpulento che sedeva da so- lo in un angolo con un bicchierone davanti. Stevens lo riconobbe subito dalla fotografia: era Harold Winter. Stevens riaccompagnò Julie a casa, le diede il bacio della buona notte e tornò nella sua cabina a riflettere sui metodi per portare a termine il suo compito. Aveva ricevuto l'ordine di eliminare la vittima in maniera tale che non si riuscisse a far luce sul crimine; doveva restare un mistero. Poiché non gli sarebbe mai venuto in mente di comportarsi diversamente, aveva ascoltato le istruzioni senza fare commenti, ma aveva riflettuto parecchio sulla faccenda e concluso che evidentemente ai suoi nuovi clienti non im- portava soltanto la morte del professor Newland, ma anche che la respon- sabilità fosse attribuita a qualcun altro: non era infatti certo per proteggere Stevens che volevano che il mistero restasse irrisolto. Si trattava di sempli- ci congetture che non avevano nulla a che vedere con lui dal punto di vista professionale, ma aveva pensato inoltre che al Congresso si dovevano di- scutere i disegni di legge riguardanti gli stanziamenti per il programma della colonia spaziale, e che se l'amato leader del gruppo L-5 fosse stato assassinato a bordo della Sea Venture, con lo scandalo che ne sarebbe nato uno o due voti sarebbero forse stati guadagnati. Perciò era convinto di sa- pere chi fossero i suoi clienti, e cominciava a immaginare un abbozzo di piano: la chiave era il giovane accompagnatore-infermiere che non la- sciava mai il suo padrone tranne quando questi dormiva. Se effettivamente quella era la regola, la prima parte del problema, ovvero isolare la vittima, era risolta. Il resto era solo questione di ingegnosità per trovare la soluzio- ne più elegante. 11 Il capitano Hartman gironzolava per i corridoi della Sea Venture per controllare se per caso qualcosa non andasse. Prima di ritirarsi dall'attività, all'epoca in cui era comandante della Queen, tutti i giorni perlustrava un settore dopo l'altro, tranne quello macchine, che era dominio esclusivo del primo ufficiale di macchina. Portava con sé una torcia elettrica, con la qua- le guardava sotto i tavoli e i banconi se ci fosse sporcizia. Era solito con- trollare tutte le cose che saltavano subito agli occhi: apparecchiature non rimesse a posto oppure guaste, ottoni opachi, cibo andato a male nei frigo- riferi. Ma quello era il meno; con una sorta di sesto senso cercava di intui- re se c'era qualche magagna non immediatamente visibile, e più di una vol- ta l'aveva scovata. In un certo senso si sentiva in colpa per il fatto di ispezionare la nave di un altro, ma non riusciva a vincere quell'impulso irresistibile. Non aveva nulla da dire contro Bliss. La Sea Venture tra. troppo grande; Bliss era co- stretto ad affidare le ispezioni ai suoi secondi, e Hartman lo capiva. Tutta- via perlustrava la nave tutti i giorni. Ascoltava il frastuono del new rock nel cabaret e guardava le persone anziane dondolare nella loro sala da bal- lo al suono di Louie, Louie. Scendeva nei meandri del personale, dove i macellai e i fornai si affaccendavano con le loro mansioni, e osservava le cameriere andare e venire con montagne di biancheria. Percorreva il ponte di passeggio, con i suoi schermi televisivi alti e squadrati, che sembravano la copia quasi perfetta di finestre affacciate sull'oceano. Faceva il giro del ponte sportivo, scrutando gli allegri tennisti, gli allegri bagnanti e i vecchi che giocavano a shuffleboard. Attraverso Ferguson gli arrivò l'invito a vi- sitare la sezione perm, dove osservò la zona di pesca e la fattoria idroponi- ca e guardò i bambini giocare. Sarebbe stato troppo facile dire che a disturbarlo era la differenza tra la Sea Venture e qualunque altra nave avesse conosciuto. Bliss aveva perfet- tamente ragione: non era una nave. La Queen era un albergo galleggiante di nome, ma la Sea Venture lo era di fatto. A parte Bliss e lui, non c'era un solo marinaio a bordo. Non c'erano motori, solo un generatore per l'elettri- cità; gli affari cilindrici che passavano per vele venivano aperti e chiusi da meccanismi azionati dal computer. La nave aveva tre sistemi indipendenti di guida inerziale, e apprendeva la propria posizione attraverso segnali di satelliti. Bliss la chiamava "zattera", e non aveva tutti i torti. Ma lui, Har- tman, a bordo della Queen era stato per nove decimi manager e per un de- cimo marinaio: a turbarlo non era il contrasto tra i vecchi tempi e i nuovi. C'era qualcos'altro. Lo sentiva, gli pareva di annusarlo nell'aria, quel qual- cosa, e che a volte fosse addirittura palpabile. Luis Padilla prese i piatti dalle mani dall'aiuto-cuoco, li posò sul carrello e tolse i coperchi per controllare il contenuto: cuori di carciofo, consommé in gelatina, caviale, crackers. Tutto giusto. Si fermò dallo steward addetto agli alcolici per ritirare una bottiglia di Tio Pepe, poi spinse silenziosa- mente il carrello oltre le porte di servizio, percorse il corridoio fino all'a- scensore e uscì sul ponte sportivo per andare a bussare al numero 18. — Avanti! — Quella voce era come un'albicocca matura. Padilla entrò. Lei era là, con indosso un indumento tutto merletti molto leggero e mol- to ampio, che ondeggiava a ogni movimento del corpo. La signora Emer- ton... Alta quasi due metri, settanta chili di peso, i capelli ricci. Il signor Emerton non c'era. — Mettete pure giù, Luis caro. Firmo dopo, vi spiace? Stavo proprio per andare sotto la doccia. — Lo guardò con aria civettuola e scomparve subi- to in bagno. Sulla toletta, mezzo nascosto da un abito da sera appoggiato alla sedia, c'era un portagioie aperto dal quale sporgevano, come il tesoro di un pirata, perle e catene d'oro. A una delie catene era appeso un pendente, uno sme- raldo grande come l'unghia di un pollice, che brillava di riflessi verdi. Padilla posò i piatti coperti sul tavolo, distribuì le posate d'argento, tirò fuori il cavatappi e aprì la bottiglia, quindi annusò il tappo e lo mise giù. Verificò che tutto fosse al suo posto, prima di andare via, e buttò un'ultima occhiata allo smeraldo. Non era la prima volta che quei gioielli erano così in bella vista. La si- gnora Emerton era molto distratta, oppure sperava di indurlo a compiere un'azione sconsiderata. Ma lui non avrebbe mai ceduto alla tentazione. Una volta, quando aveva dieci anni, il suo insegnante americano era arriva- to in classe ubriaco e aveva cantato agli alunni una canzone che gli aveva insegnato suo nonno. Era una canzone che i soldati americani cantavano all'epoca dell'occupazione. Maledetto, maledetto il filippino, pigro vile e ladròn. Sotto la bandiera a stelle e strisce, civilizzalo con un Krag, e ri- mandaci nella nostra amata patria. Luis aveva pensato che il "crag" fosse una parte di montagna e che i soldati americani volessero annientare i fi- lippini facendo rovinare loro addosso una montagna. In seguito aveva sco- perto che il Krag era un tipo di fucile. Quella canzone gli risuonò nella testa quando riportò il carrello vuoto al- l'ascensore. Una volta, quando aveva sei o sette anni, suo padre l'aveva picchiato perché aveva rubato un giocattolo all'emporio. — Non siamo la- dri, hai capito? — E giù botte. — No somos ladrones. Capito?! — E giù botte. — Capito? — Era stata la miglior lezione che Luis avesse mai rice- vuto. La signora Emerton poteva esporre finché voleva i suoi gioielli o an- che il suo corpo: né l'uno né l'altro avevano alcunché da temere dal perso- nale della Sea Venture. Padilla entrò in cucina fischiettando. Dopo, nella sala di ritrovo degli steward, si sedette con il suo amico Manuel Obregòn a bere un po' di vino. Obregòn e lui lavoravano in due zone diverse della Sea Venture, ma si era- no imbarcati nello stesso periodo e dopo l'iniziale conoscenza avevano continuato a frequentarsi. Parlavano in un misto di filippino, spagnolo e inglese; si raccontarono molte barzellette e risero di gusto. D'un tratto Pa- dilla si sentì girare la testa e il gomito gli scivolò giù dal tavolo. Per poco non cadde in avanti, ma poi si riprese. Quando si raddrizzò vide con orrore che il suo amico era crollato in terra, dove giaceva con la faccia gonfia e gli occhi rivolti in su, come un morto. 12 Il dottor Wallace McNulty, all'età di quarantanove anni, era vittima di un singolare tipo di notorietà. Quando era stato eletto presidente della Società Medica della contea di Santa Barbara, poco dopo la morte di sua moglie, una ragazza di vent'anni, il New Yorker, in uno di quegli articoletti che metteva alla fine dei pezzi principali, aveva pubblicato alcune notizie ine- satte. Invece di dire semplicemente che McNulty si era laureato all'Univer- sità di California, aveva elencato moltissimi altri stati, sicché sembrava che lui si fosse laureato in un gran numero di università. Il dottor McNulty a- veva portato per un po' il ritaglio di giornale nel portafogli e, vincendo l'imbarazzo, l'aveva mostrato agli amici per dimostrare che aveva spirito sportivo. Aveva scoperto però che, una su tre, tutte le persone leggevano il ritaglio, lo guardavano di sottecchi e dicevano: — Ma davvero tu sei...? — Allora lui doveva spiegare che era uno scherzo, un errore. Aveva buttato via il ritaglio dopo una o due settimane, ma ogni volta che si presentava a persone nuove, per un attimo temeva sempre che dicessero: — Il dottor Wallace McNulty? Non siete voi quello che...? — Aveva finito con il pro- vare diffidenza per le nuove conoscenze, e perfino per i pazienti che aveva da anni. L'occasione di imbarcarsi sulla Sea Venture era arrivata quasi provvi- denzialmente. Un suo amico, Ray Herring, era stato assunto sulla nave come direttore dei servizi medici, ma all'ultimo momento aveva avuto dei problemi in famiglia ed era dovuto rimanere a Santa Barbara. Ray aveva chiesto a McNulty se voleva lui quel lavoro e McNulty si era accorto di volerlo. Aveva fatto domanda ed era stato accettato. E in complesso non se n'era mai pentito. Aveva un piccolo ospedale di otto letti sul ponte di manovra, le apparecchiature diagnostiche più recenti, e tre infermiere dal temperamento allegro. Aveva meno lavoro che a casa, ma faceva più soldi, anche senza contare il vitto e l'alloggio gratis. Una mattina, mentre era intento a visitare le solite persone con il mal d'orecchi e la gola infiammata, Janice venne da lui con il telefono in mano. — Dot- tore, c'è un'emergenza. Qualcuno è crollato in terra all'improvviso, nel la- boratorio marino. — Va bene, passatemi il telefono. Finite voi con la signora Omura, per favore? — Andò nella stanza adiacente, parlando mentre camminava. — McNulty. Qual è il problema? — Non lo so — disse una voce di donna. — Fino allora era stato benis- simo, poi di colpo... — Respira? È cosciente? — Be', respira abbastanza lentamente. Ha gli occhi semiaperti, ma pare che non senta quando gli parliamo. Credo sia meglio che veniate qui. — Arrivo subito. Mettetegli addosso una coperta o qualcosa del genere. McNulty fece capolino nell'ambulatorio dove Janice stava medicando con un tampone le orecchie della signora Omura. — Avrò bisogno di una barella e di un paio di portantini. Li potreste... — L'ho già fatto, dottore. Stanno arrivando. — Caspita, che celerità — disse McNulty, contento in cuor suo. Quando giunse al settore marino, trovò un gruppetto radunato intorno a un uomo con la barba rossa, che giaceva davanti a una vasca di pesci con tre o quattro giacche da laboratorio buttate addosso. — Bene, chi era presente quando si è sentito male? — chiese McNulty, accovacciandosi accanto al paziente. Controllò l'impianto di aerazione, poi sentì il polso all'uomo, che era lento e debole. — Io — disse una donna bruna. — Eravamo giusto qui in piedi a chiac- chierare. A un certo punto è rimasto zitto qualche secondo; io l'ho guardato e ho visto che aveva una strana espressione. E dopo è crollato in terra. In seguito McNulty scrisse sul suo notes: "Randall Geller, biologo mari- no, età trentun anni. Collasso nel laboratorio marino verso le nove e venti di mattina del 29 dicembre. Nessun segno di traumi. EEG negativo. Anali- si chimica negativa. Il paziente è in stato di stupore, non reagisce agli sti- moli". Il giorno dopo aveva un altro paziente con gli stessi esatti sintomi: Yvonne Barlow, direttore di Geller al laboratorio marino. Era la giovane donna bruna con cui McNulty aveva parlato, quella che era in compagnia di Geller quando questi si era sentito male. McNulty era perplesso. Tornò al laboratorio, si guardò in giro e fece domande, sperando di scoprire che c'era stata una perdita di qualche gas tossico. Ma nessuno aveva usato gas tossici. Il fatto che Geller e la Barlow avessero accusato quei sintomi a un giorno di distanza l'uno dall'altra face- va pensare che si trattasse di una malattia di cui McNulty non aveva mai sentito parlare. I suoi due pazienti erano ancora in stato di stupore, e non reagivano agli stimoli. Più tardi, quel pomeriggio, si aggiunse un terzo paziente, Manuel Obre- gòn, uno steward. Obregòn si era trovato nella stessa stanza della Barlow, quando lei aveva avuto il collasso. McNulty cominciò a pensare di avere a che fare con una malattia epide- mica. Telefonò al Centro Controllo Malattie di Atlanta. Ma nemmeno il lo- ro computer sapeva di un disturbo caratterizzato da quei sintomi. 13 Dalla sua posizione in mezzo alla rete elettrica del cervello dell'uomo, vide avvicinarsi un'altra persona. Era ora di andare: sentiva il fascino della nuova avventura. Sgusciò fuori e per un vertiginoso istante fu solo un dia- gramma di energia consapevole di altri diagrammi nello spazio, un campo scuro e pericoloso che si estendeva sino all'infinito. Si spostò verso la per- sona più vicinarsi fuse con essa, si inserì al suo interno, e di nuovo sentì l'incredibile pioggia di informazioni sensorie, i colori vividi, i profumi, i vestiti che sfioravano il corpo, gli indumenti intimi che lo fasciavano, le scarpe che stringevano i piedi, e poi i suoni, i segnali che informano sulla posizione delle membra. Lo shock fu così grande che per un attimo le tre- marono le ginocchia e mancò poco che cadesse. Quando si riprese, vide l'uomo che giaceva a terra con gli occhi semiaperti e la bocca socchiusa. Succedeva sempre così, quando usciva dal corpo: finché era dentro riu- sciva a farli restare coscienti e perfino a migliorare la rete elettrica della lo- ro mente, ma appena andava via risentivano del salasso di energia da lei operato. — Julie, stai bene? — Un uomo che conosceva, John Stevens, era chino su di lei. — Sì, mi pare di sì — si sentì rispondere. — Ho solo avuto... Cos'ha fat- to quell'uomo? — Gli è venuto una specie di colpo. Siediti qui un attimo, che vado a vedere se posso fare niente per lui. Quando tornò, Stevens disse: — Hanno chiamato il medico. Tu sei sicu- ra di stare bene? — Sì, certo. Entriamo. — Studiò affascinata i cambiamenti che avevano luogo nel suo corpo in risposta alla presenza di lui, al contatto delle loro pelli, al lieve odore maschile che si coglieva sotto il profumo dell'acqua di colonia. Aveva provato sensazioni del genere già una o due volte, in altri corpi, ma mai con tanta intensità. Il cuore le batteva più forte e si accorse di avere le guance rosse. Adesso erano nel ristorante, dove i tavoli erano coperti da tovaglie im- macolate color zafferano e apparecchiati con piatti di porcellana, posate d'argento e bicchieri di cristallo. Su ciascun tavolo c'era un vaso di fiori, e i tovaglioli, anch'essi color zafferano, erano piegati in forma di fiore, sui piatti. Un cameriere in giacca color zafferano porse loro un menù color zafferano. Sentì se stessa dire: — Credo che prenderò solo una sogliola. Non ho molta fame. — Julie, se non ti senti bene dovresti andare a sdraiarti un po'. Dico sul serio. Lei avvertì di nuovo le reazioni di prima, ancor più forti. Era in- tensamente consapevole delle proprie cosce e delle ginocchia dell'uomo a pochi centimetri dalle sue, sotto il tavolo. — Non voglio che babbo e mamma si spaventino — sentì se stessa dire. — Senti, nemmeno io ho fame. Andiamo nella mia cabina. Ti sdrai lì mezz'ora, finché non sei sicura di stare bene. Lasciarono il ristorante e s'incamminarono lungo il corridoio viola, pas- sando accanto ad altre persone che indossavano gli abiti più vari. Ciò che vedeva e i profumi che sentiva le piacevano, anche se il corpo ospite non prestava alcuna attenzione a quelle cose; sarebbe voluta restare al risto- rante per assaporare altre di quelle sensazioni che dava il cibo umano e che aveva trovato così gradevoli in passato; ma avrebbe avuto tutto il tempo, in seguito. Ora stavano salendo in silenzio, con l'ascensore: che ingegnosità! Poi imboccarono un altro corridoio. L'uomo aprì una porta e la fece entrare dentro poggiandole sulla schiena la sua grande mano calda. — Mie, cara — disse, stringendola in un abbraccio. I loro corpi si pre- mettero l'uno contro l'altro, e i tessuti molli si appiattirono; la mano di lui salì più in alto sulla sua schiena e la sua bocca si posò, calda e umida, su quella di lei. Julie chiuse gli occhi e circondò con le braccia John, tastan- dogli i muscoli duri della schiena. Lui le inserì dolcemente la lingua in bocca e lei sentì che il corpo ospite si abbandonava alla stretta. L'organo cavo tra le sue cosce si schiuse e inumidì. Il respiro le uscì fuori dai pol- moni, e lei allontanò il viso e lo premette contro la spalla di John. — Julie, cara... Il cuore le batteva forte; le sensazioni erano così intense che quasi non riusciva a reggerle. Lui le sbottonò la camicetta e gliela sfilò. Le slacciò il reggiseno e le posò le mani sui seni. Poi la lasciò un attimo per tirare indie- tro le coperte dal letto; quindi le tolse la gonna e le mutandine e le buttò su una sedia. Lei si sdraiò sul letto nuda, con la pelle umida che avvertiva il freddo della stanza. Attraverso gli occhi socchiusi dell'ospite guardò l'uo- mo svestirsi. L'organo che lui aveva tra le cosce era eretto e luccicante. E- videntemente si stavano accingendo a compiere un atto riproduttivo, il pri- mo cui avesse assistito negli esseri umani. L'interesse che provava era qua- si superiore all'eccitazione. Poi lui le baciò il corpo ed entrò in lei, e lei mosse i fianchi in su, mentre le sensazioni raggiungevano un livello che non avrebbe mai ritenuto possi- bile. Quando le cortesie post-coito furono terminate, si vestirono e scesero al grill del ponte di manovra. Stevens, che aveva fino allora represso una fa- me tremenda, divorò un filetto di manzo con contorno di patate al forno. Julie invece si fece portare l'insalata dello chef. Stevens la accompagnò fin sulla porta della sua cabina e la lasciò sussur- rando: — A domani. — Quando tornò nella propria cabina si sentì allegro e rilassato, ma non aveva per niente sonno. A metà del suo duetto con Julie gli era venuta in mente un'idea molto interessante. Non c'era motivo di non provare a dare un'occhiata prima di dormire. Tirò fuori dall'armadio una borsa da viaggio, ne estrasse un leggero astuccio di pelle e se lo infilò nel taschino. Prese l'ascensore e scese al ponte delle scialuppe. Non incontrò nessuno nel corridoio. Scelse un'area a cinque o sei metri dagli ascensori. Le due entrate che vi trovò davanti erano chiuse da due pesanti porte stagne. Si chinò a esamina- re la serratura della numero cinquantatré. Era una fessura quasi invisibile, destinata chiaramente a una chiave magnetica. Dal suo astuccio tirò fuori una striscia di plastica con un'impugnatura rotonda e la collegò a una sca- toletta di metallo piatta e nera. Infilò delicatamente la striscia di plastica nella serratura e guardò le luci lampeggiare ripetutamente. Ritirò la striscia e la inserì in una fessura della scatola; le luci lampeggiarono di nuovo, poi si spensero e furono sostituite da una luce verde costante. Stevens sorrise. Ritirò la striscia e la infilò nella serratura. Si sentì un lieve ronzio, e la porta massiccia si aprì. Stevens entrò, chiuse la porta alle proprie spalle e si chinò a guardare il portello della scialuppa. Provò la medesima chiave di prima e il portello si aprì. All'interno della scialuppa si accesero le luci e l'aeratore. Stevens en- trò e si guardò intorno. Accanto al portello, come ricordava, c'era un pan- nello di accesso. Con un cacciavite preso dall'astuccio staccò il pannello in un paio di minuti. Dentro c'era una serie di pulsanti sotto cui era scritto CAVI, USCITA SCIALUPPE e così via. Sotto l'ultimo era scritto AUTO- LANCIO, e accanto c'era un timer. Stevens ancora una volta sorrise; rimise a posto il pannello e se ne andò com'era venuto, chiudendo ermeticamente le porte alle proprie spalle. Con tutta probabilità un circuito avrebbe segnalato che si erano aperti i portelli a una console del Centro di Controllo, ma se per caso qualcuno se ne fosse accorto, avrebbe concluso che c'era stato un guasto elettrico. Nella sua cabina si sdraiò sul letto e guardò un film cinese trasmesso da Hong Kong. C'erano sottotitoli sia inglesi sia cinesi. I costumi erano sfar- zosi. L'intreccio sembrava riguardare una giovane donna che si travestiva da travestito. C'era una sposa novella che a un certo punto appariva con un paralume arancione in testa. L'eroina passava gran parte del suo tempo a gingillarsi in pose aggraziate, ma ogni tanto perdeva la pazienza con una banda di guerrieri e li uccideva come mosche. Seguì un documentario sulla microelettronica. Stevens spense la televisione e si mise tranquillamente a dormire. La mattina dopo chiamò il centralino e chiese la suite Washington. — Sì? — disse una voce maschile. — Il professor Newland, per favore. — Mi spiace, ma qui non c'è nessuno con quel nome. Dev'esserci un er- rore. Dopo provò a chiamare la suite Lincoln, con lo stesso risultato. Poi la suite Cleveland, la Jefferson e la Adams, che non rispose. Infine la McKin- ley. — Pronto? — Il professor Newland? — Chi parla? — Sono Jack Boyle dell'SV Journal, sapete, quel piccolo quotidiano che stampiamo per i passeggeri. Voi siete il professor Newland? — No, sono il suo assistente. Il professor Newland non concede intervi- ste. — Oh, che peccato. Be', grazie lo stesso. 14 Il consiglio d'amministrazione si riuniva sempre nella sala delle confe- renze sul ponte di manovra, perché la sala era a metà strada fra il Centro di Controllo e la sezione perm. La maggior parte degli altri erano già lì quan- do arrivarono Bliss e McNulty: c'erano i cinque membri del consiglio co- munale, il sindaco Ben Higpen e i rappresentanti della zona di pesca e del settore idroponico. Di solito a rappresentare i biologi marini c'era Yvonne Barlow, che però adesso si trovava in ospedale, e quelli del reparto marino non avevano mandato sostituti. Bliss trovò un posto libero per McNulty, poi andò a capotavola a parlare con Yetta Bernstein, presidente del consiglio. Yetta aveva inforcato gli oc- chiali e stava armeggiando con alcuni fogli che aveva davanti a sé. — Scusate, signora Bernstein — disse Bliss, protendendosi verso di lei. — Ho un punto da inserire nell'ordine del giorno, se non vi spiace. Lei lo fissò con uno sguardo duro. — I punti all'ordine del giorno do- vrebbero essere proposti dieci giorni prima della riunione. Lo sapete benis- simo, signor Bliss. — Sì, certo, ma è una questione di emergenza. Un problema medico. Ho portato con me il dottor McNulty perché ve ne parli. — Che tipo di problema medico? — Un pericolo di epidemia. — Va bene. Lo metterò al settimo posto dell'ordine del giorno. — Grazie, signora Bernstein. Bliss tornò alla sua sedia. I primi sei punti riguardavano l'assunzione di un nuovo insegnante di matematica per il liceo, piccoli fastidi con l'im- pianto di condizionamento d'aria, una proposta per cambiare il programma di semina primaverile, e questioni simili. Bliss dopo un po' smise di segui- re. — Punto sette — disse la signora Berstein. — Pericolo di epidemia. Dottor McNulty... McNulty parve trasalire. — Due giorni fa — disse schiarendosi la voce — mi si sono presentati i primi casi di quella che appare come una malattia contagiosa sconosciuta. Lunedì ho esaminato due casi, ieri altri tre, e oggi, fino a questo momento, ce ne sono altri due. In ospedale abbiamo solo otto letti. Possiamo infilarci ancora due letti e magari metterne un terzo in am- bulatorio, ma dopo di locali disponibili non ce ne sono più. Abbiamo biso- gno di altro spazio e finché non avremo capito meglio di che tipo di ma- lattia si tratta, credo sia opportuno che l'area di ricovero sia isolata. — Come si manifesta, la malattia? — chiese Ira Clark, il dentista. — I sintomi non hanno precedenti. I pazienti all'improvviso crollano in terra e piombano in stato di stupore. Li alimentiamo con una sonda gastri- ca. — Signor Bliss? — disse la signora Bernstein. — Il dottor McNulty mi ha chiesto di sgombrare una parte del ponte di manovra, vicino all'ospedale, e di trasferire i passeggeri altrove — disse Bliss. — Una parte grande quanto? Bliss alzò un sopracciglio, rivolgendosi a McNulty, che disse: — Non ha senso fare le cose a metà. Ci vorrebbero circa cento cabine, cioè il corri- doio tredici dall'F al K. Avremo bisogno anche di altre infermiere. — Una cosa alla volta — disse la signora Bernstein. — Signor Bliss, voi cosa ne pensate? — Credo che non abbiamo molta scelta. Naturalmente la cosa in seguito avrà una certa incidenza sul bilancio. La signora Bernstein strinse le labbra. — Potete fare in modo che i pas- seggeri si spostino? — Oh, sì. Non saranno molto contenti, però. — Dottor McNulty — disse un altro membro del consiglio — se vi con- cediamo questa dépendance dell'ospedale, o comunque la vogliamo chia- mare, riuscirete a contenere l'epidemia? — No, le cose non stanno in questi termini. La malattia non sembra con- tagiosa dopo che il paziente ha avuto il collasso. C'è un periodo di latenza. Ma penso che sarebbe in ogni caso una buona idea isolare i pazienti. Del resto non possiamo seminarli qui e là. — Altri commenti? — chiese la signora Bernstein. — Mettiamo la cosa ai voti — disse Higpen. — La mozione è di approvare lo sgombero di una zona passeggeri sul ponte di manovra, dal... come avevate detto, dottor McNulty? — Il corridoio tredici dall'F al K. — Bene. Chi è favorevole? Tutti quanti alzarono la mano. — Mozione approvata. Signor Higpen, potete controllare se ci sono per- sone a bordo che hanno esperienza in campo infermieristico, e metterle in contatto con il signor Bliss e il dottor McNulty? — Sì. Ne ho già in mente tre o quattro. — La riunione è aggiornata. Mentre gli altri se ne andavano, la signora Bernstein, il sindaco Higpen e Ira Clark si avvicinarono a Bliss e McNulty. — Andiamo là dentro a parla- re un attimo — disse la Bernstein. Si sedettero a un tavolo rotondo nella piccola stanza adiacente alla sala delle riunioni. — Dottore, quanto è grave la situazione? — chiese la signo- ra Bernstein. — È difficile a dirsi. Sono abbastanza sconcertato perché è una malattia diversa da tutte quelle conosciute. Ira Clark, che aveva il tipico aspetto dello studioso, si protese in avanti. — Quali sono i sintomi, prima del collasso? — Ch'io sappia, nessuno. Ah sì, c'è una cosa. Un capogiro momentaneo o un senso di svenimento, circa un giorno prima della crisi. — E se dicessimo a tutti di avvertirvi nel caso che provino un capogiro? In questo modo non riusciremmo a isolare i malati e a impedire il conta- gio? — Forse. Ma non è tanto semplice. In un posto così grande, a quanta gente può girare la testa? È un disturbo frequente, specie nelle persone an- ziane. — Ma sareste disposto a tentar re? — Certo. In tal caso potrebbero occorrermi però altre cento stanze. — Signor Bliss? — Signora Bernstein, signori — disse Bliss, allargando le braccia. — Sono pronto a fare tutto quello che appare ragionevole, ma non possiamo procedere con un po' più di calma? Dottore, almeno per il momento non credete che cento cabine possano bastare? — Credo di sì. Se non sono sufficienti, possiamo sempre chiederne altre. Il cercapersone di McNulty trillò. — Scusate — disse il dottore tirando fuori l'apparecchio dalla tasca. — Pronto, McNulty. — Ascoltò un attimo, poi disse: — Va bene, arrivo. — Mise via l'apparecchietto e annunciò: — Ho un altro paziente, e siamo così a quota otto. Devo andare. 15 Il nuovo paziente era Julie Prescott, ventott'anni. I suoi genitori assaliro- no McNulty con una serie di domande ansiose. Con loro c'era un giovane di nome Stevens; lui e la signorina Prescott si trovavano sul ponte di pas- seggio quando lei aveva avuto il collasso. — Sapete se abbia avuto un capogiro prima di sentirsi male? — chiese McNulty. — Be', a dir la verità sì, ma solo per un attimo. È strano, no, visto che l'aveva avuto anche ieri? — Quando? A che ora? — Verso le sette, al ristorante Liberty. McNulty si segnò un appunto. — Non c'è stato un uomo che ha avuto un collasso, vicino al vostro tavolo? — Sì. È davvero sorprendente, dottore. McNulty sentì un soffio d'aria fredda sulla pelle. Tracciò una crocetta e la chiuse in un quadrato. — Signor Steyens, vedrò se posso farvi trasferire temporaneamente in un'altra stanza. Sarà in isolamento, in un corridoio qui sul ponte di manovra. — Posso chiedervi perché? — È possibile che siate stato contagiato. Non voglio allarmarvi, ma cre- do che la soluzione migliore sia di mettervi in un posto dove possiamo te- nervi d'occhio. Siete in viaggio da solo? — Sì. — Be', se foste effettivamente colpito dalla malattia, non trovereste al- cun vantaggio nello stare da solo. — McNulty premette un bottone sulla sua scrivania. — Jan, potreste chiamare l'ufficio di Bliss e vedere di far trasferire al più presto il signor Stevens in una cabina isolata? — Sì, dottore. Che cabina ha adesso? McNulty lo chiese e passò l'informazione a Jan. — Nel frattempo sareb- be meglio che non tornaste nella vostra stanza — disse a Stevens. — Se volete aspettare per cortesia nell'ufficio esterno, appena saremo pronti per il trasferimento vi avvertiremo con il cicalino. — Tutto questo suona molto allarmante, dottore. — Sì, lo so, ma voi mi sembrate il tipo di persona che accetta di fare tut- to ciò che occorre fare. — Grazie — disse Stevens con un sorriso accattivante, e si alzò. — A dopo, allora. L'uomo non aspettò affatto. Appena ebbe lasciato l'ufficio, l'osservatore che era entrato in lui notò con interesse che il suo turbamento non trapela- va dai muscoli del viso. L'uomo si mosse senza fretta e con naturalezza, mentre attraversava il corridoio per arrivare all'ascensore. Si spostò di lato per lasciar entrare due donne anziane, e quando l'ascensore cominciò a sa- lire pensò simultaneamente a due cose. La prima era che se, com'era pro- babile, aveva preso da Julie una malattia infettiva, gli restava poco tempo per portare a termine il lavoro. Non poteva correre il rischio di aspettare fino a sera per passare all'attacco. Avrebbe dovuto rinunciare a fare le cose con eleganza e usare il metodo spiccio e brutale. Nella sua mente c'era l'immagine di una luccicante pistola grigio-acciaio, abbastanza piccola da poter essere nascosta nel palmo della mano; e la pistola si trovava in una borsa da viaggio chiusa a chiave nel suo armadio. Sotto quelle immagini ce n'era un'altra fortemente repressa: era la visio- ne di un uomo, lui stesso, sdraiato in un letto d'ospedale con una sonda nel naso. Di tutte le cose che potevano succedergli, pensava, una malattia co- me quella era la peggiore. Ricordò di essersi detto anni prima che avrebbe preferito morire che vivere come un inutile vegetale; ma ricacciò via quel pensiero. Alla superficie della mente apparvero altre immagini: la porta che si apriva, un giovane che gli veniva incontro: Harold Winter, l'accom- pagnatore di Newland. Lui alzava la pistola... L'osservatore capì con rammarico che era ora di andare. Anche per lui esistevano rischi inaccettabili. Sgusciò fuori, nello spazio nero e indistinto pieno di diagrammi che fluttuavano come fiocchi di neve, e si avvicinò al corpo più vicino. Il signore e la signora Eulan Neffield avevano appena finito di vestirsi per andare a cena quando sentirono bussare alla porta. — Sì? — disse la signora Neffield. — Sicurezza. Il signor Neffield aprì la porta e vide una donna in uniforme, ac- compagnata da uno steward e una hostess. — Signor Neffield, scusate se disturbiamo voi e vostra moglie, ma c'è un'emergenza medica e siamo co- stretti a farvi trasferire in un'altra cabina. — Cos'è questa storia? — disse la signora Neffield avvicinandosi con a- ria vigile. — Dovete trasferirci? Perché? — Sgombriamo questo corridoio per creare una dépendance dell'ospeda- le, signora Neffield. — Questa poi! Io non mi sposto sicuro. — Liberissima di non spostarvi, signora, ma in tal caso sarete circondata da persone affette da una malattia contagiosa. — Oh mio dio! — disse la signora Neffield. — Eulan, che cosa aspetti? 16 Quando l'ascensore si fermò, lei era ancora scossa e disorientata; la sua compagna, la signora Murphy, se ne stava appoggiata alla parete a fissare con le dita in bocca l'uomo steso sul pavimento. — Cos'è successo? — sentì se stessa dire. La signora Murphy emise un suono inarticolato. La porta si aprì. — Vieni — disse lei, prendendo l'altra donna a braccet- to. — Usciamo, Georgette, presto! Nel corridoio, mentre la porta dell'ascensore si chiudeva, la signora Murphy disse: — È... È... — L'hai visto? — Certo, perché, tu no? È crollato giù... — Ero voltata di spalle. Per un attimo mi sono sentita proprio strana. Su, cara, vieni, dobbiamo avvertire qualcuno dell'accaduto. — Questo qui è il piano giusto? — chiese la signora Murphy, guardan- dosi intorno con espressione ottusa. — Sì, il ponte delle comunicazioni. Vedi?, è scritto qui. Su, vieni, Georgette. Passarono accanto a uno steward con un carrello. Lo steward stava al- zando la mano per bussare a una porta che si trovava accanto a una targa d'ottone non troppo in vista, su cui era scritto SUITE MCKINLEY. Le tor- nò il vago ricordo di qualcosa che aveva conosciuto e sgusciò di nuovo via dal corpo ospite, in mezzo al vuoto indistinto; e quando fu colpito dalla nuova valanga di sensazioni, barcollò e si afferrò al carrello per riprendere l'equilibrio. Una donna urlava accanto a un'altra donna che stava stesa in terra con le sottane sopra le ginocchia e gli occhiali vicino alla testa. Appena ebbe calmato la donna che urlava e appena l'ebbe affidata ai due portantini che erano venuti a prendere la sua amica, poté concentrarsi di nuovo sulle sue incombenze. Il carrello era rimasto davanti alla porta cin- que minuti buoni; il cibo doveva essersi raffreddato, ed era un peccato. Bussò alla porta, che fu subito aperta dal signor Winter. — Buongiorno, signore — disse lui, spingendo dentro il carrello. — Scusate il ritardo, purtroppo c'è stato un piccolo incidente nel corridoio. Una signora si è sentita male. Ho dovuto chiamare la sicurezza. — Adesso sta bene? — Sì, signore. — Notò con estremo interesse l'ometto dai capelli grigi sulla sedia a rotelle. — Buongiorno, professor Newland. Ecco il vostro pranzo, finalmente. — Scoprì il vassoio e cominciò a mettere i piatti sul tavolo. — Sbaglio, o avete detto che qualcuno si è sentito poco bene? — È così, signore. Poveretta, quella donna. — Ormai era vicinissimo; sgusciò fuori, attraversò il vuoto e fu di nuovo dentro un corpo, giusto in tempo per alzare la testa e sentire la voce di Winter che diceva: — Profes- sore, state bene? — Sì — disse. — Cos'è successo a Kim? — Ha perso conoscenza. Sarà meglio che chiami qualcuno. — Prima una donna nel corridoio, e adesso Kim. Credete che sia una forma di malattia contagiosa? Non ascoltò la risposta; era troppo assorbito dalla complessa rete menta- le del nuovo ospite. Aveva previsto che Newland fosse interessante, e non si era sbagliato: era interessantissimo. — Attenzione, a tutti i passeggeri e l'equipaggio. — La voce echeggiò per i corridoi. Nelle sale di ritrovo, nei ristoranti, al casinò, nella zona shopping, le teste si girarono a guardare gli schermi televisivi, su cui era apparsa una faccia tonda e seria. — Sono Bliss, il direttore delle operazio- ni. Devo informarvi che sulla Sea Venture si è diffusa una malattia che po- trebbe essere contagiosa. È caratterizzata da un improvviso collasso. I pa- zienti vengono curati nel nostro ospedale, e sono in condizioni stabili. Non c'è motivo di allarmarsi troppo. È giusto però che sappiate che la malattia a volte è preceduta da un capogiro momentaneo o da una improvvisa sensa- zione di svenimento. Tutti quelli che hanno avvertito sintomi di questo tipo mentre si trovavano in presenza di persone che hanno avuto un collasso sono pregati di presentarsi nell'ufficio del dottor Wallace McNulty, sul ponte di manovra. Ulteriori notizie verranno fornite a intervalli. Grazie per la collaborazione. Una vecchia dai capelli azzurrini sentendo il messaggio si portò alla bocca una mano che sembrava la zampa di un uccello. — Cosa c'è, Fran? — disse suo marito. — Non ti ricordi? C'è che mi sono sentita svenire quando quell'uomo è crollato in terra nel corridoio... — Oh, dio santo. Forse non significa niente, ma sarà meglio che ce ne assicuriamo, non credi? — Immagino di sì. Povera me. E pensare che mi sono imbarcata su que- sta nave per sfuggire ai medici. McNulty convinse Frances Quincy e suo marito a trasferirsi in isolamen- to. Lungo il tragitto lei crollò in terra priva di sensi, diventando una pa- ziente in più per McNulty. Un'ora dopo si ripeté un episodio analogo: que- sta volta il malcapitato era un uomo di settantun anni, Chandragupta Devi, che si era trovato a passare per il corridoio proprio quando la signora Quincy aveva avuto il collasso. Anche lui entrò in ospedale. McNulty immise i dati raccolti nel computer dell'ufficio. Sapeva appros- simativamente il luogo e l'ora in cui i vari pazienti avevano avuto l'attacco, e le informazioni formavano una catena che aveva una sua logica. Il com- puter mostrò i dati sullo scheletro tridimensionale della Sea Venture, col- legandoli con linee colorate. Le linee partivano dal laboratorio marino, si spostavano indietro verso gli alloggi dell'equipaggio, poi in su verso il cas- seretto, per apparire quindi in vari punti del settore passeggeri. McNulty notò che in quasi tutti i casi l'ora in cui una vittima aveva avuto il collasso corrispondeva con l'ora in cui la vittima successiva aveva avvertito il ca- pogiro. In un numero limitato di casi le ore non corrispondevano (c'erano per esempio tre ore fra Geller e la Barlow), ma forse le informazioni non erano state riportate esattamente, o i ricordi erano imprecisi. Che tipo di epidemia era mai, dio santo? Non si diffondeva in giro indi- scriminatamente, ma veniva trasmessa a una vittima alla volta, come il ba- stone in una staffetta. Non c'era da stupirsi se gli esperti non sapevano dir- gli niente. Nel mondo non c'era mai stata prima d'allora una malattia del genere. 17 Mercoledì mattina dall'ufficio di Bliss arrivò la notizia che i giornalisti delle reti televisive volevano intervistare McNulty. Uno dei secondi di Bliss fece installare una telecamera, e McNulty fu tempestato dalle do- mande della NBC, della CBS, della ABC e della PBS. Perse quasi un'ora. Quel pomeriggio ebbe il privilegio di vedersi nel notiziario. Dopo aver parlato di un brutto incidente stradale a Los Angeles, della conferenza per la pace a Nairobi e del tempo nel Midwest, il commentatore televisivo, un tipo biondo, disse: — Venerdì scorso è scoppiata una epidemia misteriosa sulla Sea Venture, la città galleggiante che adesso si trova in mezzo al Pa- cifico. — Sullo schermo, dietro, apparve un'immagine della Sea Venture che luccicava bianca sotto un cielo ridente. — Le autorità mediche sono perplesse. L'unico dottore a bordo è il me- dico interno direttore dei servizi sanitari della Sea Venture, il dottor Walla- ce McNulty. Sullo schermo comparve il viso orribilmente ingrandito di McNulty, su cui era dipinto un sorriso insincero, e McNulty ebbe un fremito di disgusto guardandosi. — Dottor McNulty, potete dirci come procede l'epidemia sulla Sea Ven- ture? — È abbastanza stazionaria — disse il dottore con la faccia dilatata e la voce gracchiante. — Abbiamo dai tre ai quattro casi al giorno. — E la natura della malattia non è chiara, vero? — No. — Quali sono i sintomi, dottor McNulty? — Un collasso improvviso e uno stato di stupore. — In altre parole il paziente entra in una specie di coma? — Non è un coma. I pazienti sono semicoscienti, ma non reagiscono agli stimoli. — Che terapia avete provato, dottore? — Antibiotici ad ampio spettro, ma non fanno niente. Ecco per voi dei bei termini tecnici, molto d'effetto... — Dottor McNulty, voi siete medico generico, vero? — Sì. — E prima di imbarcarvi sulla Sea Venture facevate il medico di fami- glia a Santa Barbara? — Sì, esatto. — A McNulty tornarono i sudori al ricordo di come avesse temuto irrazionalmente che la domanda successiva fosse: — Siete voi quel dottor Wallace McNulty che...? — Dottore, pensate che uno specialista saprebbe trovare cure migliori "contro l'epidemia? — Non so proprio che tipo di specialista potrebbe fare al caso. La malat- tia è completamente sconosciuta. Ho consultato vari epidemiologi e i mas- simi esperti di malattie tropicali. Abbiamo fatto ogni genere di analisi. — Stava sulle difensive. Chi, vedendolo, gli avrebbe affidato la propria vita o avrebbe anche solo comprato da lui un'auto usata? — E non è servito a niente? — Finora no. — Dov'era, nei suoi occhi, l'espressione rassicurante, la scintilla di compassione paterna? Perché non riusciva a essere come i me- dici di "Squadra di soccorso"? — Dottore, che tipo di aiuto vorreste dal popolo americano? — Be', potreste pregare per noi. Ottimo. Un pizzico di pietà. Se non si potevano ottenere cure mediche qualificate, pensò McNulty, si poteva sempre pregare. Il commentatore te- levisivo, fissando serio la telecamera, stava dicendo: — Intanto un aereo da ricognizione è stato abbattuto nel Cratere di Tel Aviv... — McNulty spense la televisione. Giovedì il Presidente degli Stati Uniti chiamò via satellite; sugli schermi televisivi pubblici della Sea Venture si vide la sua faccia, ma si senti solo la voce di Bliss. Il Presidente era nella sala ovale, dietro la famosa scriva- nia con i disegni di Topolino. — Comandante Bliss, voglio che sappiate che in questo terribile momento di emergenza tutto il popolo americano è solidale con voi. — È molto bello saperlo, signore. — E ci rendiamo conto naturalmente che state facendo tutto il possibile. Abbiamo completa fiducia in voi, comandante. — Grazie, signore. — Ho chiesto al mio staff di tenermi informato giorno e notte di tutti gli sviluppi e, comandante Bliss, domattina ci riuniremo qui apposta per pre- gare per voi e domandare che superiate questo periodo di sofferenza. E so che uscirete sani e salvi dalla prova. — Grazie, signore — disse Bliss. — Arrivederci per il momento, e che Dio vi benedica tutti. I pazienti continuavano a entrare in ospedale; prima tre al giorno, poi quattro, e infine cinque. Le cabine del corridoio isolato cominciavano a es- sere piene. L'ottavo giorno le vittime erano trentadue. McNulty aveva la- sciato detto alle infermiere del turno notturno di chiamarlo se c'erano novi- tà, e tutte le notti dormiva di un sonno irrequieto, aspettandosi da un mo- mento all'altro di sentir suonare il telefono. Ma il telefono non suonò. Il venerdì ci fu un peggioramento. Thomas LeVore, un uomo di sessan- totto anni, dopo aver visto a colazione una donna crollare in terra si alzò, uscì con sua moglie dal ristorante e crollò in terra a sua volta pochi minuti dopo. Sua moglie, in preda a una crisi isterica, disse che Thomas aveva avuto una momentanea sensazione di svenimento e stava per presentarsi nell'ufficio di McNulty quando si era sentito male. Qualcosa di simile ac- cadde alla signora Frank Ballantine, una donna di cinquantun anni che si era trovata vicino al signor LeVore, e al settantottenne Minora Yamamoto, nonché ad altre quattro persone. Il tutto nello spazio di una ventina di mi- nuti. Poi non ci furono altri casi fino a sera inoltrata, quando la signora Ora Abbott, di cinquantanove anni, fu portata in ospedale. Suo marito disse a McNulty che quella mattina si era sentita svenire nel corridoio, lo stesso corridoio dove le altre vittime erano state colpite dal collasso, ma che si era rifiutata di andare nell'ufficio di McNulty. La mattina dopo, mentre attraversava il corridoio, McNulty notò che, di- versamente dal solito, c'erano in giro ben poche persone che parevano evi- tarsi l'un l'altra. Nell'aria c'era un odore strano. Il ristorante Madison era mezzo vuoto. Anche i suoni erano diversi; nessuno alzava la voce, e non si udivano risate. McNulty salutò la guardia di sicurezza nel corridoio isolato. Entrò in ciascuna delle stanze dei pazienti, lesse le cartelle cliniche, parlò un attimo con Janice e poi chiamò al telefono Bliss. — Signor Bliss, volevo domandarvi una cosa. C'è meno gente solo al Madison, o anche negli altri ristoranti? — Anche negli altri. Il fenomeno è un po' meno pronunciato nei ponti inferiori. Al servizio in camera mi dicono che il loro telefono non smette mai di squillare. Abbiamo dovuto trasferire da loro diversi steward, ma an- che così sono indietro di ore nella tabella di marcia. Se non mi aveste tele- fonato voi, dottore, l'avrei fatto io. Non potremmo cercare di rassicurare i passeggeri con un qualche annuncio? — Pensavo anch'io la stessa cosa. Sentite, lo so che vi potrà sembrare assurdo, ma vorrei che diceste alla gente di non presentarsi nel mio ufficio se ha un capogiro o un attimo di stordimento. Ieri sono caduti come mo- sche, tutti nello stesso corridoio. — Non capisco proprio — disse Bliss. — Nemmeno io, ma so per certo che quando la gente ha cominciato a venire qui, ci sono stati un sacco di collassi. — McNulty raccontò a Bliss della signora Abbott. — Lei si è rifiutata di venire, e ha resistito al male più a lungo degli altri. Non ha senso, lo so, ma proviamo, dio santo. — Che cosa dovrei dire, secondo voi? — Be', solo che... diavolo, non lo so... dite loro che l'emergenza medica è sotto controllo eccetera eccetera, e che non c'è più bisogno che si presen- tino qui se si sentono svenire. Bliss emise un sospiro ben udibile. — Benissimo, dottore. Ho paura che non servirà a molto, e voi? — Anch'io. Dopo, McNulty si sedette a riflettere sul panico che sentiva dentro e che formava un nodo piccolo ma solido. L'emergenza medica non era sotto controllo. La responsabilità era sua, e lui non poteva fare proprio niente. Aveva un numero crescente di pazienti che non accennavano minimamente a uscire dal loro stato di stupore; e a quanto ne sapeva lui, potevano anche essere destinati a non uscirne mai. Era terribile guardarli, la mattina: il pro- fessor Newland per esempio, povero vecchio, e quei due bei giovani, Julie Prescott e John Stevens, che giacevano fianco a fianco cerei e immobili. 18 Venerdì mattina il capitano Hartman andò come al solito a fare colazio- ne e si ritrovò in mezzo a un mare di tavoli vuoti. Oltre a lui c'era solo u- n'altra persona, un giovane corpulento seduto a due tavoli di distanza. Il cameriere arrivò subito. — Non c'è molta gente oggi, eh? — scherzò Hartman. — No, signore. — Il cameriere, un indiano, non sorrise. — Vorrei un succo d'arancia, uova in camicia e pane tostato. Il pane la- sciatelo raffreddare prima di portarlo, per favore. — Hartman chiuse il menù. — Sentite, potreste chiedere a quel giovane se posso sedermi al suo tavolo? Non ha molto senso che ce ne stiamo qua a mangiare da soli. — Sì, signore. — Il cameriere andò all'altro tavolo e disse qualcosa al giovane, che alzò gli occhi, accennò un sorriso e fece un gesto. Hartman si avvicinò. — Scusate la mia intrusione. Mi chiamo Hartman. — Hal Winter — disse l'altro, stringendogli la mano. — Sedetevi, prego. — Me lo aspettavo che sarei stato pressoché solo qui, stamattina — dis- se Hartman, spiegando il tovagliolo. — Già. La maggior parte delle persone se ne stanno rintanate nelle loro cabine. — Posso permettermi di chiedervi come mai voi non siete in quel nove- ro, signor Winter? — Mi pare che n'on abbia molto senso chiudersi in cabina. Il mio amico ha avuto il collasso quando eravamo nella nostra stanza. Prima è crollato in terra lo steward, poi lui. E voi come mai siete venuto al ristorante? — Oh, penso si tratti solo di menefreghismo. Ho passato la vita sul mare e adesso sono in pensione, ma non mi è mai piaciuta l'idea di starmene chiuso nella mia cabina. Il cameriere portò le cose che erano state ordinate. Il pane tostato di Har- tman era caldo. Winter, notò con interesse Hartman, aveva chiesto una bi- stecca e un'insalata. Durante la colazione Hartman parlò amabilmente delle sue esperienze sulla Queen; Winter parve divertito e arrivò perfino a sorri- dere una o due volte. — E il vostro amico come sta? — chiese alla fine Hartman. — Sempre così. Mi sono offerto volontario per il turno di notte. Natu- ralmente non mi permettono di assisterlo, ma ogni tanto riesco a entrare per un attimo da lui. Non mi riconosce. — Allora siete un infermiere, signor Winter? — Infermiere diplomato, e ho seguito corsi di fisioterapia. — Dopo un attimo aggiunse: — È una vera disgrazia che al mio amico sia successa questa cosa. Già che si trovava su una sedia a rotelle... E non si lamentava mai. — Dev'essere stato un brutto colpo per voi. — Sì. È un grande uomo. Paul Newland. — Ah sì, ho letto che era a bordo. M'è parso di capire che ci siano stati dei problemi, quando si è imbarcato. — C'erano persone che non avrebbero voluto che si imbarcasse. Hartman rifletté un attimo. — Signor Winter, come professionista che cosa pensate di questa malattia? — Non sono un dottore. — Winter spezzò un panino con espressione di- stratta. — Pare che sia una malattia che non ha precedenti in tutta la lette- ratura medica. Il dottor McNulty è medico generico, ma ha consultato un sacco di specialisti e nemmeno loro capiscono di che cosa si tratti. — Non sarà qualche virus che ha subito una mutazione, come nel caso dell'asiatica? — È diversa da tutte le malattie conosciute. Hartman masticò con aria meditabonda. — Però ogni tanto saltano fuori delle cose nuove. Vi ricordate il morbo dei legionari e l'AIDS, quindici- vent'anni fa? — E l'herpes, sì. Ma questa è diversa. — Sì, ne sono convinto anch'io. Signor Winter, ricordo di aver letto una volta che certi medici riescono a riconoscere una malattia dall'odore. A voi è mai capitato? — No — disse Winter, dopo avere riflettuto. — Vi prego di non ridere di me, ma... Non è certo lo stesso caso di cui vi parlavo or ora, però vi assicuro che sento uno strano odore sulla Sea Venture. Un odore non dei singoli pazienti, ma dell'intera nave. Un che di malato, forse. — O di malvagio? Hartman depose la forchetta. — L'avete sentito anche voi? — Sì. — E magari — disse Hartman con prudenza — avete avuto anche degli incubi? — Sì. Hartman si accomiatò, uscì dal ristorante e s'incamminò lungo i corridoi. Le uniche persone che incontrò erano steward con i carrelli, e avevano tutti un'aria depressa. La zona shopping era deserta; era aperta soltanto la far- macia. Sulla Sea Venture c'erano adesso un silenzio sinistro e una sorta di buio, come se le luci si fossero smorzate, benché, quando le si guardava, fossero vivide come sempre. Hartman pensò alle prime navi che avevano portato la peste in Europa, nel quattordicesimo secolo. Chissà che sensazione avevano provato i capi- tani di quelle navi, vedendo le persone morire loro intorno una dietro l'al- tra... Ogni tanto saltavano fuori nuove malattie. Quella lì poteva benissimo essere una nuova "morte nera". Anzi, pensò, magari era peggio. Quella notte sognò di trovarsi in un corridoio buio, sulla Sea Venture. Tutte le luci erano spente e nell'oscurità giallastra vedeva che il corridoio era invaso da un mostruoso calamaro con lunghissimi tentacoli che guiz- zavano verso di lui come serpenti muniti di ventosa. E si sentiva terribil- mente disperato, perché sapeva che il mostro era un'entità malvagia che nessuno poteva uccidere. Si svegliò, con un odore di alghe marce nelle na- rici. Lunedì mattina, mentre Jim ed Emily stavano facendo colazione, il tele- fono ronzò. Jim lo tirò fuori dalla tasca e disse: — Sì? — Signor Woodruff, c'è una chiamata della signora Morrison, a carico del destinatario. L'accettate? — Sì, datemi pure la linea. — Coprì il telefono con la mano. — È Deb- bie. — Babbo? — disse una voce al suo orecchio. — Ciao, tesoro. — State bene? Eravamo così preoccupati. — Sì, stiamo bene. Come stanno i bambini, e Ted? — Tutti bene, ma... e voi? Abbiamo sentito che è scoppiata questa terri- bile epidemia, e sono giorni che cerchiamo di telefonarvi. — Be', sì, anche noi abbiamo provato a chiamarvi, domenica, ma le li- nee erano tutte sovraccariche. — Emily gli stava facendo dei segni. — Tua madre vuole parlarti. Emily prese subito il telefono, tenendolo a un centimetro dall'orecchio. — Ciao, Debbie. — Ciao, mamma. Stavo giusto dicendo al babbo che eravamo molto in pensiero. — Debbie era la figlia minore; aveva trentacinque anni ed era sposata con un analista dei sistemi di Boston. — Dove siete adesso, nella vostra cabina? — No, siamo al ristorante, tesoro. Stiamo facendo colazione. Come stanno Robbie e Michael? — Bene. Michael ha avuto la nuova influenza ed è rimasto a casa da scuola per due settimane, ma adesso scoppia di salute. Mamma, non sareb- be meglio che mangiaste in cabina? — È così piccola — disse Emily. — Che cosa? — La stanza è così piccola. — Tranne la notte quando dormiva, Emily non riusciva a starci più di due ore di seguito, perché con il passare del tempo le pareva che la cabina si rimpicciolisse ancora di più, che i muri premessero verso l'interno diventando grossi come pietra ricoperta di mu- schio, e che le porte crescessero dentro di essi. — Michael sta bene sul se- rio, adesso? Perché non ci avete detto che era malato? — Be', non volevamo che vi preoccupaste e vi rovinaste così la vacanza. Quando pensano di riuscire a sconfiggere l'epidemia? — Non lo so, cara. Ted sta bene? — Ted Morrison era un uomo pallido e taciturno che sembrava non sopportare la compagnia di Emily; le poche volte che si erano visti, non aveva detto mezza parola. — Sì, sta bene. Vorrebbe avviare una società sua. — Che bella idea! — Sì, e se tu e papà voleste comprare delle azioni, sarebbe proprio un ottimo investimento. Ted vi manderà il fac-simile con le informazioni. — Perfetto, cara. — Sai, vorrei proprio che steste di più nella vostra cabina. — È così piccola — disse Emily. — In ogni caso sono contenta che stiate bene. Fammi salutare il babbo. Abbi cura di te, mamma. — Sì. Anche tu. — Emily passò il telefono a Jim, che ascoltò, disse due o tre parole, poi mise via l'apparecchio. — Chissà che progetto del cavolo — commentò. — Ogni volta che chiamano, è per i soldi. Mangia le uova, Em, che si raffreddano. 19 Attraverso l'antenna sulla sovrastruttura i messaggi fluivano dal centro comunicazioni della Sea Venture al satellite, per poi tornare indietro: — ... a quindici, e investi nelle Police Industries... di' alla mamma che sto benissimo e che non si preoccupi... e se saremo costretti a cancellarlo, tanti bei dollaroni se ne andranno al vento, perciò perché non... Larry, vo- glio questo favore. Lo voglio. Capisci cosa ti sto dicendo?... La situazione qui è davvero gravissima... non c'è nemmeno un vero dottore, solo una qualche specie di medico generico, e quel tizio, Bliss, è... morendo e ha bi- sogno di te... se crede di poterla fare franca perché non sono in contatto... ho parlato con Jim Farbarn oggi al Congresso, e dice... mi raccomando prendi le pillole... E i giornali, che arrivavano in facsimile tutti i giorni, erano pieni di tito- loni drammatici... IL MORBO DEVASTA LA SV... PER L'EPIDEMIA FORSE CANCELLATO IL CONCERTO... PRESI DAL PANICO I PAS- SEGGERI CONDANNATI INSORGONO... FARBARN SOLLECITA UN'INCHIESTA SULLA SV... Eddie Greaves stava dicendo con il suo agente a New York: — Se ci toccherà cancellare Tokyo sarò nella merda fino al collo. — Lo so, Eddie. Sto facendo del mio meglio, credimi. — Hai già parlato con Byers? — Sì, e porterà la faccenda alla Casa Bianca. Credo che abbiamo buone possibilità. — Le buone possibilità non bastano. Io parlo della merda fino al collo, Marty. — Lo so, Eddie. — Bene, con chi si può parlare, ancora? Hai sentito Greg? — È a Las Vegas. — E parlagli a Las Vegas. — O è impegnato a recitare, o è a quel cazzo di tavolo da gioco, o scopa qualche battona, Eddie. Sai com'è Greg. Appena torna a Hollywood ti prometto solennemente che gli telefono. Intanto, senti, a bordo della SV non ci sono persone che hanno un certo potere? Magari proprio come te non vedono l'ora di squagliarsela. Parlagli, Eddie, digli quel che stiamo fa- cendo noi e scopri cosa possono fare loro. Se cominciamo a esercitare pressioni da sei direzioni diverse... forse... — D'accordo. È una buona idea. D'accordo. — E continua a tenerti parato il culo, ragazzo. Il cameriere si avvicinò con la caraffa alla giovane e bella coppia. — Al- tro caffè? — Sì, grazie — disse l'uomo. Il cameriere riempì prima la tazza di lei, poi quella di lui. Mentre voltava le spalle qualcosa nell'espressione della donna lo colpì, così sgusciò fuori, attraversò al rallentatore il freddo vuoto indistinto in direzione del diagramma di lei, che pareva fatto di fiocchi di stelle, e mentre entrava nel nuovo corpo sentì un turbinio di colori e odori più violento del solito. Alzò la testa e vide il cameriere a gambe all'aria, la caraffa che rotolava sul pavimento, il lungo schizzo fumante del caffè che era arrivato fin quasi al tavolo vicino. La gente si era alzata in piedi per guardare la scena. Suo marito si prote- se verso di lei. — Stai bene? — disse. — Sì, e tu? — Sì. — Ma lei sapeva come stavano in realtà le cose. Nonostante lo shock, aveva capito subito cos'era successo e intuito cosa doveva fare. — Grazie al cielo — disse Malcom. — Usciamo di qui. — Prima vorrei andare alla toeletta. — Lei si alzò e uscì. Percepiva le cose in modo indistinto. Sentiva il magone, dentro; provava dolore per se stessa, per Malcom, per il loro rapporto. Pensò che era probabilmente la seconda o terza volta nella sua vita coniugale che gli aveva detto una bu- gia; e anche che era stato un bene che fosse riuscita a girare la testa prima che lui potesse scorgere la sua espressione. Prese il primo ascensore che scendeva e andò sul ponte E, dove non era mai stata. Notò con interesse che i corridoi lì erano più stretti, e le pareti e la moquette più brutte. Le persone che incontrava indossavano vestiti con- fezionati ed erano un po' più giovani dei passeggeri dei livelli superiori; i ristoranti avevano semplici tovaglie bianche, e c'erano snack bar con sedie di plastica. A quanto pareva, quel fenomeno era parte integrante del siste- ma monetario: la gente lì aveva pagato un biglietto di costo inferiore e quindi l'arredamento era meno lussuoso. Il pubblico era più giovane perché i giovani avevano meno soldi. E che fosse sempre perché era più giovane che appariva meno allegro? Arrivò davanti a un cinema, pagò ed entrò senza guardare che film fosse, ma l'osservatore che era dentro di lei riuscì a leggere parte del titolo nel cartellone sopra l'ingresso: ... ANCO DELLE ROCKIES. LANCE MA- HONEY. Non aveva mai visto un film al cinema, prima d'allora, ma ne a- veva visti molti sugli schermi televisivi delle cabine passeggeri e li apprez- zava molto, sia come forma d'arte sia come meravigliose fonti di informa- zioni. Era interessante che la gente andasse al cinema a vedere i film quando poteva vederli anche nella privacy della sua stanza. Tutto dipendeva dalla contraddittoria socievolezza delle persone: valutavano la privacy così tanto che erano disposte a pagare alti prezzi per avere cabine piccolissime di cui si lamentavano, e tuttavia a ogni occasione cercavano la compagnia dei propri simili. Sullo schermo un uomo con una giacca rossa a scacchi remava con la pagaia su una canoa lungo il fiume. L'attenzione di lei non era rivolta allo schermo, ma alla gente che sedeva al buio e che era distribuita in coppie e gruppetti molto distanti tra loro: altra contraddizione perché, lei lo sapeva, era un comportamento comune anche quando non esistevano pericoli di in- fezioni. Affascinante: così come era affascinante l'emozione quasi incon- trollabile che provava mentre stava seduta dietro a due uomini, uno dei quali circondava con un braccio le spalle dell'altro. La donna sapeva di essere infetta, anche se, erroneamente, pensava che la sua malattia fosse di origine batterica; fin dal primo momento la sua preoccupazione era stata di non contagiare il marito. Era convinta che sa- rebbe morta senza rivederlo, e questo le causava un dolore che la faceva tremare in tutto il corpo: un'emozione più pura e intensa di tutte quelle che aveva provato fino allora. E tuttavia, altro paradosso, non le era venuto in mente di soddisfare il suo desiderio stando con il marito per il resto del tempo che le rimaneva. Non si era mai imbattuta fino allora in quel par- ticolare tipo di reazione, e le parve tanto bello quanto misterioso. Riusciva a seguire approssimativamente l'intreccio del film, dato che i suoi occhi rimanevano fissi sullo schermo, anche se, appannati da qualcosa di umido e tiepido, non mettevano bene a fuoco; l'uomo con la camicia a scacchi, che adesso aveva abbandonato la canoa e camminava in mezzo a una foresta, fuggiva da inseguitori che portavano una divisa rossa, si chia- mavano "Mounties" ed erano evidentemente poliziotti. Non era chiaro di che crimine fosse sospettato l'uomo, e nemmeno se fosse sul serio colpevo- le. C'era un incontro con alcuni indiani e una bella ragazza bionda; l'uomo con la camicia a scacchi saliva con loro su un veicolo, poi nasceva una cer- ta tensione tra lui e il loro capo, e infine c'era uno scontro: l'uomo dalla camicia a scacchi sconfiggeva tutti gli indiani colpendoli con mani e piedi e si allontanava sul veicolo assieme alla ragazza. Quindi, dopo un passaggio che lei non riuscì a seguire, l'uomo e la ra- gazza si ritrovavano seduti in una zona deserta davanti al fuoco del bivac- co. Entrarono quasi subito in una tenda, dove sembrarono compiere un atto riproduttivo. Dall'espressione della ragazza, il cui viso si vedeva molto in grande, riuscì a capire che l'attrice cercava di simulare un'emozione ses- suale. Era davvero strano, pensò, che per rendere più realistica la scena, considerato l'intenso piacere che dava ai partecipanti, l'attore e l'attrice non si fossero impegnati in una vera copula. Forse, per convenzione, l'atto era eseguito solo in privato, nel qual caso era strano che ci si permettesse di simularlo in pubblico; o forse per compierlo si richiedevano condizioni di- verse. Dopo che il film fu finito con l'uomo e la ragazza che correvano in mac- china lungo una strada polverosa verso un tramonto infuocato, le luci si accesero e la gente, in fila, uscì dal cinema. Lei seguì gli altri, pensando che doveva trovare un altro posto in cui potesse sia nascondersi che stare in compagnia della gente. Avvertiva un cupo senso di delusione per il fatto di non avere avuto il collasso al cinema. Sarebbe stato facile esaudire il suo desiderio, ma la situazione era così strana che l'osservatore non voleva lasciare l'ospite prima di aver visto come andava a finire la storia. Nel corridoio trasalì quando sentì una voce all'altoparlante dire: — La signora Malcom Claiborne al telefono. La signora Claiborne si presenti per favore al più vicino telefono pubblico. La signora Malcom Claiborne al te- lefono, prego. Pensò a quanto dovesse essere in pensiero Malcom, a come sarebbe stato felice di ritrovarla. Entrò in una toeletta e sedette a lungo in uno dei box. Quando ne uscì, una donna grassa con i capelli giallo-ottone chiese: — Qualcosa non va, cara? — No, sto bene, grazie. — Si sforzò di sorridere. Entrò in una tavola calda e ordinò un panino che non mangiò. Era con- vinta che ormai il collasso dovesse colpirla da un momento all'altro. Sa- rebbe stato estremamente interessante, pensò l'osservatore, vedere che cosa l'ospite avrebbe fatto quando fosse venuta la notte. 20 Era molto tardi e la folla nei corridoi era sempre più rada. Mentre cam- minava accanto alle vetrine illuminate dei negozi della zona shopping, le arrivò una voce da un altoparlante lontano. — ... da stamattina presto. L'ul- tima volta che è stata vista indossava camicetta e gonna giallo chiaro. — Su uno schermo televisivo in fondo al corridoio intravide la fotografia di una donna che guardava di traverso l'obiettivo. Riconobbe la foto che Mal- com portava con sé, ma il viso non le sembrò il suo, bensì quello di una qualsiasi estranea. Pensava ora con cupa frustrazione che la malattia pareva non volersi staccare da lei. Doveva trovare un posto dove nascondersi e dormire. Che cosa faceva la gente che non aveva un posto dove andare? C'erano i corridoi, ma una persona addormentata avrebbe dato nell'occhio; proba- bilmente sarebbe venuto uno steward a svegliarla. Pensando alla notte e al- l'aria, entrò nel più vicino ascensore e salì sul ponte sportivo. Nel corridoio non c'era nessuno. Aprì la porta che dava sull'esterno e uscì sul campo da tennis deserto. La luna e le stelle brillavano in un cielo color blu di Prussia. Si avvicinò al parapetto e guardò in alto. Lassù, forse, c'era la stella da cui era venuta innumerevoli millenni prima. Forse, rifletté, nello spazio inter- corso tra il momento in cui si era addormentata e quello in cui si era sve- gliata, l'intera vasta ruota della galassia aveva compiuto un quarto della sua silenziosa rivoluzione. Quanti dei suoi simili fossero sopravvissuti non po- teva saperlo; probabilmente nessuno, a meno che l'universo non fosse più ricco di quanto avessero immaginato. A lei in particolare era capitata u- n'immensa fortuna: si era risvegliata in mezzo a una razza intelligente, molto sensibile e dotata di conoscenze tecniche, la cui cultura e psicologia erano un enigma che poteva tenerla felicemente occupata per secoli. C'erano molte cose che non capiva ancora. Sapeva di essere a bordo di una costruzione galleggiante che viaggiava, per motivi che le riuscivano incomprensibili, su di un enorme oceano d'acqua, ma sapeva anche che quella umana era una razza che viveva sulla terraferma, dove c'erano molte grandi città che sorgevano sui continenti e le isole del pianeta; e che la Sea Venture sarebbe dovuta arrivare in un posto chiamato Guam e poi in un al- tro posto chiamato Manila, che lei si immaginava verde e soleggiato. Si girò e vide qualcuno venirle incontro, sul ponte; era un uomo giovane con un buffo berretto in testa. Teneva le mani in tasca, e quando fu più vi- cino, lei si accorse che aveva il viso pallido e smunto. — Buonasera — disse l'uomo, toccandosi la visiera del berretto. Indos- sava una tuta scolorita e rattoppata, che come linea sembrava risalire a una generazione prima; intorno al collo portava una sciarpa a fiori. Sembrava tutt'altro che pericoloso. Stava per passare oltre, ma lei chiese: — Potete dirmi che ora è? Lui si fermò e guardò l'orologio da polso. — Sono le tre e un quarto. È molto tardi. Non riuscite a dormire? — No. Il fatto è che... ho un problema. Lui si avvicinò di un passo. — Che problema? Lei si sforzò di sorridere. — Non ho dove dormire. Ho... litigato con mio marito. — Oh. — L'uomo la scrutò in viso. — Non sarete voi la signora Clai- borne, quella dell'annuncio che ho visto in televisione? — Sì, sono io, ma non ditelo a nessuno, vi prego. — D'accordo, ma vostro marito? Sarà molto in pensiero immagino. — Non posso tornare da lui. Magari domani, quando avrà avuto il tempo di calmarsi... — Potrebbe picchiarvi? — fece l'uomo, assumendo un'espressione an- siosa e solidale. — Sì. — Be', sentite... — Nella luce fioca lei lo vide arrossire per l'imbarazzo. — Se vi va, potreste magari dormire nella mia cabina. Voglio dire, io a volte sto alzato tutta la notte. — Siete molto generoso, signor... — Norm Yeager. — Tese goffamente la mano, e lei gliela strinse. Un at- timo dopo lui la ritrasse come se si fosse scottato. Era interessante: il gio- vane pareva pensare a un comportamento copulatorio e tuttavia non desi- derarlo. — Allora, accettate l'offerta? — Ho un sonno da morire. La sua cabina era sul ponte di passeggio, vicino a prua. Appena Yeager aprì la porta per farla entrare, si accese la luce e cominciò a suonare una musica. — Spengo subito — si affrettò a dire il giovane. — No, mi piace. È Boccherini, vero? — Vi intendete di musica? Fantastico. — Si guardò intorno, nella picco- la cabina, poi corse a letto e mise via un mucchio di riviste. — Ehm, posso ordinarvi qualcosa? Avete fame? — No, ho solo voglia di dormire. — Tirò indietro la sovraccoperta, si tolse le scarpe e si sdraiò sul letto. — Grazie mille — disse, e chiuse gli occhi. Sentì l'oscurità calarle sopra e la lasciò venire. L'uomo si protese verso di lei per ascoltare il suo respiro. Era già ad- dormentata, pensò. Si sedette sulla poltrona da relax; prima d'allora non aveva mai avuto una donna in camera, non in quel modo, e l'esperienza era eccitante e pericolosa. Gli sembrava di avere compiuto un'azione nobile e da persona forte; era contento che lei avesse accettato la sua protezione e anche che si fosse addormentata, così che non era costretto a parlarle. Si chiamava Norman Peale Yeager. A venticinque anni aveva la respon- sabilità dei due sistemi computerizzati indipendenti della Sea Venture, non ufficialmente ma di fatto: il suo capo, Dan Jacobs, partecipava alle riunioni dello staff, stendeva i rapporti e dava ordini a Yeager, ma era Yeager a co- noscere alla perfezione i sistemi, era lui che doveva pensare alla riparazio- ne se c'era qualche guasto. Faceva poche ore di manutenzione alla settima- na ed era a disposizione ventiquattr'ore su ventiquattro, ma la maggior par- te del tempo poteva impiegarla come gli pareva, e quello gli piaceva mol- to. Sugli scaffali aveva dozzine di vecchi ellepì, lucenti dischi di plastica le cui spirali quasi invisibili diventavano iridescenti quando lui li inclinava verso la luce. E li metteva su uno stereo del 1982 che aveva restaurato con amore. Di sera, quando era da solo alla luce della lampada, li faceva suo- nare più e più volte; adorava i ricchi suoni che si celavano dietro i sibili e il fruscio, suoni di una musica del passato che arrivava da oltre la barriera del tempo. Aveva il pallino di cose ancora più vecchie: gli piacevano i racconti di draghi ed eroi, di dolci donzelle trasportate in arcione svenute, di caverne e tesori. Sognava di vivere in un'epoca di ideali più nobili ed elevati, quando l'uomo combatteva per il bene contro il male e trionfava nella vittoria o si rendeva immortale nella sconfitta. Tutte le cose moderne gli sembravano un insulto: i vestiti che le persone indossavano, il modo in cui queste parlavano e si muovevano, la loro pelle piena di imperfezioni. Gli pareva che dovesse venire una qualche apocalis- se a bruciare e spazzar via il lurido mondo che conosceva. Abbassò la musica e sonnecchiò in poltrona. La mattina dopo, perché lo steward non vedesse chi c'era nel suo letto, andò a fare colazione fuori. Quando tornò, poco dopo mezzogiorno, vide che nella stanza c'era stata la cameriera, ma che la signora Claiborne era ancora addormentata. Verso le due provò a svegliarla, e solo allora capì che non si trattava di sonno, ma di qualcos'altro. 21 Giovedì Bliss invitò McNulty a partecipare alla riunione settimanale del- lo staff direttivo che si teneva nel suo ufficio. Erano presenti, oltre a Bliss, Armand Schaffer, direttore del servizio alimentazione, Pete Williams, capo della manutenzione, Arline Truman, responsabile del servizio passeggeri, Walter Taggart, del reparto macchine, Dan Jacobs del reparto elettronica, Charles Skolnik, capo steward, ed Erik Seaver, commissario di bordo. Bliss presentò agli altri McNulty e disse: — Prima di discutere delle so- lite cose che prendiamo in esame il giovedì, vorrei parlare dei problemi che sono sorti a causa dell'epidemia, se così si può chiamare. Volete co- minciare voi, signor Skolnik? La maggior parte delle lamentele le ricevere- te voi, immagino. Skolnik abbozzò un sorriso. — Quando non possono dare la colpa a noi, la danno ad Arline. Nel servizio in camera siamo indietro di tre ore sulla tabella di marcia, e la situazione sta peggiorando. A occhio e croce direi che circa il settanta per cento dei passeggeri mangia in cabina. Noi faccia- mo del nostro meglio, ma certo non eravamo preparati a tutto questo. — Signor Schaffer, vi pare una percentuale plausibile? — Sì. Le presenze nei nostri ristoranti sono calate quasi dell'o'ttanta per cento. La maggior parte del nostro personale adesso lavora per Skolnik. — Signora Truman? — Charles ha ragione, passiamo la maggior parte del tempo a cercare di calmare la gente che non riesce ad avere il servizio in camera con una tele- fonata. È una situazione molto spiacevole. — Alcune di queste persone stanno praticamente barricate in camera — disse Skolnik. — Quando lo steward bussa alla porta, gli gridano di lascia- re lì il carrello e andarsene. Questo provoca cattivo umore tra il personale, perché siamo costretti a segnare sul conto, e gli steward non ricevono la mancia. — Nessuna proposta? — chiese Bliss. — Penso che dovremmo prendere in considerazione l'idea di assegnare un premio agli steward, prelevando la somma dai fondi generali. Diciamo l'equivalente del quindici per cento del loro salario. — Io sono d'accordo — disse la Truman. — Gli steward si stanno sob- barcando tutto il peso della situazione; se a un certo punto si stufano, sia- mo tutti nei guai. — Il quindici per cento è troppo — disse Seaver. — No, per niente — replicò Skolnik. — Anzi, semmai è poco, perché stiamo parlando del quindici per cento del loro stipendio base, che è solo un terzo circa del loro reddito. Se consegnassero le cose da mangiare nel solito modo, prenderebbero il quindici per cento di mancia su ciascun con- to. Secondo me il premio dev'essere come minimo del quindici, e vi sarei grato se veniste voi stesso a dare la notizia, signor Bliss, e a ringraziare gli steward per quello che stanno facendo in queste difficili circostanze ecce- tera eccetera. — Voi acconsentite, signor Seaver? Seaver alzò le spalle. — Sì. — Bene, allora. — Bliss si segnò un appunto. — Ora veniamo al morale dei passeggeri. Penso sia il problema maggiore, no? Avete nessun'idea? — Se potessimo dire loro qualcosa di rassicurante circa l'epidemia... — disse la Truman. — È minimamente possibile questo, dottor McNulty? — Temo proprio di no. Continuano ad arrivarci dai cinque ai sei pazienti al giorno. — Anche se la gente se ne sta rintanata in camera? — chiese la Truman. — Sì. — Non potremmo cercare di convincerli che corrono gli stessi rischi sia fuori sia in cabina? — No, perché non è vero. Alcune persone vengono contagiate, di solito dagli steward, mentre si trovano in camera, ma la maggior parte vengono colpite da collasso nei luoghi pubblici. — Dottor McNulty, non sarebbe forse opportuno tornare a chiedere alla gente di presentarsi da voi appena avverte un capogiro? Non sarebbe giu- sto che lo facessero almeno gli steward? — Tutto quel che posso dire è che la cosa non ha funzionato. Cinque o sei casi al giorno sono già un brutto record, ma erano nove o dieci quando abbiamo usato quello stratagemma. — Non capisco proprio — disse la Truman. — Come mai l'applicazione di quella regola ha fatto diffondere la malattia più in fretta? McNulty esitò. — Vi dirò che non lo capisco nemmeno io. Di solito le malattie contagiose si diffondono attraverso l'aria o l'acqua che si beve, oppure attraverso qualche portatore come ad esempio un insetto, oppure per contatto. In tutti e tre i casi si ha una curva di infezione ascendente, che a un certo punto si stabilizza. Qui invece è diverso. Abbiamo infatti un ca- so alla volta. L'unica soluzione sensata è che ci sia sul serio un portatore, diciamo un microrganismo, ma un microrganismo unico. Immaginiamo una sorta di minuscolo insetto portatore appunto della malattia: diventa mio parassita e mi fa ammalare, poi se ne va e diventa parassita di un altro, facendolo ammalare, e così via. — Avete trovato niente del genere sui pazienti? — No. Ma ricordatevi che c'è un periodo di latenza dopo che il contagio è avvenuto. Quando il paziente arriva da noi, è già stato infettato qualcun altro. — E se riuscissimo a esaminare qualcuno durante il periodo di latenza? — Già, l'idea c'era, ma non abbiamo mai potuto farlo. — Dottor McNulty — disse Skolnik — sembra quasi un insetto intelli- gente, questo che descrivete. McNulty non sorrise. — È un'ipotesi che mi ha attraversato la mente. — Dite sul serio? — Non lo so se dico sul serio o meno. — Be', se non lo sapete voi, chi può saperlo? Bliss picchiò piano il pugno sul tavolo. — Signori, siamo tutti sotto ten- sione. Il dottor McNulty sta facendo del suo meglio e so che tutti noi gli siamo grati. — Svisceriamo ancora un po' l'argomento — disse la Truman dopo un attimo. — Dottore, è possibile che non si tratti affatto di un'epidemia? Non potrebbe esserci qualcuno che va in giro a iniettare alla gente qualche so- stanza, qualche veleno? Il suo discorso suscitò una reazione vivace. — Dio santo, che idea orri- bile — disse qualcuno. — Non vedo come potrebbe — rispose McNulty. — È escluso che una persona faccia questo, perché dovrebbe trovarsi sempre presente quando avviene il contagio. Spesso invece nel momento cruciale sono presenti so- lo le due persone interessate: quella ammalata e quella cui viene attaccata la malattia. — Il microrganismo non potrebbe trovarsi in un oggetto che le vittime si passano l'un l'altra? Una moneta, per esempio? — No. Di solito non c'è contatto. Bliss sospirò. — Sentite, dottore, è vero che nessuno degli esperti che avete consultato è riuscito a fare luce su questo mistero? — Sì. — E non si può dire quando saremo in grado di porre fine all'epidemia, sempre che vi si possa pórre fine? — Già. Arline Truman si protese in avanti. — Avete detto che a volte quando il contagio avviene ci sono solo due persone nella stanza. Non sarebbe una buona occasione, per noi? Potrà sembrare cinico, ma se invece di mandare qualcuno a prendere l'ammalato, mandassimo un'infermiera che accudisse ai due e tenesse la stanza chiusa a chiave? — Otterremmo solo di far ammalare tre persone — disse stancamente McNulty. — E quando questo avvenisse, che soluzione ci resterebbe? Mandare nella stanza una quarta potenziale vittima, che dovrebbe essere anche questa volta un'infermiera? Prima del tramonto avremmo la camera zeppa di infermiere, tutte ammalate tranne una. Il ritmo di diffusione della malattia non calerebbe; l'unica differenza sarebbe che perderemmo infer- miere, ed è un lusso che non possiamo permetterci. — Ci sono altre proposte? — chiese Bliss. Aspettò, poi aggiunse: — Sa- rà meglio che riflettiamo tutti su questa faccenda, nei giorni che ci separa- no dalla prossima riunione. Nel frattempo passiamo ad altri argomenti e la- sciamo che il dottor McNulty torni dai suoi pazienti. Il decimo giorno, verso le nove del mattino, una delle infermiere volon- tarie si precipitò nell'ufficio del dottor McNulty. — Dottore, uno dei miei pazienti sembra stare meglio. Mi pare che abbia provato a dire qualche pa- rola. Il paziente era Randall Geller. Pareva disorientato, ma gli occhi mette- vano a fuoco. Aprì la bocca quando McNulty si chinò sopra di lui. — Co- s'è successo? — Siete stato molto ammalato, signor Geller, ma adesso state meglio. — McNulty gli sentì il polso: era un po' meno debole. Nel tardo pomeriggio riprese conoscenza anche Yvonne Barlow. Geller ormai si sentiva abbastanza in forze da recarsi, accompagnato, in bagno. McNulty chiamò Bliss e disse: — Credo che ormai i nostri guai siano fini- ti. Era una convinzione consolante, ma prematura. 22 Il lunedì Randall Geller stava seduto nel letto con aria provata ma sve- glia. — Che cosa ricordate della malattia? — gli chiese McNulty. — Niente, proprio niente. L'unica cosa che ricordo è che stavo parlando con Yvonne. — Di che cosa parlavate? — Non lo so, niente di molto importante. Solo chiacchiere. — E prima di quel momento? Non rammentate per esempio di aver av- vertito un temporaneo senso di capogiro? Geller apparve pensieroso. — Be' sì, il giorno prima, ma solo per un se- condo, mi sono sentito come se fossi lì lì per cadere. — Che cosa stavate facendo in quella circostanza? — Stavo parlando con quello scienziato che era venuto a visitare il re- parto. Come si chiama, Newland. — Di che cosa parlavate? — Be', gli stavo mostrando alcuni noduli di manganese che avevamo pe- scato dal fondo. In uno di essi c'era un'australite, una sorta di meteorite di vetro. Abbastanza insolita. — Una meteorite di vetro — disse McNulty, segnandosi un appunto. — Non ne ho mai sentito parlare. Che aspetto hanno? — Quella lì era cava e aveva un diametro di circa un centimetro. — A farvi sentire male non potrebbe essere stato qualcosa uscito dall'au- stralite? — disse McNulty, tra il serio e il faceto. — Be', sì. La sfera si è incrinata, aprendosi. McNulty lo guardò fisso. — Dov'è adesso? — L'ho data a Yvonne. Credo che l'abbia messa da qualche parte. McNulty andò a parlare con Yvonne Barlow, che si stava riprendendo un po' più in fretta di Geller: aveva occhiaie profonde, ma il colorito era buono. — Signora Barlow, se vi sentite abbastanza in forze vi vorrei rivolgere alcune domande. Vi ricordate niente del momento in cui avete avuto il col- lasso? — No. So solo che ero nella sala del carotiere di fondo, e che qualcuno mi ha avvertito che era arrivato il carrello con il pranzo. È l'ultimo ricordo che ho prima del risveglio in ospedale. McNulty si segnò un appunto. — Il signor Geller mi ha detto di aver trovato in un nodulo di manganese una sorta di meteorite... — Sì, un'australite. — Vi ricordate che cosa ne avete fatto? — L'ho munita di targhetta e l'ho messa in un armadietto del mio ufficio. — Se chiamassi qualcuno, lì al vostro reparto, voi potreste spiegargli dov'è e chiedergli di andarla a prendere? — Certo. Chiamate Tim Vincent. Ma perché volete l'australite? — Il perché non lo so ancora bene. McNulty telefonò a Vincent e passò l'apparecchio alla Barlow. — Tim — disse lei, — nell'armadietto di destra, sulla parete che guarda la mia scrivania, c'è un'australite, quella che Randy ha trovato nel nodulo. È etichettata e si trova sul secondo scaffale. Potreste prenderla e portarla su, dal dottor McNulty? — Restituì il telefono a McNulty. — Sarà qui tra pochi minuti. Vincent era un giovane dal viso lungo e dal sorriso nervoso. — È questa che volevate? — chiese. McNulty prese la sfera crepata e se la rigirò tra le dita perplesso. — Credo di sì. Hanno sempre questo aspetto le australiti? — Ce ne sono di tutte le forme. Alcune sono come bottoncini piatti. Al- tre sembrano piccole zolle. McNulty odorò la sfera. — Potreste analizzarne l'interno per vedere se conteneva qualcosa? — E che cosa avrebbe dovuto esserci, dentro? — Non so proprio. Qualche gas, magari. — Be', è un'incombenza difficile. Se avesse contenuto qualche gas, a quest'ora non se ne troverebbe più la minima traccia. — Ma se per caso si fosse trattato di un idrocarburo volatile qualche traccia ci sarebbe, no? Potreste analizzare quel che è possibile analizzare? Vi sarei molto grato. — E va bene — disse Vincent senza mostrare alcun entusiasmo. E uscì. Il giorno dopo McNulty trovò Geller che, seduto nel letto, mangiava con evidente appetito uova affogate e pane tostato. — Vi sentite abbastanza bene, oggi? — chiese. — Sì, certo. Non vedo l'ora di alzarmi. McNulty si sedette e guardò la cartella clinica. In effetti Geller mostrava di riprendersi in gran fretta. — Abbiamo parlato ieri del senso di vertigine che avete provato quando avete aperto l'australite. Credete che possa esserci un nesso tra quell'episo- dio e il successivo collasso? — Post hoc, ergo propter hoc — disse Geller con la bocca piena. — Come, prego? Geller mandò giù il boccone. — Dopo ciò, quindi a causa di ciò. Un er- rore logico comune. Prima di poter dimostrare un nesso causale, bisogna escludere ogni fonte di errore. In altre parole, oltre al fatto che si sia aperta l'australite sono successe altre cose che potrebbero aver dato orìgine all'e- pidemia? — Quali cose, per esempio? — Non lo so. Comunque sono tutte stronzate. — Che cosa intendete dire? — chiese McNulty. Sul viso di Geller era dipinta una strana espressione. — Oh, cavolo. Vi ho solo rifilato qualche cagata convenzionale. Non so nemmeno perché l'ho detta. Sì, certo, penso che qualcosa sia uscito da quell'australite. E vi dirò di più: credo che sia qualcosa di intelligente. — Ma avete affermato di non avere visto niente quando la sfera si è in- crinata... — Infatti. Per cui quel qualcosa è invisibile, oppure è un gas, oppure è troppo piccolo per essere visto, o ancora è un pacchetto di energia coeren- te, o chissà quali altre cose. Di un fatto possiamo stare certi: non è di que- sta terra. È caduto dallo spazio forse milioni e milioni di anni fa. Per cui è assurdo aspettarsi che somigli a ciò che conosciamo noi. — Anch'io ero arrivato a una riflessione analoga, ma mi sembrava di es- sere pazzo. Quella dannata cosa sa ciò che stiamo facendo. Quando ho chiesto ai passeggeri che si presentassero nel mio ufficio se si sentivano svenire, la "cosa" saltava dall'uno all'altro ogni volta che loro si accingeva- no a obbedire al mio invito. D'accordo, supponiamo che quest'ipotesi sia fondata. Che provvedimenti possiamo prendere? Datemi qualche idea: io non ne ho proprio più. Geller si appoggiò alla testiera e si pulì la bocca con aria compiaciuta. — Be', che cosa sappiamo finora? Innanzitutto sappiamo che il collasso si ha quando la "cosa" esce dal corpo. Quando nel corpo ci entra, procura al- l'ospite solo un momentaneo senso di capogiro. In secondo luogo sappia- mo, o almeno lo so io, che quando è dentro di noi non ci fa sentire affatto diversi. — E dopo? — chiese McNulty, con cautela. — Vi sentite diverso, ades- so? Geller lo guardò torvo. — Non lo so. Forse. Torniamo al post hoc, ergo propter hoc. Se anche mi sentissi diverso, non potremmo attribuirne con sicurezza la colpa al parassita. — Potreste dirmi in che cosa vi sentite diverso? Geller esitò. — A dir la verità, non accetto più tante delle cose che prima davo per scontate. — Questo potrebbe succedere a chiunque — disse McNulty, comprensi- vo. — Certo, perciò cambiamo argomento e torniamo al parassita. Una cosa sappiamo, che non è potuto uscire dalla palla di vetro finché questa non si è rotta. Dunque, qualunque sia la sua natura, probabilmente non può passa- re attraverso un oggetto solido. Così il problema è far tornare il genio den- tro la bottiglia. McNulty stava scarabocchiando sul notes. — E se mettessimo qualcuno in una cassa di vetro? — provò a dire. — No, il parassita è troppo furbo. A meno che non riuscissimo a mettere le persone nelle casse mentre dormono. McNulty scosse la testa. — Casse di vetro — disse. — Come acquari? E come la mettereste con i punti di giunzione? Ci dovrebbe essere per forza un rifornimento d'aria, e il parassita potrebbe uscire attraverso i tubi. Biso- gna trovare una soluzione migliore. — Be', vediamo quali sono i suoi limiti. Innanzitutto, a quanto ne sap- piamo, non è mai passato attraverso un muro o qualcosa di simile, vero? McNulty annuì. — Bene, questo è già un dato. Poi, quanto erano distanti i pazienti tra lo- ro al momento del contagio? McNulty parve colpito. — Non ci ho mai pensato. Erano tutti vicini l'u- no all'altro. — La distanza massima quale sarà stata? — Dovrei chiedere. Forse un metro o poco più. — Bene, se non ha mai superato questo limite, forse è perché non può superarlo. Vi viene in mente altro? McNulty fissò il muro. — Il sonno — disse. — Voi avete accennato al sonno. Dovrei esaminare attentamente tutte le testimonianze, ma sono si- curo di avere ragione: il parassita non è mai uscito dal corpo di una perso- na addormentata. — Bene. Allora riassumiamo un po'. Non può attraversare i muri, non può percorrere più di un metro, un metro e mezzo quando passa da una persona all'altra, e non può lasciare il corpo di uno che sta dormendo. Qual è la conclusione? McNulty fissò per qualche attimo la scrivania. — La conclusione — dis- se, — è: chi è disposto a rischiare per il bene di tutti? 23 Tre o quattro persone corsero fuori dei loro uffici per andargli incontro nel corridoio e salutarlo. — Lieti di rivedervi — dissero, con un sorriso imbarazzato. — State bene, adesso? È fantastico riavervi tra noi. — Sapete, sono davvero contento di rivedervi — disse Tim Vincent. La sigaretta gli tremava, in bocca. — Ci siamo trovati in grave difficoltà per mancanza di personale da quando voi e Yvonne vi siete ammalati. Se pote- te ricominciare a occuparvi della temperatura, della salinità e di tutte quel- le robe lì, sarà un grosso sollievo. — Certo — disse Geller. — Bene, è quasi l'ora del controllo delle dieci. Potete occuparvene voi allora? Non ci sono problemi? — L'ho già detto, mi pare. — Sì, è vero, scusate. A più tardi. — Vincent scomparve nel suo labora- torio. Geller osservò gli strumenti che gli erano familiari; era davvero strano che non avesse mai notato quanto erano brutti. Prese il registro e guardò le ultime annotazioni, scrìtte da Vincent con la sua brutta calligrafia. Provan- do un irragionevole senso di irritazione, controllò il salinometro e il ter- mometro di registrazione, li spinse indietro attraverso il portello e comin- ciò a farli scendere con il cavo. Era anche ora del prelievo con il carotiere di fondo; Geller vide dal libro che Vincent aveva saltato più di una volta quell'operazione. Troppo indaffarato a sezionare i suoi pesci. Geller avviò il cavo del carotiere, segnò l'ora sul registro, e si versò una tazza di caffè. I campioni di acqua erano allineati su uno scaffale: dovevano essere quelli di un'intera settimana e portavano l'etichetta con la data, l'ora e la profondità, ma le analisi non erano state fatte. Gli ci sarebbero voluti pa- recchi giorni per riguadagnare il tempo perduto, e avrebbe dovuto fare quotidianamente almeno due ore di lavoro straordinario. Raccolse il primo, prese un campione misurato, aggiunse i reagenti. PCB, ventun parti per milione. Segnò l'appunto su una pagina nuova del libro. Perché faceva quelle cose? Si sedette e cercò di ricordare che cosa pensasse del suo lavoro prima di ammalarsi. Per quel che riusciva a rammentarsi, non era mai stato più di- vertente di adesso, ma l'aveva fatto lo stesso, un giorno dopo l'altro: come mai? Raccogliere dati: squallide piccole cifre su un libro. Si ricordò di una frase che aveva detto a Newland: — Non è che sia un entusiasta delle teo- rie. La cosa essenziale sono i dati. — Balle. I dati andavano nei computer, e i computer elaboravano diagrammi e grafici, accumulando orribili mon- tagne di carta, e alla fine qualcuno analizzava quelle carte e inventava una nuova versione modificata del modello modificato di distribuzione delle acque profonde. D'un tratto gli tornò in mente con straordinaria chiarezza l'episodio che lo aveva indotto a suo tempo a occuparsi di biologia marina. Aveva sedici anni e frequentava il liceo a Skokie, nell'Illinois. Era una calda giornata di maggio; nell'aula di biologia le finestre erano aperte, e l'aria primaverile si mischiava a odori sgradevoli. Era venuto lì in visita uno scienziato inagris- simo, con radi capelli rossicci. Geller non si ricordava nemmeno il suo nome. Non gli aveva prestato molta attenzione, finché il tizio non aveva mostrato agli alunni una bottiglietta contenente un tappo e un pezzo di car- ta ingiallita. Aveva portato l'oggetto in giro, e quando era arrivato a Geller, Geller aveva letto attraverso il vetro azzurrognolo la scritta in caratteri vio- la, filiformi, sbiaditi, quasi invisibili: San Francisco, 17 luglio 1893. E a- veva sentito l'uomo dai capelli rossi dire: — Questa bottiglia è stata raccol- ta da un pescatore giapponese al largo di Hokkaido nel gennaio del 1963. Settant'anni. E in quel momento, mentre si immaginava la bottiglia sbal- lottata dalle correnti del Pacifico fin da prima che i suoi genitori nascesse- ro, aveva capito che tipo di lavoro desiderava fare nella vita. Poi erano venute l'università, e la laurea, e la dannata tesi, spazzatura scritta come desiderava il professore. Si era reso conto che il lavoro sareb- be stato impegnativo, e che l'obiettività era molto importante. Non ci si po- teva permettere di lasciarsi fuorviare da sentimenti romantici: bisognava guardare gli strumenti. Una domenica pomeriggio, circa sei mesi dopo che si era imbarcato sulla Sea Venture, si era trovato sul ponte sportivo a os- servare l'acqua attraverso lo schermo e si era accorto d'un tratto di detesta- re la vista dell'oceano. Non era più salito lassù, e durante le vacanze suc- cessive si era spinto il più possibile nell'entroterra. Aveva detto a McNulty che non accettava più le cose che prima dava per scontate, ed era vero, ma c'era di più. Gli pareva adesso di essere stato ne- gli ultimi dieci anni supremamente, incredibilmente idiota. Guardò gli scaffali pieni di campioni d'acqua, poi si alzò e si tolse il ca- mice. Vincent uscì dal suo laboratorio mentre l'altro passava accanto alle va- sche dei pesci. — Tutto bene? — chiese. — Certo. — Dove state andando adesso? — Fuori di qui. Se vedete Yvonne, ditele che lascio il lavoro. Vincent lo seguì lungo il corridoio. — Randy, state ancora male? — Perdio, no, sto benissimo, ma è un lavoro stupido e se lo possono fic- care su per il culo. — Ehi, un attimo! — Vincent lo raggiunse e lo afferrò per la manica. — State dicendo che intendete andarvene per i fatti vostri e lasciarmi qua a fa- re sia il mio lavoro che il vostro? — Toglimi le mani di dosso, stupido bastardo. — Cosa? Sentite, Geller, mi sono già abbastanza sobbarcato... Geller lo colpì sulla bocca con la massima violenza. Vincent finì a terra a gambe levate. Quando si rialzò, Geller lo colpì di nuovo; e questa volta Vincent rimase a terra. 24 Eccolo che arrivava, lungo il corridoio, con quel suo rumore particolare che pareva il suono emesso da un grillo. Emily si fermò e girò la testa, mettendosi in ascolto. — Cosa c'è, adesso? — disse Jim. — Non lo senti? — Cosa dovrei sentire? — Il carrello da supermercato. — Si avvicinava sempre di più, con il suo suono caratteristico. Jim la prese per un braccio. — Di che diavolo stai parlando? — È il suo carrello da supermercato. — Un uomo alto che emanava un odore acre veniva incontro a loro lungo il corridoio; il suono lo seguiva come una scia, spettrale ed echeggiante. L'uomo svoltò per un corridoio trasversale, e il suono svoltò con lui. Emily voleva raggiungere lo scono- sciuto, ma Jim la trattenne. — Che carrello? — Quello di Danny. Danny è qui e vuole dirci qualcosa. — Oh, Cristo — disse Jim, con l'aria di uno sull'orlo della crisi di pianto. McNulty entrò nella stanza dove l'uomo era in attesa, si presentò, gli strinse la mano e si sedette puntellando i gomiti sulla scrivania. — Avete detto che si tratta di vostra moglie, signor Woodruff? Woodruff dimostrava circa sessantacinque anni. Aveva il viso rosso e i capelli bianchi, e sembrava il tipo che non aveva mai avuto problemi eco- nomici, nella vita; ma c'era qualcosa che non andava nella sua espressione. McNulty aveva già visto quell'espressione negli occhi di gente che aveva subito una grave perdita; era lo sguardo di una persona ferita, difficile da descrivere: forse le sclere erano un po' più scure, e c'era qualcosa di tirato nelle palpebre. — Sente le cose — disse Woodruff. Teneva una mano sull'altra, pre- mendo così forte che le dita erano diventate rosse e gialle. — Che genere di cose sente? Woodruff deglutì a vuoto. — Un carrello da supermercato. Sente il ru- more di un carrello dietro a un tizio che cammina lungo il corridoio, e si mette in testa di seguire il tizio. — Quante volte è successa questa cosa? — Due. La prima volta è stato ieri. Poi ha udito di nuovo il rumore sta- mattina, mentre andavamo a fare colazione, e ha seguito lo stesso indivi- duo di ieri nel ristorante. Abbiamo ordinato, e mentre eravamo a metà del- la colazione il tizio è scivolato giù dalla sedia, crollando in terra. McNulty parve molto interessato. — Dov'è accaduto tutto ciò? — Al ristorante Madison, dove mangiamo sempre. — Verso le nove e mezzo, vero? — Sì, circa a quell'ora. McNulty disegnò sul notes un grande quadrato. — Interessante. Poi co- s'è successo? — Poi ha sentito di nuovo il rumore quando da un altro tavolo si è alzata un'altra persona, una donna. E anche mia moglie si è alzata, per seguire la donna. Ci ho messo un po' a dissuaderla dall'entrare nell'ascensore. L'ho ri- portata in cabina e le ho fatto prendere una pillola. — Che medicine prende? — Valium, e altre pillole per dormire di cui non ricordo il nome. McNulty disegnò un altro scarabocchio, questa volta una spirale. — Ha mai avuto disturbi mentali prima d'ora? — Sì — disse Woodruff, guardandosi le mani. — Ebbe un esaurimento nervoso dopo che mori nostro figlio, nel 1973. Stette in ospedale cinque mesi. — Sapete a che terapia la sottoposero in quell'occasione? — Insulina. — Shock insulinico? — Sì. — Mi sorprende — disse McNulty, osservando i propri scarabocchi. — E dopo? Le è mai capitato di sentire rumori strani, prima d'ora? — No. Ma è sempre stata nervosa. È una donna nervosa. — E il carrello da supermercato? — disse McNulty. — È curioso che senta proprio il cigolio di un oggetto del genere. Ha qualche significato particolare per voi? Woodruff rimase un attimo in silenzio. Quando McNulty lo guardò, vide che aveva le lacrime agli occhi. — Sì — disse Woodruff, rauco. — Sì. Il carrello significa Danny. Danny era il figlio minore dei Woodruff, nato quando Emily aveva tren- tacinque anni. Quando il bambino aveva due anni, Jim aveva trovato un carrello da supermercato in mezzo alle erbacce di un piccolo spiazzo lungo la strada. Sul carrello non c'era niente che indicasse da quale negozio pro- veniva, così Jim l'aveva portato a casa giusto perché lì in mezzo alle erbac- ce era brutto a vedersi. Pensava di darlo a qualche tuttofare o a un rigattie- re, ma quando Danny l'aveva visto, l'aveva voluto per sé. Era il suo giocat- tolo preferito. C'era qualcosa che non andava nelle ruote; quando il bambi- no spingeva il carrello in giro per la casa, producevano un cigolio che sembrava il rumore che ranno i grilli. — Così almeno sappiamo sempre dov'è Danny — aveva detto Jim. Nell'estate del 1973 Jim aveva comprato una grande autocaravan e l'ave- va messa in garage per tirarla fuori al momento delle vacanze. Quando quel momento era venuto, un vicino di casa, Walt Singleton, si era messo in fondo al viottolo d'accesso per aiutare Jim a uscire a marcia indietro dai garage con l'autocaravan. Emily era entrata in casa per prendere all'ultimo momento una cosa che aveva dimenticato, e Jim si era stancato di aspettar- la. Ricordava ancora l'odore di pelle della tappezzeria, e il sole nitido che brillava di là dal parabrezza azzurrognolo. Ricordava di avere messo in moto e ascoltato il rombo allegro del motore. Guardando Walt nello spec- chietto retrovisore, aveva ingranato la retromarcia e iniziato a spostarsi piano indietro. Poi aveva sentito un colpo, e udito Walt urlare. — È stato venticinque anni fa, dottore — disse Woodruff. — Che diavo- lo, non si può... — Ma non riuscì a continuare. 25 Due settimane dopo che l'orrore era iniziato, la gente, sulla Sea Venture, era sempre più in preda al panico. Invece di andare a mangiare al ristoran- te, molti facevano incursione nelle cucine, prendevano tutto il cibo che tro- vavano e se lo portavano nella loro stanza. A volte capitava che chi aveva saccheggiato una cucina fosse derubato del suo bottino da altri passeggeri, nei corridoi. I pochi temerari che passavano il loro tempo nei luoghi pub- blici stavano diventando sempre più violenti e imprevedibili. Il casinò a- veva chiuso i battenti dopo una serie di risse; quasi tutti i negozi e la mag- gior parte dei ristoranti erano chiusi. Il vandalismo era ormai un problema: sul ponte sportivo la gente aveva sfasciato sedie a sdraio e attrezzature va- rie, e i fili dell'impianto elettrico sui soffitti erano stati strappati. A una delle riunioni dello staff direttivo, che si tenevano adesso quoti- dianamente, si discusse il problema del cibo. — Installiamo centri di distribuzione vivande nei corridoi — suggerì Ar- line Truman. — Basta una fila di tavoli: e che la gente si serva come vuo- le. Forse sarà più disciplinata se capirà che non ce ne importa niente che prenda il cibo. — Ci sarebbe una corsa all'accaparramento — disse Armand Schaffer. — Può anche darsi, ma almeno così non li vedremmo compiere scorrerie ogni giorno. — Significherebbe però un grosso spreco. Perché non facciamo così? Mettiamo insieme dei cartoni di prodotti nutrienti, scatolette o il tipo di co- sa che si mantiene in frigorifero, insomma roba capace di garantire un e- quilibrio nutritivo. Cibi da buffet. Prosciutto, pollo freddo, roast beef. I passeggeri per un po' possono sopravvivere con una dieta del genere. Cosi non cercheranno di accaparrarsi questo o quello, cosa che, ne convengo, provocherebbe confusione. — E per le consegne a gente che non esce facilmente dalla cabina? — Si può trovare la soluzione — disse Skolnik. — Mi preoccupa invece un po' di più l'igiene. Quelle cabine saranno ormai luride: le cameriere non possono entrare. Stiamo cercando di mantenere frequenti le consegne di lenzuola e asciugamani puliti, ma siamo a corto di personale anche per queste cose. Che succederebbe se scoppiasse un'altra epidemia? Sarebbe di sicuro la fine. Luis Padilla spinse il carrello fino alla cabina 18 e bussò. — Un attimo — disse una voce impastata. La porta si aprì e apparve la signora Emerton, un po' traballante. — Oh, siete voi, Luis — disse. Non riuscirà a mettere bene a fuoco la vista. — Luis è tornato, David. Non è una bella notizia? Entrate, Luis. Guarda, Da- vid, è Luis. Camminando davanti a Padilla, la signora Emerton inciampò. Indossava un négligé azzurro che lasciava in parte trasparire le natiche. Il signor E- merton era stravaccato sul divano con un sorriso inespressivo sulle labbra e la cravatta penzolante. La signora Emerton si girò, diede la mancia a Luis, poi si sedette pesantemente accanto al marito. — Mettete lì, Luis — mormorò. Padilla spostò i bicchieri contenenti il drink degli Emerton e tolse dal carrello il solito caviale, i crackers e una bottiglia piccola di champagne. Il signor Emerton aveva gli occhi chiusi ed era scivolato un po' più giù, sul divano. La signora Emerton borbottò qualcos'altro, poi chiuse gli occhi an- che lei, mentre la bocca le si apriva. Il signor Emerton cominciò a russare. Alle spalle dei due, sopra la toeletta, Padilla vide ii portagioie aperto, con le collane che ne uscivano. — Signora Emerton? — disse, protendendosi verso di lei. Ma lei non ri- spose. Padilla girò silenziosamente attorno al divano e guardò i gioielli. Solo lo smeraldo valeva probabilmente cinquantamila dollari. Nel portagioie c'era un anello con uno zaffiro asteria grande quasi quanto lo smeraldo. Le perle erano sicuramente vere. Padilla le prese e le infilò in tasca, poi prese lo smeraldo e lo zaffiro, quindi due orecchini di brillanti e un solitario. Tutta insieme quella roba poteva fruttare settanta o ottantamila dollari, a Manila; suo cugino Renaldo avrebbe saputo come smerciarla. Con quella somma da aggiungere ai suoi risparmi, pensò, avrebbe potuto comprare la casa per quando suo padre fosse andato in pensione. In punta di piedi tornò al tavolo, rimise sul carrello il caviale, i crackers e lo champagne, e spostò i due bicchieri con i drink nella posizione origi- naria. Fuori, nel corridoio, lascio il carrello accanto alla porta. Avrebbe detto di aver bussato ma che nessuno aveva risposto; loro non si sarebbero ri- cordati di niente, una volta svegli. Nell'ascensore di servizio si mise a fi- schiettare. 26 Quando Stevens scoprì che il professor Newland si stava riprendendo dalla malattia nella cabina accanto alla sua, fu talmente divertito dalla cosa da far visita al vicino di stanza e presentarglisi. Confrontando gli appunti, appresero di essere stati colpiti dall'epidemia a distanza di pochi minuti l'uno dall'altro. Stevens aveva contagiato una donna in ascensore, poi que- sta aveva contagiato lo steward Kim Lee, e Lee aveva attaccato la malattia a Newland. — Viene quasi da pensare che ci sia un nesso significativo, no? — disse Newland. — Come se fosse destino che ci incontrassimo? — disse Stevens. — Io avrei preferito che ci fossimo conosciuti in un altro modo. Newland sorrise. — Be', anch'io, ma non sempre ci è dato scegliere. Se ripensate alla vostra vita non avete l'impressione che tutte le cose impor- tanti siano successe per caso? — No — disse Stevens. — Non credo al caso. Gli era anzi venuto in mente che l'epidemia potesse non essere affatto casuale, ma essere stata provocata dall'organizzazione che lo aveva incari- cato di uccidere Newland; certo, se gli uomini che lo avevano assoldato e- rano davvero quelli che credeva lui, l'epidemia serviva a puntino i loro in- teressi. Ma se avessero progettato una cosa simile non avrebbero avuto bi- sogno di assumere lui, e lui adesso non si sarebbe trovato lì. Si era anche chiesto se avesse senso ormai portare a termine l'incomben- za che gli era stata affidata. Sempre partendo dal presupposto di avere in- tuito bene gli scopi dell'organizzazione, aveva pensato che la morte di Ne- wland sarebbe passata quasi inosservata in mezzo al disastro generale e non avrebbe assolto alcuna funzione. Ma lui non era pagato per quel gene- re di riflessioni. Non aveva ricevuto nuovi ordini e non si aspettava di ri- ceverne. In pratica, venendo ancora più al dunque, non. sapeva più quel che vole- va. Scoprì che Newland gli era alquanto simpatico; in altre circostanze sa- rebbe stato piacevole coltivare quell'amicizia. Lo divertiva l'idea che la vi- ta di Newland dipendesse da una decisione sostanzialmente arbitraria, che lui doveva ancora prendere. Per la prima volta in molti anni, era indotto ad analizzare le proprie mo- tivazioni. Per i fanatici e i despoti che serviva non provava altro che di- sprezzo. Non aveva mai ucciso per passione o ideologia. A parte il fatto professionale, uccideva perché dando la morte si confrontava in certo mo- do con essa. Adesso cominciava a chiedersi se il suo comportamento e le sue opinio- ni non fossero che il residuo chimico delle esperienze iniziali del cervello, quelle esperienze che anche gli altri uomini avevano. Sarebbe stato diver- so, John Stevens, se suo padre non si fosse suicidato in uno squallido al- bergo di Parigi quando lui aveva tredici anni? O se la sua innamorata dei tempi dell'infanzia, Maria Talliavera, non fosse stata uccisa dal proprio pa- trigno nell'attico della casa di Rue des Jardins? Sarebbe potuto esistere un altro Stevens? Esisteva forse già un altro Stevens, che magari gridava den- tro di lui come un gemello non ancora nato? Il discorso cadde sull'L-5 e poi sulla Sea Venture. — Vedo con chiarezza le somiglianze che saltano più agli occhi — disse Newland. — Sono sor- prendenti e hanno fatto molto effetto in Campidoglio. La Sea Venture è il prototipo di un habitat autosufficiente che si muove in un elemento in parte esplorato. Ha alcuni degli stessi problemi tecnici che si presentano nello spazio: sistema di sopravvivenza, comunicazioni, camere di equilibrio e così via. Perfino alcune delle soluzioni sono le stesse. — Allora credete che sia giusto scegliere come habitat l'oceano anziché lo spazio? — chiese educatamente Stevens. — Nel caso sia impossibile fare entrambe le cose? — disse Newland. — Francamente non lo so. Immagino dipenda da quello che si vuole. Uno dei pregi maggiori dell'L-5 era che consentiva di penetrare in un ambiente completamente alieno, un posto dove l'umanità non era mai stata. L'L-5 si- gnificava estendere il nostro raggio d'azione non solo di qualche milione di miglia quadrate, ma quasi all'infinito. Il fascino di una simile prospettiva era molto forte. Ora però non so più bene perché facciamo ciò che faccia- mo. — O magari se sia un bene che gli esseri umani esistano... Newland gli buttò un'occhiata incuriosita. — Questa è una cosa su cui non ho mai riflettuto molto. Credo che diamo per scontato che la nostra e- sistenza abbia un senso. — Certamente. Ma non per una ragione logica... — No, non per una ragione logica. Odiate la razza umana, John? — Oh, no. Schopenhauer diceva che a odiare tutte le miserabili creature che si incontrano si impiegherebbe una vita intera, mentre è molto più semplice disprezzarle. — Capisco. — Newland si accarezzò il mento. — E questa è la vostra fi- losofia? — Come voi, non so più bene quale sia la mia filosofia. Un tempo pen- savo che fosse sufficiente essere consapevoli di quanto l'uomo sia un ani- male assurdo, e poi mangiare bene, dormire bene, avere una coscienza sa- na. — E come riuscite a raggiungere questo obiettivo? — Non ci riesco più. Sapete, secondo me una coscienza sana è come un fegato sano: quando è effettivamente sano, non ci disturba. Ma questa filo- sofia l'avevo a trentanove anni. — E adesso quanti anni avete? — Ne ho compiuti quaranta tre giorni fa. — Un'età importante — disse Newland, serio. Stevens sorrise. — Touché. E voi, Paul, quanti anni avete? — Sessantatré. Per quel che vi può interessare, sappiate che io ne ho passate quattro, di queste crisi dell'età. La prima fu quando avevo superato di poco i trent'anni. Pensavo: eccomi qui, a trentuno, trentadue anni, sono nel mezzo del cammino e che cosa ho combinato? — Capisco. — Poi ho fatto ragionamenti analoghi dopo i quaranta, e dopo i cinquan- ta. E dopo i sessanta. Sono i numeri, che somigliano a quelli di un conta- chilometri: ogni volta che le decine cambiano, ci ricordiamo del tempo che passa. Stevens lo guardava intento. — Non vi è mai venuto in mente che sareb- be meglio farla finita? — Oh. — Newland si osservò le mani. — No, per lo meno non sul serio. Esistono sempre nuovi obiettivi da raggiungere, e ho sempre avuto la con- sapevolezza che una volta che si è usciti dalla crisi si vedono le cose sotto una luce migliore. — Il buio prima dell'alba — disse Stevens, senza nascondere del tutto il tono ironico. Newland giunse le mani. — Vi posso solo dire che ho ancora la solida convinzione che la vita abbia un qualche senso, benché non sappia spiega- re quale. Tutti noi dobbiamo decidere da soli se questo senso è sufficiente a farci vivere. Non negatevi una possibilità. 27 La prima volta che Stevens rivide Julie e i suoi genitori dopo la malattia, l'incontro avvenne in un'atmosfera piuttosto triste. Pranzarono nell'appar- tamento dei Prescott: panini al prosciutto e tè. Prescott usciva per le prov- viste ogni due giorni; a parte quello non si avventurava mai fuori della ca- bina, al pari della moglie, che per quanto si sforzasse di apparire allegra era chiaramente sull'orlo dell'isteria. Quando Stevens propose a Julie di fa- re un giro sul ponte di passeggio, la signora Prescott inorridì. — Non do- vete andare là! — disse. — Te lo proibisco, Julie. — Mamma, ho già avuto la malattia — disse lei stancamente. — Non importa! C'è in giro gente che fa cose terribili. Lionel, diglielo tu che non deve andare! Prescott appariva imbarazzato. — Julie, effettivamente credo sia me- glio... — Devo parlare di alcune cose con John — disse lei. — Non ci mette- remo molto. — La riporterò qui sana e salva, signora Prescott. Il ponte di passeggio era pressoché deserto. La moquette era invasa da cartacce; i bidoni della spazzatura e i portacenere straripavano. Fuori il cie- lo brillava sopra un mare luccicante. — Sediamoci qui — disse Julie. Aveva il viso tirato. — Vuoi che conti- nuiamo a vederci? — gli chiese dopo un attimo. — Che domande! — Stevens si protese verso di lei e le posò una mano sul braccio. — Per piacere! — Julie si spostò leggermente. — Desidero solo che tu mi dia una risposta. Se la risposta è sì, va bene, e se è no, va bene lo stesso. Stevens la scrutò incuriosito. Era cambiata; era meno vulnerabile e in certo modo più interessante. Non si era mai preso la briga di domandarsi se la desiderasse veramente; ora capiva di desiderarla. — Sì — disse tranquil- lo. — Andiamo nella mia cabina. Dopo, lei disse: — Non è la stessa cosa di prima, vero? — No. — Io non ti amo, sai. Quando c'è l'amore è più bello. — E quando ti sei accorta di non amarmi? — Dopo che sono stata ammalata. Prima non è che ti amassi, ma lo cre- devo. A che cosa miri, ai soldi dei miei? Non ne hanno mólti. Stevens prese una sigaretta dal pacchetto e la accese. — Non sono un cacciatore di dote, Julie. — Però non sei neanche un membro della Gallard Frères di New York. Ho telefonato a un amico del babbo. — Gli hai detto "Gallard"? È Ballard, tesoro, con la b. — Non raccontare balle — disse lei. — Che senso ha mentire? In effetti Stevens si rendeva conto che la menzogna era solo un'abitudi- ne, parte di un gioco: un gioco che giocava da così tanto tempo da essersi ormai dimenticato che esistessero altri modi di vivere. — Sai — disse — vorrei tanto poterti dire tutta la verità su me stesso. Lei lo guardò. — La sai tutta? — Chi mai sa tutto su se stesso? — Si girò e le posò una mano sulla spalla. — E tu vuoi che continuiamo a vederci? Lei abbozzò un sorriso. — Sì. Perché no? Dopo che sua moglie si fu ristabilita, Malcom insistette perché condu- cessero la vita più normale possibile; non poteva sopportare, disse, l'idea di tenerla chiusa in cabina dopo tutto quello che aveva passato. — È assurdo che tu corra il rischio — disse lei. — Io la malattia l'ho avuta, ma tu no. — Non importa — replicò Malcom. Era stato pazzamente in ansia, specie dopo che la moglie era stata trova- ta nella cabina di uno sconosciuto. Quando lei gli aveva spiegato perché l'aveva fatto, Malcom aveva pianto calde lacrime sulla sua guancia. Nes- sun uomo, aveva detto, aveva mai avuto una simile compagna. Mangiavano nei ristoranti ancora aperti, giravano per il ponte di passeg- gio, oziavano nelle sdraio accanto alla piscina. Malcom colmava la moglie di tenerezze e attenzioni perché, diceva, lei non si era ancora ristabilita del tutto: ma non era quella la vera ragione. Un giorno, a pranzo, Norman Yeager si avvicinò al loro tavolo. Portava i suoi jeans logori e il suo buffo berrettino, e aveva sulle labbra un sorriso timido. Presentandolo a Malcom, lei capì che il marito, in un eccesso di magnanimità, stava lì lì per invitarlo a sedersi. Lo dissuase dal farlo toc- candogli il ginocchio, sotto il tavolo, e Norman, dopo essere rimasto qual- che attimo a dondolarsi sui piedi, si allontanò. — Sembra un tipo assolutamente innocuo — disse Malcom, dopo. — Avremmo potuto essere un po' più cordiali, non credi? In fin dei conti ti ha fatto un enorme favore. E probabilmente è rimasto affascinato da te. È fa- cile, no? — Un motivo in più per non invitarlo a sedersi — disse lei. — Dimmi la verità, Malcom, davvero c'è stato un momento in cui hai pensato che...? Lui sorrise e le prese la mano. — Solo perché non ragionavo più — dis- se. Si erano conosciuti a un party al Village. Dopo avere scambiato con lei poche parole, Malcom era scomparso ed era tornato poi con un grappolo d'uva che le aveva offerto. — Vorrei che fossero smeraldi — aveva detto. — Una frase da Charles MacArthur — aveva sorriso lei. — Lo so, ma la dico sul serio quanto lui. Anzi di più. Poi era stato tutto così rapido, facile, naturale. Malcom era un avvocato, non un tipo alla Perry Mason, ma una persona dolce e gentile. Altri uomini le avevano detto che era molto bella, ma Malcom era stato il primo a esse- re davvero convincente. Lei lo aveva amato con devozione totale, lo aveva amato più della propria vita. Le tornò in mente, come se fosse successo a qualcun altro, il momento in cui aveva capito di essere stata contagiata. Era corsa via dal marito, ed era stato un gesto ragionevole, perché pensava che sarebbe comunque morta; ma non aveva agito così perché lo reputasse un gesto ragionevole. Se avesse potuto scegliere tra la propria morte e la morte di Malcom, non avrebbe avuto esitazioni. Era proprio quell'atteg- giamento che adesso le sembrava così strano. Amava ancora suo marito, perché era buono e caro e le voleva bene, ma avrebbe rinunciato alla pro- pria vita per la sua? Probabilmente no. Si sentiva cambiata, e quel cambiamento doveva nasconderlo a Malcom; un'impresa sempre più difficile, perché lui sapeva che qualcosa non anda- va, ma non osava chiedere cosa. 28 Nei giorni in cui aveva del lavoro da sbrigare nel settore passeggeri, Hi- gpen soleva far visita a Newland e trattenersi con lui un'oretta. A volte pranzavano o cenavano insieme. In quelle occasioni Hal Winter era sempre presente, e in alcuni casi erano presenti anche Julie Prescott e John Ste- vens, una giovane coppia che era stata ricoverata in ospedale nello stesso periodo di Newland. In un primo tempo Higpen cercò di giustificare l'atteggiamento dei tre con la malattia recente, ma con il passare del tempo si sentì sempre più a disagio. Avevano qualcosa di strano, ed era sicuro che anche Winter se ne rendesse conto. Si disse che forse il suo disagio nasceva in parte dal fatto che non gli piaceva John Stevens: era troppo squisitamente gentile, troppo affascinante e nel contempo troppo ironico, il tipo d'uomo di cui Higpen istintivamente diffidava. Provava più simpatia per Julie Prescott, che sembrava sforzarsi di apparire più allegra di quanto non fosse realmente. Ma a disturbarlo maggiormente era il cambiamento subito dallo stesso Newland. Newland era gentile come sempre e la sua conversazione era come sempre interes- sante, ma Higpen aveva spesso la sconfortante sensazione che il professore recitasse una parte. Inoltre fra i tre sembrava esserci una sorta di tacito ac- cordo, un'intesa segreta che escludeva sia lui sia Hal Winter. Una volta, mentre Higpen e Newland si trovavano momentaneamente da soli, Higpen disse: — Come vi sentite, Paul? — Molto bene. Sono perfettamente a posto. — Nessun postumo? — No. Per lo meno, non postumi fisici. Forse c'è un certo fallout filoso- fico. — Che cosa intendete dire? — È difficile a spiegarsi. L'altro giorno svegliandomi ho ripensato a uno scambio di vedute che ebbi con una giovane donna venuta ad ascoltare una delle mie conferenze. Fu a San Diego, quattro o cinque anni fa. Non so come mai mi sia tornato in mente d'un tratto quell'episodio. Lei si alzò in piedi e mi chiese perché pensavo che fosse importante costruire città nello spazio, o, se è per quello, anche nell'oceano. Avevamo già delle città sulla terra, disse; perché non spendere i nostri soldi per renderle migliori? Sorrise a Higpen. — Bene, le chiusi subito la bocca con due o tre frasi ben scelte. Dissi che non eravamo arrivati dove siamo arrivati acconten- tandoci di quello che avevamo già. Siamo sempre stati animali dotati del gusto dell'esplorazione, dissi: ci siamo spinti dovunque fosse possibile spingersi, e abbiamo fatto tutto quello che ci era possibile fare. È stato questo a renderci grandi. — Giusto. — Sì, e lei allora si sedette, ma l'altra mattina mi pareva di sentire la sua voce che diceva: "Che bisogno abbiamo di essere grandi?" E non riuscivo a trovare una risposta. — Be', ecco... — disse Higpen, a disagio. — Vedete? Nemmeno voi riuscite a trovarla. Hal Winter tornò nella stanza e si sedette. — Hal — disse Newland — forse voi lo sapete... Che bisogno abbiamo di essere grandi? — Grandi in che senso? — disse Hal, con diffidenza. — Nel senso di costruire piramidi, scalare l'Everest, andare nello spazio. Hal accavallò le gambe. — C'è un sacco di gente che non fa queste cose. — No, è vero, ma pensate a dov'eravamo centomila anni fa e dove siamo adesso. — Si rivolse a Higpen. — Vi ricordate i Tasaday? — Nelle Filippine? Sì. — Una piccola tribù di quante persone? Circa venti credo, com- pletamente isolate nella giungla. Vivevano ancora come all'età della pietra. Non sapevano che ci fossero altri esseri umani al mondo. — Mi ricordo. — E sapete una cosa? Erano felici. — Non conoscevano niente di meglio. — No, infatti. Mi viene in mente anche un'altra cosa... È curioso come riaffiorino questi ricordi. Un antropologo una volta ha calcolato che gli a- borigeni australiani, prima che arrivasse l'uomo bianco, dedicavano alla caccia e alla raccolta di bacche circa dieci ore alla settimana. Il resto del tempo se ne stavano seduti a raccontarsi delle storie. — Ah sì? Erano selvaggi senza nemmeno i vestiti addosso. — Sì, già. Ed erano felici. Una volta conoscevo un uomo che aveva vis- suto in Alaska con gli eschimesi, e diceva che nei villaggi dove non ave- vano ancora avuto molti contatti con i bianchi, gli eschimesi erano il popo- lo più felice che avesse conosciuto. — Paul, non capisco bene dove volete arrivare. — Non lo so nemmeno io, ma l'altra mattina ho cominciato a chiedermi se non sia giusto cercare di essere felici... 29 Il diciottesimo giorno i pazienti del neo-ospedale erano ancora in au- mento, ma il ritmo con cui la gente si ammalava era più lento, e McNulty calcolò che se avesse continuato a dimettere tante persone quante ne di- metteva adesso, il numero dei ricoverati si sarebbe ridotto a circa trenta. Era contento delle guarigioni, ma sulla malattia non ne sapeva di più di quanto avesse saputo all'inizio. C'era anche un altro particolare negativo: era sempre più preoccupato per il cambiamento di personalità che mostravano i pazienti ristabilitisi. Geller era il primo esempio. Chiunque lo avesse ascoltato parlare avrebbe detto che era sveglio, intelligente, perfettamente razionale, eppure aveva mollato il lavoro senza dare spiegazioni e preso a pugni un collega che gliene aveva chiesto una. Si sarebbe potuto dare la colpa allo stress nervo- so, ma il giorno dopo anche Yvonne Barlow aveva lasciato il lavoro, e McNulty aveva capito che il laboratorio marino andava a catafascio. Dopo di loro nella lista venivano due steward. Uno di essi, Manuel Obregòn, a- veva avuto da dire con il sovrintendente: c'erano state accuse e controaccu- se davanti alla commissione sindacale. L'altro, Luis Padilla, era stato accu- sato di avere derubato un passeggero. Dopo Padilla c'era una piccola sfilza di nomi esotici: Boom Hee Koh, Jamal A. Marashi, Setsuko Nakamura. E altri nomi esotici erano disseminati nell'elenco, più di quelli che ci si sa- rebbe aspettati di trovare; come se il fenomeno fosse stimolato da persone di aspetto e abbigliamento insoliti. Marashi aveva picchiato sua moglie du- rante un litigio e McNulty aveva dovuto darle cinque punti su un labbro. Una certa signora Morton Tring aveva lasciato il marito, con cui era sposa- ta da vent'anni, e si era trasferita con un'amica in un appartamento del cas- seretto. Un'altra aveva lasciato il marito senza dare spiegazioni ed era stata trovata la mattina dopo nella stanza di Norman Yeager. Quasi ogni giorno c'era qualche storia di pugni che riguardava pazienti guariti, e ogni tanto si registravano episodi più gravi. Al bar del casseretto, nel cuore della notte, quattro uomini ubriachi e rissosi erano stati invitati dal direttore ad andar- sene; per tutta risposta loro lo avevano steso, poi gli avevano rotto una bot- tiglia in testa e avevano rovesciato tutti i tavoli, e c'era voluta una mezza dozzina di uomini della sicurezza per farli smettere. Al ristorante Madison un cameriere a cui era stato chiesto per la seconda volta da un cliente quando sarebbe stato pronto il pane fritto nell'uovo, aveva risposto: — Fat- telo da te se hai fretta. — Poi aveva buttato un vassoio addosso al cliente, era uscito dal locale e non era tornato più. Da quando aveva dato le dimissioni, Geller era tornato una volta al labo- ratorio marino, ma adesso non era lì; non rispondeva né al telefono della sua stanza, né a quello personale, e lo stesso valeva per la Barlow. McNulty li aveva fatti chiamare varie volte, ma fu solo nel tardo pomerig- gio che ricevette una telefonata. — Sonò Geller. Che cazzo volete? — Solo parlarvi. Sapete dove sia la signora Barlow? — È qui. Di che cosa volete parlare? — Dell'australite, tanto per cominciare. Vincent dice di non sapere do- v'è. Crede che l'abbiate voi. — Vincent è un idiota. Sì, ci ho lavorato un po' su con Yvonne. Non è vetro. — No? — No, è silice in cellule microscopiche, qualcosa di simile a una blastu- la. — Organica? — Certo, organica. — Dio santo, ciò significa allora che... Potreste portare qui da me la sfe- ra e farmici dare un'occhiata? — Non so... — Vorrei conoscere le vostre opinioni sulla faccenda: vostre e della si- gnora Barlow. — Le chiederò se le va di venire — disse Geller, e riappese. Lui e la Barlow passarono da McNulty verso le cinque. Entrambi aveva- no un'aria fredda, calma e rilassata; dal modo in cui si sedettero l'uno vici- no all'altra McNulty credette di capire che il rapporto tra loro fosse diven- tato più personale. — Ecco l'affare — disse Geller, porgendo a McNulty la sfera trasparente incrinata. — Non è un'australite. Yvonne è convinta che sia un manufatto. — Anche se è organica? — Per via della forma — disse la Barlow. — L'interno è una sfera per- fetta, nei limiti concessi dalle misure. — Gli porse un cristallo fantastico; McNulty lo mise nel proiettore e guardò affascinato una superficie iride- scente fiorire sullo schermo: un grande globo pallido in cui si potevano di- stinguere le cellule lenticolari, che parevano sfere geodetiche aliene. — Allora che cos'è, un contenitore? Una sorta di congegno di trasporto? — Parrebbe. Abbiamo rotto la capsula, qualcosa è uscito, e Randy si è sentito male. — Avete idea di che cosa ci fosse, dentro? — chiese McNulty. — Ne abbiamo parlato, Né lui, né io riteniamo che si tratti di un micror- ganismo intelligente, o di un gas intelligente. Forse è un sistema di ener- gia, ed è per questo che non possiamo vederlo. Randy pensa che dovrem- mo cercarlo con un elettroscopio. — Yvonne sorrise. — Scherzavo — disse Geller, ma sorrise anche lui. — Sentite, c'è anche un'altra cosa che mi preoccupa — disse McNulty, e raccontò loro di Emily Woodruff, la donna che credeva di sentire il cigolio di un carrello da supermercato. Era andato a parlare con la signora Woodruff e l'aveva trovata in buone condizioni mentali: sapeva che giorno era, chi era il Presidente degli Stati Uniti, e così via. Forse un tocco di pazzia l'aveva, ma non maggiore di quello di tanti suoi pazienti liberi di girare per la nave, per cui McNulty non aveva giudicato opportuno rinchiuderla; e certo lui non aveva né la qualifica, né le apparecchiature per svolgere un lavoro da psichiatra. — Ma c'è una cosa cui penso di continuo — disse. — Stando al racconto del marito, Emily Woodruff ha seguito dentro a un ristorante un uomo che secondo lei produceva il suono di un carrello da supermercato, e poco do- po l'uomo è crollato in terra: era Brian Eisenstein, uno dei miei pazienti. Poi la Woodruff ha udito di nuovo il rumore quando una donna che sedeva a un tavolo vicino si è alzata e se ne è andata. Si trattava di Rebecca Kra- mer, che ha avuto un collasso più tardi, quello stesso pomeriggio. Il feno- meno dunque si è verificato due volte: o la Woodruff riesce a riconoscere una persona che ha la malattia e sta per avere il collasso, oppure è solo una coincidenza. — C'è un detto nell'esercito: una volta è un caso, due una coincidenza, tre un'azione del nemico — disse Geller. — Secondo me non è nemmeno giusto che la chiamate malattia. Parlate piuttosto di parassita. — Forse la signora Woodruff è il vostro elettroscopio — disse la Bar- low. — Riceve informazioni che noialtri non riusciamo a ricevere, e le in- terpreta a suo modo. — Che cosa fareste al mio posto? I due si guardarono. — Parla tu per prima — disse Geller. — D'accordo — disse la Barlow. — Il guaio è che questa "cosa" è trop- po intelligente. Se si cerca di acchiappare qualcuno che ce l'ha addosso, lei passa su qualcun altro. Ora, supponiamo che si riesca a identificare l'ospite non solo quando il parassita entra in lui, ma in qualsiasi momento. — Allora? — Allora dovreste dargli una martellata in testa e trascinarlo in un posto isolato — disse Geller. — Così il parassita sarebbe confinato a un unico individuo, e l'epidemia finirebbe. — Sta scherzando — disse la Barlow. — Una martellata no, ma se gli si facesse un'iniezione? C'è una cosa che potrebbe metterlo fuori combatti- mento abbastanza in fretta senza ucciderlo? — Certo, anche due, ma vi rendete conto di che cosa mi state suggeren- do di fare? — Fate quel che volete — disse Geller. Ruttò e accennò ad alzarsi. — No, aspetta un attimo, Randy, non essere così fottutamente impazien- te. Sentite, dottore, volete risolvere il vostro problema o no? Trovate l'ospi- te e fategli un'iniezione. Così cadrà in stato di incoscienza e il parassita non potrà uscire. Portatelo in una cabina e lasciatelo lì con abbondanti provviste di cibo. Quando riprenderà conoscenza, il parassita non potrà nemmeno allora uscire, perché non ci sarà nessun essere umano abbastanza vicino. Allora potrete spiegare le cose all'ospite per telefono. — Tu l'accetteresti una spiegazione simile, Yvonne? — chiese Geller. — Sarei fuori di me dalla rabbia, ma non si può fare un'omelette senza rompere le uova. — È un discorso che ho già sentito. Non lo ripeteva sempre Himmler? — Dai, Randy. Hai un'idea migliore? — No. E voi, dottore? Quando se ne furono andati, McNulty pensò a lungo a loro. Erano due giovani vivaci, allegri, entrambi estremamente intelligenti, ma avevano qualcosa che non andava, nella testa. Sembrava che non gliene fregasse niente di nessuna cosa. Per loro isolare il parassita era come un gioco, e in realtà non gli importava se avrebbe funzionato o no. Non si erano nemme- no presi la briga di parlargli delle loro scoperte riguardanti l'australite, fin- ché non era stato lui a mettersi in contatto con loro. Asociali, pensò, ma non era nemmeno così. Era che... qualcosa mancava in loro, qualcosa di importante e della cui perdita essi non si rendevano nemmeno conto. Però avevano ragione: non c'erano altre possibili soluzioni, oltre a quella da loro suggerita. 30 Dopo avere cincischiato per due giorni, martedì finalmente Bliss diede il suo permesso. Mercoledì mattina, quando arrivò la prima paziente, McNulty seppe che aveva avuto il collasso in una tavola calda del ponte E. Appena la paziente fu a letto con la sonda di alimentazione nel naso, McNulty chiamò i Woodruff e chiese loro di trovarsi con lui nel corridoio di prua del ponte E. Mise al posto del camice bianco una giacca, prese dal- la cella frigorifera la siringa ipodermica e se la infilò in tasca. Si sentiva come un assassino armato di accetta. — Andiamo Lori — disse alla donna della sicurezza che lo aspettava nell'ufficio con una sedia a rotelle. — Ricordatevi di stare dietro di noi e di non avvicinarvi finché non vi chiamo io. Emily e Jim Woodruff erano seduti su una panca nel corridoio. Appena vide McNulty, Jim si alzò. — Ho fatto fatica a tenerla qui. Vorrebbe anda- re in perlustrazione perché è convinta che sia qui da queste parti. — Bene — disse McNulty. — Siete pronta, Emily? — Sì. — D'accordo, cominciamo ad andare un po' in giro. Se sentite il rumore, ditemelo subito. — Sono sicura che è vicino — disse lei. — John non ha voluto che dessi un'occhiata. — Ha fatto bene, perché prima dovevamo preparare tutto quanto. Nel corridoio c'erano poche persone dall'aria ostile e sospettosa. Loro diedero un'occhiata alla tavola calda, dove c'erano soltanto la cameriera e il barman. Lori Applewhite, la donna della sicurezza, li seguiva a breve di- stanza. Quando arrivarono in fondo al corridoio, dalla toeletta uscì un uo- mo. Emily assunse un'espressione estatica. — Eccolo — sussurrò. — Quello là? McNulty fece un segno alla Applewhite, che annuì e spinse avanti la se- dia a rotelle, oltre loro. L'uomo, un tipo magro e dai capelli grigi, si stava allontanando in fretta. — Signore! — lo chiamò lei. L'uomo si girò. — Sì? — Sicurezza. Posso vedere la vostra carta di identità, per favore? McNulty e i Woodruff passarono accanto ai due. — Proseguite — mor- morò McNulty. L'uomo infilò la mano in tasca. — Cos'è successo? McNulty si voltò, prese la siringa, le tolse il cappuccio, infilò l'ago nella nuca dell'uomo e premette lo stantuffo. Ritrasse l'ago appena in tempo per sorreggere l'uòmo mentre cadeva. Janice li stava aspettando nella stanza in fondo al corridoio isolato. Ste- sero l'uomo sul letto e gli allentarono la cravatta. McNulty si premurò di guardare dentro il suo portafogli: la loro cavia si chiamava Roger Cooke e aveva una patente di guida del Maine. McNulty buttò un'occhiata alla tele- camera montata in un angolo del soffitto. — Funziona? — Sì, dottore. — Bene, usciamo di qui. — Sembra che abbia funzionato, devo riconoscerlo — disse Bliss. — Come l'ha presa, Cooke? — Non molto bene, ma è abbastanza calmo. Dice che ci farà causa. Gli stiamo dando la precedenza, nel servizio in camera: gli concediamo tutto ciò che vuole. — Be', è un bel sollievo. Tanto di cappello, dottore. Avete mica pensato a che cosa fare di Cooke quando arriveremo a Guam? — Ho parlato con la commissione sanitaria di Guam. Stiamo cercando di trovare una soluzione efficace: forse l'idea migliore è che una nave guardacoste stia ancorata al largo. Sarebbe meglio portare Cooke a Manila. Le complicazioni burocratiche sono moltissime, ma credo che riusciremo a sbrogliare tutta la faccenda. Che cosa faranno quando lo avranno in conse- gna non lo so, ma se non altro noi avremo scaricato la patata bollente. — Grazie al cielo. Dopo tre giorni la Sea Venture era quasi tornata alla normalità: i risto- ranti erano pieni, e i corridoi erano gremiti di gente allegra. Il quarto gior- no, di mattina presto, McNulty ricevette una telefonata dalla guardia di si- curezza che sorvegliava sullo schermo tv la cabina di Cooke. Cooke sem- brava avere le convulsioni. Con un senso di vuoto allo stomaco, McNulty raggiunse con un'infer- miera la cabina e aprì la porta. L'infermiera corse subito accanto al pazien- te. McNulty si inginocchiò vicino a lei e aprì le mascelle a Cooke per im- pedirgli di mordersi la lingua. Quando alzò gli occhi, vide che l'infermiera era in piedi e barcollava leggermente. La donna fece qualche passo verso la porta, poi cadde come un albero abbattuto. Prima di arrivare a chiamare aiuto, McNulty sentì un altro corpo crollare in terra, nel corridoio. Cooke era morto, e fuori della sua cabina c'era un'intera fila di vittime. L'orrore era fuggito. 31 Alla fine della giornata lavorativa, McNulty tornò nella sua cabina, prese due Nembutal e andò a letto. Svegliandosi la mattina dopo ricordò bene ciò che era successo e pensò che non era più degno di esercitare la medici- na. Aveva infranto la più antica regola deontologica: "Il regime che adotte- rò in base alle mie capacità e al mio giudizio dovrà andare a beneficio dei miei pazienti, e non a loro danno o scapito". Scoprì che quella colpa che si sentiva adesso sulle spalle aveva sempre sospettato di averla. Se la Sea Venture fosse stata Santa Barbara, avrebbe potuto piantare lì tutto. Ma sulla Sea Venture non si poteva. Nel bene e nel male, lui era l'unico medico a bordo della nave e aveva ancora delle cose da fare. Decise che le avrebbe fatte meglio che poteva, con la massima ef- ficienza se ci riusciva, e che poi avrebbe cercato di capire che ne era della sua vita. Ammesso che della sua vita restasse qualcosa. Il cadavere di Cooke era stato congelato e si trovava in un angolo del re- parto celle frigorifere. I suoi familiari erano stati avvisati. Era stato chiesto se volevano la sepoltura in mare, ma loro preferivano riavere il corpo. Come prescritto dalla legge, ci sarebbe stata un'inchiesta. McNulty era col- pevole di negligenza nell'esercizio della professione o, secondo come si volevano vedere le cose, di omicidio; ma la sua maggiore colpa, quella che non avrebbe mai potuto perdonarsi, era stata la stupidità. Il giorno dopo cominciò con metodo e diligenza a rintracciare e interro- gare tutti i pazienti guariti. Jamal A. Marashi, l'uomo che aveva picchiato la moglie, era un malese che viveva negli Stati Uniti. A McNulty sembrò una persona enormemente egoista; durante quasi tutta la conversazione non parlò altro che dei torti della moglie. McNulty ritenne che il suo com- portamento non dimostrasse nulla; a quanto ne sapeva lui, Marashi era e- sattamente così anche prima della malattia. Il discorso era diverso invece per Luis Padilla, lo steward. All'inizio par- ve molto disinvolto; negò di avere rubato dei gioielli ai signori Emerton e sottolineò che era incensurato. — Signor Padilla — disse McNulty — io sono un medico, non un poli- ziotto. Non m'interessa se avete preso o meno quella roba. Sto invece cer- cando di scoprire che effetti produce la malattia sulla gente. Potreste sem- plicemente dirmi se vi siete sentito diverso dopo la guarigione? Dei gioielli non parleremo affatto. Padilla si mosse sulla sedia, a disagio. — Diverso? Be', un po' diverso forse sì. — Potreste spiegarmi in che senso? — Be', ecco, la penso diversamente su alcune cose. — Cioè? Padilla parve deciso a vuotare il sacco. — Vedete, dottore, io sono filip- pino. Il nostro paese è stato conquistato dal vostro un secolo fa. In un pri- mo tempo il vostro paese disse che dopo aver cacciato via gli spagnoli ci avrebbe concesso l'indipendenza. Poi cambiò idea e disse no, le Filippine sono nostre, adesso. Avete sentito parlare del nostro eroe nazionale, Agui- naldo? — No — disse McNulty. — Mi dispiace. Padilla sorrise. — Era a capo del movimento per l'indipendenza. Com- batté in molte battaglie. Il governo degli Stati Uniti riuscì a sconfiggerlo solo con un trucco sleale. — Capisco — disse McNulty. — Allora adesso avete un'altra opinione degli americani? — Non di voi, dottore — disse affabilmente Padilla. — Credo che siate una brava persona. Ma so che cosa gli americani hanno fatto al mio paese, e credo sia importante che abbiamo un orgoglio nazionale. — E avete cominciato a pensarla così dopo che siete guarito? — Sì. — Padilla alzò le spalle e sorrise. — Volete sapere perché non prima? Non lo so, il perché. Forse ho badato troppo alla gente che mi dice- va: sta' al tuo posto, ricordati che gli americani sono i padroni. Non so, ma sono convinto che il mio modo di pensare di adesso sia più giusto. La signora Morton Tring si presentò con la sua amica, Alice Gortma- cher, con la quale coabitava da quando aveva lasciato il marito. La signora Tring era una bella donna di poco più di cinquant'anni; la Gortmacher era più piccola, più scura e più passionale. — Se credete di indurre Susan a tornare da quell'uomo — disse — vi sbagliate di grosso. — No, no — disse McNulty — non è certo per questo che sono venuto. Credetemi, signora Tring... — Signora Coleman — lo corresse lei. — Mi faccio chiamare di nuovo con il mio cognome di ragazza. — Signora Coleman, allora. Vorrei solo sapere se il vostro modo di sen- tire è cambiato in qualche modo dopo la malattia. Le vostre opinioni, i vo- stri punti di vista sono cambiati? — Certo — intervenne la Gortmacher. — Ha capito per la prima volta che razza di mostro avesse sposato. — È vero, signora Coleman? — Sì, be', ecco... non è esattamente così, Alice. Voglio dire, sapevo be- nissimo com'era Mort, ma d'un tratto mi sono detta che restavo con lui per una serie di motivi sbagliati. — Che tipo di motivi? — chiese McNulty. — Be', le solite cose, sapete. I figli. La carriera di Mort. Quel che avreb- be detto la gente, eccetera. E poi immagino che avessi anche paura. Che cosa sarebbe successo se avessi divorziato e me ne fossi andata per conto mio? Nemmeno adesso so bene che cosa succederà. — Sì che lo sai — disse la Gortmacher, accarezzandole la mano. — Sì che lo sai. La signora Coleman mise la mano su quella dell'amica. — Alice mi farà lavorare con lei — disse. — È l'amica più cara che abbia mai avuto, e non so cosa farei senza di lei. Ma anche se non ci fosse stata Alice avrei fatto la stessa cosa: avrei lasciato Mort. — Potete dirmi che cosa vi ha indotto a prendere quella decisione? La Coleman esitò. — Be', vi potrà sembrare sciocco, ma pochi giorni dopo che ero guarita mi sono svegliata una mattina, e Mort era lì che rus- sava, e io mi sono semplicemente chiesta: cosa ci faccio qui? E ho analiz- zato tutti i motivi che mi avevano indotto fino allora a restare con lui, e non li ho trovati abbastanza validi. Così mi sono alzata e vestita, ho chia- mato Alice e me ne sono andata. — Signora Coleman — disse McNulty — quante donne sposate credete che la penserebbero come voi se solo riflettessero bene? — Quattro su cinque — rispose sicura. — Di più — disse decisa la Gortmacher. E forse aveva ragione, pensò McNulty. Comprendeva bene la signora Coleman, ma cosa sarebbe successo al mondo se l'indice dei divorzi fosse salito al novanta per cento? Se fossero rimaste insieme solo le coppie feli- ci? O se fossero diventati dottori solo quelli che sapevano di essere par- ticolarmente portati a esercitare la medicina? 32 Randy Geller e Yvonne Barlow, con gli occhiali da sole e in mano bic- chieri alti da cui sorseggiavano, erano stesi fianco a fianco nella sdraio ac- canto alla piscina e guardavano l'oceano luccicante. I loro costumi da ba- gno ormai erano quasi asciutti. — Che cosa vuoi fare adesso? — chiese la Barlow. — Non lo so. Andiamo a vedere i vecchiardi giocare a shuffleboard? — O ce ne stiamo seduti qui tutto il giorno? — A me va bene anche stare seduto qui un'eternità. — Geller sollevò il bicchiere e bevve. — Non hai paura di annoiarti? — Che cavolo, no. Sai cos'ho sognato stanotte? — No. — Ho sognato che avevo risolto il problema della sessualità. — Ha l'aria di essere una storia noiosa. — Era molto eccitante, invece. Perché a un certo punto è sorta la bises- sualità? Esistevano la teoria dell'Uomo Migliore, la teoria della Regina Rossa, la teoria delle Sponde Intrecciate, e nessuna di esse funzionava. Io risolvevo tutto, ma non mi ricordo più in che modo. — Forse la bisessualità è nata solo dal desiderio di divertirsi — disse svogliatamente la Barlow. — Be', perché no? Il piacere è un fattore di sopravvivenza. Se non lo fosse, non esisterebbe. — Questo è un circolo vizioso per eccellenza. Credi che un ragno provi piacere a tessere la ragnatela? — Non ho opinioni in merito — disse Geller. — Be', se tu dovessi progettare una macchina per tessere le ragnatele, metteresti nel circuito il piacere oppure no? — Oh, dio santo... — No, non lo metteresti, perché, uno, non sarebbe necessario, due, non sapresti come produrlo, tre, se anche sapessi come produrlo, sarebbe con- troproducente. Un ragno che tessesse ragnatele per il piacere potrebbe a un certo punto annoiarsi e lasciar perdere. I ragni invece pensano solo al lavo- ro che devono fare e lo fanno. — Uhm. Ti ricordi l'addetto all'ascensore nel Mondo nuovo di Huxley? — Geller assunse un tono di voce vibrante di gioia: — "Su, su!" — Poi un tono di cupa disperazione: — "Giù, giù!" — E dimmi, qual è l'ultima volta che hai visto un addetto all'ascensore? — Uhm. Rimasero per un po' immersi in un tranquillo silenzio, poi la Barlow dis- se: — Hai mai conosciuto qualcuno veramente ricco? — No. — Io sì: una ragazza che veniva a scuola con me. I suoi genitori le la- sciarono parecchi milioni di dollari. — Qual è il suo indirizzo? — Non ti degnerebbe di un'occhiata — disse la Barlow. — In ogni mo- do, continuando il discorso, si è sposata tre volte, non è costretta a fare una sola cosa che non voglia fare, ma come essere umano è completamente fal- lita. Si può immaginare la vita come un'unica, lunga festa di compleanno? Sa di averla buttata via, non sa che rimedio trovare, ed è molto infelice. — Triste — disse Geller. — Davvero triste. — Certo che è triste. Metti che tu a un certo punto non volessi fare altro che guardare la televisione e andare alle partite di calcio... — Sarebbe il paradiso — disse Geller. Il telefono ronzò da dentro la borsa da spiaggia di Yvonne Barlow. Lei allungò la mano e tirò fuori l'apparecchio. — Sì, dottore? La persona che chiamava ebbe una reazione di stupore. — Chi altri potrebbe telefonarci? Potremmo, ma probabilmente non lo faremo... Se volete parlarci perché non venite voi qui? Siamo alla piscina del ponte sportivo... Venite, se volete. — La Barlow mise via il telefono. — Ma perché gli hai detto così? — fece Geller. — Perché no? Va bene per la tua noia. McNulty comparve pochi minuti dopo, e interruppe un'animata discus- sione. — Buon vecchio dottore — disse Geller. — Sedetevi, bevete qual- cosa. — No, grazie, mai durante le ore di lavoro — disse McNulty, avvici- nando a loro una sdraio. — Si sta bene qui, vero? Non mi ricordo più quando è stata l'ultima volta che... Be', in ogni modo, volevo solo dirvi che ho parlato con alcuni degli altri pazienti guariti e ho riscontrato che la ma- lattia ha prodotto effetti simili nelle varie persone. Matrimoni spezzati. Gente che lascia di colpo il lavoro. Io continuo a pensare che forse il pa- rassita non sa quel che ci sta facendo. Se solo potessimo parlargli... — Be', secondo me si può — disse la Barlow, assorta. — Non è quello il problema. Abbiamo presupposto che il parassita sia intelligente e capisca ciò che diciamo, no? Per cui possiamo dirgli tutto quello che vogliamo: il guaio è che lui non può parlare con noi, o forse non vuole. — Non può o non vuole? — chiese McNulty. — Che cosa dite voi, Randy? Geller si mosse nervosamente sulla sdraio. — Come cavolo faccio a sa- perlo? — Quando eravate malato... — Quando avevo il parassita — lo corresse Geller. — ... avete mai avuto l'impressione che le vostre azioni fossero in qual- che modo controllate? — State scherzando? — Geller si alzò, con espressione dura. — Randy — disse la Barlow. — Oh, dio santo. — Fallo per me. Su, dài. È interessante. Geller, accigliato, tornò a sedersi. — Sono tutte stronzate. — Intende dire che la risposta è no, dottore. — Posso spiegarglielo benissimo io che cosa intendo dire, Yvonne. — Allora spiegaglielo. — La risposta è no — disse Geller. — Non "forse no" o "ni". Lo so con sicurezza, perché quando avevo addosso il parassita facevo esattamente le stesse cose che avrei fatto se fossi stato in condizioni normali. Sentite, usa- te il cervello. Immaginate di essere una creatura che viene da un altro pia- neta o da dio sa quale posto, e di non aver mai visto prima d'ora né perso- ne, né muri, né stuzzicadenti, né tazze da caffè. Se riusciste a controllare la persona ospite, che cosa fareste? La fareste andare in giro e attraverso lei guardereste tutto quanto. Se riusciste a farla parlare, le rivolgereste delle domande. Così otterreste quello che volete. — Intende dire che potreste instaurare un dialogo con l'ospite — disse la Barlow. — E ha ragione. Per quel che mi ricordo, non ho fatto o detto una sola cosa che non avrei fatto o detto in condizioni normali. Perciò credo sia lecito concludere, come abbiamo concluso in precedenza, che se il parassi- ta non fa niente, è perché non può fare niente. — Sareste propensi tutti e due ad affermare che il vostro atteggiamento è cambiato dopo che siete guariti? — chiese McNulty, con cautela. — Certo. — Anche tu, Yvonne? — Naturalmente. Ho capito di colpo che non stavo facendo quel che ve- ramente volevo nella vita, cosi ho mollato il lavoro. — Che cosa vorreste fare veramente nella vita? — Vorrei divertirmi un po', scoprire cose, e svolgere un'attività che a- vesse senso. — D'accordo. Ma vi renderete conto che è stato il parassita a farvi cam- biare idea. — Sì. — E questo vi sta bene. — Certo, mi sta bene. — Cercate di essere obiettiva: non vi viene da chiedervi se vi sarebbe piaciuta l'idea che qualcosa vi inducesse a cambiare il vostro modo di ve- dere le cose, se aveste saputo prima che ciò sarebbe successo? — Questo è irrilevante — intervenne Geller. — Su, sapete benissimo di non poter sostenere contemporaneamente due tesi opposte: o siamo pazzi adesso, o eravamo stupidi prima. Io dico che eravamo stupidi prima. — Quindi pensate che il parassita vi abbia fatto un favore? — Un favore? — disse Geller. — Forse. — Si rosicchiò un'unghia. — È una domanda interessante. Il "favore" potrebbe essere un effetto seconda- rio della relazione parassita-ospite. O forse non si tratta di un parassita, ma di un simbionte: dà qualcosa in cambio di quello che prende, come i batte- rii del nostro intestino. La Barlow annuì. — Credo che abbia ragione. — Per cui voi affermereste con decisione che non intende in sostanza farci del male? — Esatto. — Anche se a causa sua tutto si sta scardinando? — In che senso tutto? — Be', il laboratorio marino, per esempio. Avete mollato entrambi il vo- stro lavoro. Che cosa succederebbe se tutti facessero altrettanto? — Non me ne frega niente degli stupidi lavori della gente. Sentite, McNulty, lo so che mi ritenete un idiota a cui è stato fatto il lavaggio del cervello, ma siete voi a sbagliare. Osservate bene le cose che la gente fa per guadagnarsi da vivere e domandatevi in quanti casi vale veramente la pena farle. Quante persone passano l'intera fottuta vita ad avvitare insieme il pezzo A e il pezzo B? — Allora ritenete che la cosa migliore sarebbe che il parassita si diffon- desse dappertutto? Che arrivasse addirittura fin sulla terraferma? — No. McNulty buttò un'occhiata alla Barlow, poi si appoggiò allo schienale e giunse le mani. — Sentite, non è contraddittoria questa vostra affermazio- ne? — Riflettete bene, McNulty. Il sistema funziona perché la maggior parte della gente è stupida. Ciò non significa che debba essere stupido anch'io. — Capisco. E non vi sentite in alcun modo in dovere di contribuire a che il sistema funzioni? Neanche se vi trovaste in difficoltà a causa del suo mancato funzionamento? — No. Il sistema probabilmente cadrà e ne avremo uno nuovo, forse mi- gliore. La mattina dopo Emily Woodruff fu condotta in barella all'ospedale; a- veva avuto un collasso nel bar del casseretto. Guardandola, McNulty si chiese se fosse un caso, o se invece il parassita avesse cercato deliberata- mente lei, in modo che non potessero più giocargli il tiro che gli avevano giocato... 33 Con la scusa dell'emergenza e con un senso di profondo sollievo, Bliss aveva annullato tutti gli appuntamenti mondani, ma il curioso risultato era che la sera il tempo non passava mai. Nell'ampia stanza di soggiorno, de- stinata ad allegri cocktail party per trenta o più ospiti, si sentiva solo, quasi prigioniero. Non poteva invitare nessuno dei passeggeri vip senza riascol- tare daccapo tutte le loro lamentele, e quanto allo staff direttivo, vedeva i suoi membri anche troppo, durante il giorno. Le uniche persone con cui gli andava di parlare erano il dottor McNulty, che in quanto professionista non faceva propriamente parte dello staff, e il capitano Hartman, che non era né un membro dello staff, né un passeggero. Quella sera, dopo che ebbero cenato nell'appartamento di Bliss, McNulty raccontò delle sue conversazioni con i pazienti guariti, in partico- lare con Geller e la Barlow. — Per quel che ne ho capito io — disse — l'u- nico principio che riconoscono come valido è quello che si potrebbe defi- nire grosso modo dell'"egoismo illuminato". Sono due giovani intelligenti e non sono propriamente due asociali; semplicemente, ritengono non abbia senso sostenere un sistema che a loro avviso è assurdo. — E questo vi turba? — Sì. Il sistema sarà anche assurdo, ma mi pare che funzioni. Ci ho ri- flettuto su, in questi ultimi tempi. Tantissime delle cose che facciamo non sono razionali. L'amore non lo è. Avere figli non lo è. "Irrazionale" è una brutta parola, ma forse non è giusto che lo sia. Questo coso, questo paras- sita, magari è un essere completamente razionale, e semplicemente non capisce che gli esseri umani non funzionano come lui. Sapete cosa si dice della via per l'inferno? — No, cosa si dice? — Che è lastricata di buone intenzioni. Dopo che McNulty se ne fu andato, Bliss tirò fuori la scacchiera. Questa volta i bianchi toccavano a lui; fece un'apertura convenzionale alla Ruy Lopez. Hartman cercò come al solito di mettersi in vantaggio, ma Bliss adottò una strategia insolita che attaccava la regina sul fianco e che venti mosse più in là si risolse in una combinazione ingegnosa. Hartman sorrise quando dovette prenderne atto. — Bravo — disse, e capovolse il suo re. Dopo accettò il whisky che gli veniva offerto e disse: — Sapete, credo che il dottore abbia ragione a essere preoccupato. L'altro giorno parlavo in un bar con due signori, entrambi pazienti guariti ed entrambi veterani della guerra del Nicaragua. Tutti e due mi hanno detto con molta convinzione che se capitasse di nuovo una guerra del genere non combatterebbero più. — E avete chiesto loro cosa farebbero se gli Stati Uniti fossero invasi? — disse Bliss. — Sì. Hanno risposto che in quel caso, se fosse necessario, combatte- rebbero, perché la lotta avrebbe un qualche senso. A proposito, ho parlato anche con un paziente guarito che aveva passato vent'anni alle dipendenze di una società molto grossa. Ha detto che se fosse potuto tornare indietro, non avrebbe più fatto la stessa scelta. Dopo che è andato in pensione ha cominciato a fabbricare vetri colorati e adesso dice che per la prima volta in vita sua è felice. — È preoccupante — osservò Bliss dopo un attimo. — Nella vita ci so- no un sacco di cose che non è particolarmente piacevole fare, ma che co- munque vanno fatte. Dove saremmo ora se tutti facessero solo quel che gli piace? — Forse non ci sarebbe nessuna guerra — disse Hartman. — Nessuno si metterebbe a combattere per la democrazia, o per il bolscevismo, o per il sacro romano impero. — A volte si è costretti a combattere. — Verissimo, per difendere la patria e la famiglia, ma è a quel punto che entra in gioco l'egoismo illuminato di cui parlavate. A quel che ne ho capi- to io, queste persone combatterebbero se fossero attaccate, ma non attac- cherebbero in nessun altro caso, perché riterrebbero di rischiare la vita inu- tilmente. Avete letto quel che dice la Tuchman sulla Guerra dei Cent'anni? — Devo ammettere di no. — Be', leggetelo una volta o l'altra. Vedete, non esisteva un motivo al mondo per scatenare quella guerra, a meno che non si ritengano motivi co- se come l'orgoglio ferito e la stupidità. Mi riferisco soprattutto ai francesi. Non vollero nemmeno usare gli arcieri perché ritenevano di degradarsi, e noi li massacrammo a Crécy. — Ah, be', i francesi — disse Bliss. — Ma noi non eravamo meglio di loro, per lo meno non molto. Pensate alla Guerra delle Rose, o alle crociate. — Be', non è che me ne intenda molto, ma immagino ci siano state delle guerre che avevano senso: un senso economico, in ogni caso. Mercati in espansione e così via. — Sì, certo, ma qui torniamo di nuovo all'egoismo illuminato di cui par- lava il dottore. Invadere l'Europa due volte nel corso di questo secolo rien- trava nell'interesse economico di determinati gruppi, in Germania, ma che dire dei poveri fessi che stavano in trincea a farsi sparare? Perché ob- bedivano a chi ce li mandava? Non erano imbottiti di propaganda sulla fe- deltà alla patria e cose del genere? — Suppongo di sì. O, più probabilmente, avevano paura dei loro sergen- ti. — D'accordo, ma quanti sergenti ci sarebbero voluti per impedire a un plotone di tornarsene a casa, se esso avesse deciso di farlo? È questo il punto su cui batto io, capite. Se non fosse per la fedeltà alla patria e per questi pomposi concetti astratti, non si potrebbe mai indurre la gente a combattere in una comune guerra. Innanzitutto perché nessuno accettereb- be di arruolarsi, e poi perché se anche si arruolasse, diserterebbe subito. — Ma il discorso va oltre il problema della guerra, no? Tutti noi siamo costretti a essere fedeli a qualcosa, foss'anche una compagnia di naviga- zione. Hartman tirò boccate dalla pipa con aria assorta. — Io, come voi, la mia carriera l'ho fatta nella Cunard. All'inizio ce la passavamo male. Penso a uno steward che conobbi sulla vecchia Queen. Lo degradarono al servizio staff per una trasgressione minima, e ne fu completamente distrutto. Per lui il lavoro non era solo lavoro: era la vita stessa. C'è quello, e c'è il fatto che uno si abitua talmente a una cosa, che non riesce a immaginare nient'altro. Il problema che mi affascina è: ci sarebbero state le compagnie di naviga- zione che abbiamo conosciuto noi e ci sarebbero state le varie marine mili- tari se i marinai semplici fossero stati contagiati da questo microbo, o cosa cavolo è? Saprete quel che Nelson diceva di loro, che a trentacinque anni erano già come larve, distrutti dallo scorbuto, incapaci di mangiare le loro razioni senza atroci sofferenze. Non posso fare a meno di concludere che se i marinai avessero pensato ai loro interessi, tutta la cosa avrebbe dovuto essere organizzata in un modo completamente diverso. — D'accordo, ma intendete dire che staremmo meglio se non avessimo né nazioni, né religioni, né niente? — Non lo so proprio. Quella sera, mentre scivolava nel sonno, McNulty ebbe una visione fan- tastica. Era vero, pensò, che potevano comunicare con il parassita. Bastava che mettessero in fila alcune vittime potenziali (magari legate e imbava- gliate) e che rivolgessero al parassita delle domande cui si potesse rispon- dere con un sì o un no. "Prendi la vittima Numero Uno se è un sì, la vitti- ma Numero Due se è un no". O avrebbero potuto addirittura comporre un alfabeto attaccando sul petto delle vittime dei foglietti con le lettere, in modo da formare con soggetti umani qualcosa di simile al cartellone che usavano gli appassionati di spiritismo per fare il tavolino. Dopotutto, sa- rebbe stato nell'interesse della ricerca. Verso mattina sognò che attraversava il corridoio per andare in ufficio, e il corridoio era pieno di bambini. Questi stavano seduti in cerchio nell'area di conversazione collocata a un livello più basso, e giocavano a un gioco incomprensibile; lui vedeva i loro occhi lucenti e le labbra che si muove- vano, ma non riusciva a udire niente. Erano bei bambini, tutti quanti, però quando McNulty si avvicinò si accorse che le loro facce non erano umane, e si svegliò con la sensazione di essere stato immerso nell'acqua ghiaccia- ta. Erano solo le sei e qualche minuto, ma si alzò, si vestì e uscì nel corri- doio, giusto per assicurarsi che i bambini non fossero lì. 34 Il lunedì, alla riunione del consiglio comunale, la signora Bernstein dis- se: — Punto cinque. Un reclamo. Signora Livermore, volete spiegare la natura del reclamo? Clarice Livermore si alzò. — Ho reclamato perché i Korngold hanno permesso a una coppia proveniente dal settore passeggeri di trasferirsi nel- l'appartamento che posseggono all'angolo tra la Quinta e il Pacifico. L'ho scoperto solo dopo che la coppia era già lì da tre giorni. L'appartamento è giusto a pochi passi dal nostro mercato, e a soli due isolati dalla scuola. — Si tratta forse di persone che hanno un comportamento sconveniente, signora Livermore? — Be', io non lo so, ma non è quello il punto. Potrebbero essere portatri- ci di quell'orribile malattia. Perché non se ne stanno nel loro settore? Non sono l'unica che la pensa così — disse, e si sedette. — Signor Korngold, volete rispondere voi? Da in mezzo al pubblico si alzò un uomo robusto, dai capelli grigi. — Signora Bernstein, signori, gli Harris sono nostri vecchi amici, li cono- sciamo da vent'anni. Erano preoccupati della situazione nel reparto pas- seggeri e ci hanno chiesto se potevano trasferirsi da noi finché l'epidemia non era finita. Non vedo perché i signori Livermore debbano ficcare il na- so in questa faccenda. — Ci ficco il naso perché mi sta a cuore la salute dei miei bambini! — gridò la signora Livermore. — Permettetemi di dirvi... La signora Bernstein picchiò il martelletto sul tavolo. — Non tocca a voi parlare — disse. — Signor Korngold, avete altro da aggiungere? — No, solo che credo che la signora Livermore stia facendo molto ru- more per nulla. — Qualcuno vuole intervenire? Ira Clark si protese in avanti. — Signora Livermore, è solo a questi due passeggeri che siete ostile, o vorreste impedire a qualsiasi persona di pas- sare dal suo settore a quello perm? Spero vi rendiate conto che sono l'unico dentista sulla Sea Venture, e che il dottor McNulty è l'unico medico. — Be', quello è un conto, ma far venire qui senza alcun motivo gente che potrebbe essere infetta, è un altro. È solo questo che intendo sottoline- are. Higpen guardò la signora Bernstein per attirare la sua attenzione e disse: — Abbiamo circa cento persone che risiedono qui e lavorano nel settore passeggeri. Tutti i giorni c'è traffico avanti e indietro. Se potessimo chiu- dere ermeticamente il perm e tenere lontana l'epidemia, sarei il primo a di- re facciamolo, ma ne abbiamo discusso e abbiamo convenuto che è una so- luzione impossibile. Per fortuna non c'è stato un solo caso di contagio nel perm, e gli Harris sono qui da quanto? — Da lunedì scorso — disse Korngold dal suo posto in mezzo al pubbli- co. — Be', direi che se fossero stati portatori dell'epidemia, avrebbero già contagiato qualcuno, ormai. Mi dispiace, Clarice. Propongo di respingere il reclamo. — Altre osservazioni? — domandò la signora Bernstein. — Alzino la mano tutti quelli a favore della mozione appena avanzata. — Tutti i mem- bri del consiglio alzarono la mano. — Reclamo respinto, signora Livermo- re. Punto sei, riparazioni da fare in palestra. Il giorno dopo Yetta Bernstein s'infilò nel retrobottega del negozio di ferramenta di Higpen, e trovò Higpen che stava seduto a controllare i con- ti. — Ben, vorrei parlarti. Higpen indicò il sacchetto di plastica sulla sua scrivania. — Stavo giusto per pranzare. — Prendilo, ci siederemo nel parco. Dovresti uscire di più, sai. Andarono fino al parco, uno spazio aperto grande quanto la piazza della città. Per i sentieri ghiaiosi correvano bambini, giocando sul castello di tu- bi metallici. Nell'aria si sentiva l'odore pungente dell'erba tagliata di fre- sco. — Ben, sono preoccupata — disse la Bernstein. — Finora siamo stati fortunati, l'epidemia è rimasta nel settore passeggeri, ma per quanto tempo ancora saremo così fortunati? — Non lo so. — Non credo che ci si possa affidare alla fortuna. Dobbiamo fare qual- cosa. — D'accordo, ma cosa? Si sedettero su una panchina del parco, e Higpen aprì il sacchetto con il pranzo. — Ho riflettuto — disse la Bernstein. — Forse potremmo ridurre il numero delle persone che risiedono qui e lavorano nel settore passeggeri. Potremmo convincerle a restare qui finché l'emergenza non è finita. Oppu- re alcune di loro, quelle che non hanno famiglia, potrebbero restare nel re- parto passeggeri. — In questo modo non si riuscirebbe mai a eliminare tutto il traffico. — No, ma si potrebbe riuscire a ridurlo a qualcosa di ben controllabile, diciamo trenta o quaranta persone al giorno. Poi supponi, supponi solo, che collocassimo un po' di gente alle entrate, e che ogni volta che arrivasse nel perm qualcuno facessimo andare una persona con lui a sorvegliarlo per ventiquattr'ore... — Non servirebbe a tener lontano il parassita. — Higpen scartò un pani- no. — No, ma ascolta. Mettiamo che il parassita, dio ci scampi, riesca a en- trare. Va be', dopo un po' lascerà la prima vittima e si attaccherà a un'altra. La prima persona avrà un collasso, la seconda un capogiro. Così sapremo quale delle due ha il parassita. E staremo in guardia. Riporteremo la perso- na in questione al settore passeggeri, dicendo a quelli del passeggeri la ve- rità oppure magari una balla, e la persona non tornerà qui finché il parassi- ta non sarà passato su qualcun altro. Higpen addentò il panino, masticò e ingoiò. — Sai — disse — ho senti- menti ambivalenti in questa faccenda. Anche se potessimo tenere lontano il parassita, sarebbe giusto farlo? Perché devono essere i passeggeri a cor- rere tutti i rischi? — Ben, non ti vergogni? Ci sono molti bambini, qui. Gli adulti possono correre i loro rischi, ma i bambini? Giovedì, su invito di Bliss, Higpen e la Bernstein parteciparono alla riu- nione dello staff direttivo. Era presente anche McNulty; Geller e la Barlow erano stati invitati, ma nessuno dei due si fece vedere. — Credo sia giusto affermare che, a parte l'epidemia stessa, il nostro problema principale è il morale — disse Bliss. — La gente ha paura, e cer- tuni si stanno comportando male. Il capo della sicurezza, il signor Lun- dgren, non è qui perché non può interrompere il lavoro, ma parlando a suo nome posso dire che la situazione non è sotto controllo. Il personale nor- malmente addetto alla sicurezza è, come sapete, di dieci persone. Ce ne vorrebbero almeno centotrenta. I miei secondi collaborano con il signor Lundgren quando sono fuori servizio, e altrettanto fanno il signor Islip, di- rettore degli spettacoli, e il suo staff, nonché cinquanta persone dei risto- ranti e del casinò, ma non basta ancora; lavorano tutti come matti, però non è sufficiente. — Di quanti volontari avete bisogno? — disse Higpen. — E per che tipo di incombenza? — Be', ce ne occorrono almeno una dozzina per il servizio di guardia e diciamo altri ottanta per il pattugliamento. — Devono essere armati? — Non è mai stato necessario. Non abbiamo armi da fuoco sulla Sea Venture. — E come fanno se hanno bisogno di tenere a freno qualcuno o di arre- starlo? — chiese la signora Bernstein. — Il signor Young, il nostro capo carpentiere, ci ha procurato alcuni manganelli. Vorremmo che gli agenti di pattuglia lavorassero in coppia, in tre turni che si succederebbero lungo le ventiquattr'ore. Non abbiamo uni- formi, naturalmente, ma daremo loro delle fasce-distintivo. Poi ci oc- correrebbero altri venticinque uomini, che potrebbero magari essere più anziani, per il lavoro di coordinamento. — Anche donne? — Anche donne, certo. Grazie, signora Bernstein. — Non mi stavo offrendo volontaria, benché non sia escluso che lo pos- sa fare in futuro. Signor Bliss, non state esagerando un pochino? Non pos- so credere che vi occorrano centotrenta poliziotti per mantenere l'ordine nel settore passeggeri. — Credetemi, signora Bernstein, semmai sto minimizzando. Ieri mattina ho ricevuto una delegazione e per poco non c'è stata una rissa: alcune per- sone pretendevano che le lasciassimo andare con le scialuppe di salva- taggio. — E avete rifiutato? Se aveste acconsentito, vi sareste liberato di loro... — Spero non diciate sul serio — osservò Bliss dopo un attimo. — La Sea Venture è in quarantena — disse McNulty. — Non possiamo correre il rischio di diffondere l'epidemia. — Perché no, se è vero che colpisce solo una persona alla volta? Rin- chiudete quella persona e lasciate andare tutte le altre. Signor Bliss, tanto perché lo sappiate, io dicevo sul serio. Vorrei che mi spiegaste quali sono i vostri piani. La Sea Venture è in quarantena, d'accordo. Immagino che questo significhi che non possiamo sbarcare a Guam. Che cosa faremo al- lora? Continueremo a navigare finché voi non avrete perso tutti i vostri passeggeri? Bliss sembrava incapace di spiccicare parola. — Per favore, signora Bernstein — si affrettò a dire McNulty. — Abbiamo già constatato che non si può rinchiudere la persona contagiata. Qui non ci troviamo davanti a una comune malattia infettiva, ma a una sorta di parassita intelligente. — Non credo ai batteri intelligenti — disse la Bernstein. — Non è un batterio — replicò McNulty. — Non so che cosa sia. È co- sciente, sa quel che facciamo noi, e ci ha sempre messo nel sacco. L'unico vantaggio che abbiamo è che finora è confinato sulla Sea Venture. — Allora che cosa intendete fare? — chiese lei, guardando Bliss. — Continuare a vagare per l'oceano? Perché non chiediamo che ci mandino aiuti dalla terraferma? Higpen si schiarì la voce. — Yetta, credo che siamo tutti un po' troppo nervosi. Il signor Bliss è responsabile della sicurezza sulla SV, e credo sia giusto che gli lasciamo fare il suo lavoro. Poi c'è anche un'altra cosa, a proposito delle scialuppe di salvataggio. Questo parassita che cosa conta- gia, sei-otto persone al giorno? — All'incirca — disse McNulty. — Bene, finora non si è infiltrato nella sezione perm. Se il signor Bliss facesse evacuare i passeggeri con le scialuppe di salvataggio, il parassita non sarebbe costretto a scegliere come vittime noi del perm? — Giusta osservazione — disse la signora Bernstein. — Ma sulle scia- luppe di salvataggio c'è o no posto per tutti? Perché non far evacuare sia i perm che i passeggeri? — Perché in quel caso il parassita sarebbe a bordo di una delle scialuppe — disse Bliss. — D'accordo, ma almeno avrebbe solo quaranta potenziali vittime. Per- ché non facciamo così? Annunciamo che la SV sarà evacuata. Tutti quanti salgono sulle scialuppe: tutti. Poi annunciamo che c'è un piccolo intoppo. E aspettiamo che qualcuno abbia un collasso. Quindi si fanno tornare a bordo tutti quelli delle altre scialuppe. Non è un buon piano? Bliss si accarezzò stancamente il mento. — Signora Bernstein, succede- rebbe come nell'altro caso già ipotizzato. Se seguissimo il vostro suggeri- mento ci sarebbe ben presto una persona che si prenderebbe cura di trenta- nove vittime: sarebbe una situazione impossibile, a bordo di una scialuppa. E poi, se non facessimo niente, alla persona rimasta verrebbe probabilmen- te le convulsioni e torneremo al punto di partenza. La Bernstein scarabocchiava sul notes. Dopo un attimo disse: — Non stiamo studiando adeguatamente il problema. Il punto cruciale è: vogliamo o no isolare il parassita? Se sì, ci sarà pure il modo. Dottor McNulty, voi avete detto che questo coso non può passare da una persona all'altra se la distanza che le separa è superiore a un metro, un metro e mezzo, vero? — Sì, a quanto pare è così — disse McNulty. — Allora i problemi sono due. Il primo è che se le persone cominciano ad avere collassi sulla scialuppa, non si possono lasciare lì. Devono essere portate all'ospedale. — E il parassita contagerebbe immediatamente uno di quelli che verreb- bero a prendere il paziente di turno — disse Bliss. — E va bene, allora fissate una corda a una barella. Aprite il portello della scialuppa di salvataggio e buttate dentro la corda. La gente all'interno metterà il paziente sulla barella e ributterà la corda fuori. Noi ci prendere- mo il nostro paziente e chiuderemo il portello. Il parassita in questo modo sarà rimasto dentro. — Potrebbe funzionare — disse McNulty. — Ma poi si arriverebbe al punto in cui resterebbe solo una persona, e non vedo proprio come po- tremmo risolvere la faccenda. O si entra e si preleva la persona, o... — S'interruppe. — Quello è il secondo problema — disse la signora Bernstein. — Ma l'unico motivo per cui lo definiamo un problema è che guardiamo alla cosa da un punto di vista sbagliato. Perché diciamo che rimarrebbe una sola persona? Perché immaginiamo che nella scialuppa non entrerebbe nessun altro. — Non vi seguo — disse Bliss. — Nella scialuppa invece — disse la signora Bernstein, — dovrebbero entrare solo volontari. Uno alla volta, nel momento in cui prelevassimo il paziente di turno. In questo modo il parassita avrebbe sempre qualcuno da contagiare, e noi potremmo tenerlo lì in isolamento, finché non ci venisse in mente qualche soluzione migliore. — Cristo — disse Bliss dopo un attimo. — Credo che abbia ragione. 35 Tutti convennero che il piano finale lasciava parecchio a desiderare, ma era il meglio che si fosse riusciti a concepire. Skolnik aveva suggerito di evacuare solo un ponte, quello in cui si sapeva che c'era il parassita; l'idea era apparsa naturalmente allettante, ma ben presto si era capito che non po- teva funzionare. Innanzitutto si sarebbe dovuta cambiare la destinazione d'emergenza delle persone che si trovavano per caso su quel ponte al mo- mento dell'operazione ma che normalmente sarebbero state destinate ad al- tre scialuppe. In secondo luogo, si sarebbero dovuti chiudere gli ascensori e le scale per impedire alla gente di uscire dalla zona. E in terzo luogo, sa- rebbe stata una procedura insolita che molto probabilmente avrebbe fatto capire al parassita che qualcosa bolliva in pentola. Alla fine tornarono all'idea iniziale, modificandola un po'. Sarebbe stata annunciata un'esercitazione d'emergenza. Per premunirsi contro l'eventua- lità che membri dello staff restassero intrappolati sulla scialuppa dov'era il parassita, essi sarebbero stati indirizzati verso scialuppe passeggeri. Dopo che i passeggeri fossero saliti a bordo, si sarebbe proceduto a una perlu- strazione generale per radunare gli eventuali dispersi; per fare questo sa- rebbero occorse quasi tre ore, e in quel lasso di tempo il parassita, se fosse stato su una delle scialuppe, avrebbe probabilmente denunciato la propria presenza. A quel punto si sarebbe stati liberi di scegliere se sospendere la perlustrazione o continuarla fino alla fine. Al termine della procedura, nel settore passeggeri tutti quanti, sia passeggeri che equipaggio, sarebbero stati a bordo delle scialuppe, fatta eccezione per Bliss, per l'ufficiale di tur- no, e per un equipaggio ridotto al minimo e composto da addetti alla cuci- na, agenti della sicurezza e membri assolutamente indispensabili di altri reparti. Oltre naturalmente ai pazienti dell'ospedale, a McNulty e alle in- fermiere di turno. La lotteria fu un'idea di Skolnik, sviluppata e perfezionata da Jim Islip, direttore degli spettacoli. — Non basta fare appello al senso civico della gente — disse Skolnik. — Non fraintendetemi, qui ci sono un sacco di brave persone che si offrirebbero volontarie. Ma è antipatico chiederglielo, e noi non vogliamo essere antipatici. Facciamo così: tutti i pomeriggi or- ganizziamo nel corridoio di prua del ponte di coperta un sorteggio che tra- smetteremo per televisione in tutta la nave, assegnando premi in contanti ai vincitori. Questi riceveranno cesti di frutta e fiori che verranno consegnati nelle loro cabine, e noi faremo conoscere i loro nomi pubblicandoli con le relative fotografie sul Sv Journal. Credetemi, in questo modo ci saranno più persone che si offriranno volontarie che se si parlasse loro di "dovere". — Il premio a quanto dovrebbe ammontare? — chiese Erik Seaver. — Per persone del genere dovrebbe essere consistente, altrimenti non significherebbe nulla. Direi duemila dollari per il primo nome sorteggiato, millecinquecento per il secondo, mille per il terzo, e cinquecento a testa per i rimanenti. — State parlando di circa settemila dollari al giorno — disse Seaver. — Lo so, ma non è il momento di stare a guardare ai centesimi. La lotte- ria bisogna che funzioni e, soprattutto, dobbiamo tirar su il morale della gente, far sì che tutti vedano questa cosa come una specie di gioco. Altri- menti perderemo più di settemila dollari al giorno, con i vandalismi. Poi si discusse dei pazienti guariti. — Qui secondo me c'è un problema — disse McNulty. — Finora nessu- no è stato contagiato due volte. Ora, non so come si debba interpretare questo dato. Forse significa solo che il parassita ha da scegliere fra così tante persone, che non ha motivo di insediarsi due volte nello stesso ospite. Ma potrebbe anche significare che non può contagiare la stessa persona due volte perché in questa si sviluppa un'immunità, o per qualche altro mo- tivo che non immaginiamo. — Che importanza ha? — chiese la Bernstein. — Be', potrebbe succedere che ci trovassimo sulla scialuppa con dei pa- zienti guariti, e che loro rimanessero bloccati lì. Non sarebbe il caso di portarli via, perché non siamo sicuri che il parassita non possa contagiarli una seconda volta, e se non potessero andarsene facendosi contagiare, in quale altro modo se ne andrebbero? — E se li esentassimo semplicemente dall'esercitazione? — Avrei paura di correre un rischio del genere. Se li lasciassimo a bordo della nave e poi saltasse fuori che il parassita è su uno di loro, dovremmo ricominciare tutto da capo. — Lo stesso problema, ma ancora più grave, sorge con il resto delle per- sone che rimarranno sulla Sea Venture — disse Schaffer. — Il mio perso- nale della cucina, gli agenti della sicurezza e così via, compresi noialtri. — Affrontiamo un problema alla volta — disse Bliss. — Riguardo ai pazienti guariti, credo che ci sia una soluzione, dottore. Dopo che abbiamo scoperto su quale scialuppa si trova il parassita, facciamo sgombrare tutte le altre. Le scialuppe sono in coppia, ovvero ciascuna sezione di lancio dà accesso a due di esse. Credo che possiamo isolare facilmente la sezione in questione, e poi trasferire gli eventuali pazienti guariti nella scialuppa vici- na. Appena avremo il successivo caso di collasso, capiremo come sta la si- tuazione, e potremo quindi lasciar andare i pazienti guariti. Signor Young? — Posso tirar su una bella barriera spessa — disse il capo carpentiere. — Metterci una porta e mettere una serratura alla porta. Nessuna difficoltà. — Bene. Ci sarebbero problemi con la sicurezza, signor Lundgren? — No, se c'è una barriera possiamo cavarcela benissimo. — D'accordo, adesso veniamo a noialtri: la questione dovrebbe essere un po' più semplice. Come convenuto, l'allarme per la prova di emergenza suonerà alle tre del pomeriggio, ma l'esercitazione non sarà annunciata fin- ché voi, dottore, non mi direte che avete una vittima molto recente. Se, sfortunatamente, qualcuno della lista di volontari si trovasse per caso nello stesso corridoio della vittima, all'ultimo momento provvederemmo a una sostituzione. Siete tutti d'accordo? Bene. Allora per favore preparate delle liste con nome e cognome dei volontari e fatemi il piacere di lasciarmele sulla scrivania alle nove di domattina. Se l'era cavata abbastanza bene, davvero, pensò dopo Bliss. Forse ce l'a- vrebbe fatta a uscire da quell'inghippo senza sputtanarsi. 36 Quando Norman Yeager si alzò, il pomeriggio dopo, trovò nel vassoio della stampante una velina dov'era scritto che l'avevano destinato a una nuova scialuppa di salvataggio. Dal numero capì che si trattava di una scialuppa passeggeri. Come mai? Si sedette al terminale, si collegò con il computer centrale e controllò l'e- lenco delle scialuppe; poi chiamò la segretaria di Bliss. — Bunny, sono Norm Yeager. Perché all'improvviso vi mettete a cam- biare le destinazioni d'emergenza, se è lecito chiederlo? — Ci sarà un'esercitazione speciale — disse Bunny. — Qualcosa che ha a che vedere con il parassita. Ma acqua in bocca. — Ah. Va bene. — Controllò ancora, svogliatamente, l'elenco delle scia- luppe e guardò con chi sarebbe finito: nessuna persona particolarmente in- teressante e nessuno che conoscesse. Subito dopo guardò dove fossero i si- gnori Claiborne. Erano nella scialuppa trentuno. Tornò agli elenchi e scel- se un nome a caso, M. Shanigar, sostituendolo con il suo. Poi, per rimette- re le cose a posto, spostò M. Shanigar nell'altra scialuppa, quella in cui sa- rebbe dovuto andare lui. Ci sarebbe stata un po' di confusione quando M. Shanigar fosse arrivato alla scialuppa trentuno, ma pazienza. Se non altro lui, Norm, sarebbe riuscito a rivedere la signora Claiborne, anche se maga- ri solo per dirle poche parole. In realtà non è che pretendesse molto di più di quello; la possibilità di sedersi e scambiare con lei quattro chiacchiere, le quattro chiacchiere che non avevano potuto fare nella sua cabina perché lei era troppo stanca. Norm non poteva nemmeno affermare di conoscerla, eppure gli pareva, stranamente, di comprenderla: capiva che in lei c'erano dolcezza e sensibi- lità, qualità radicate e profonde che suo marito non era in grado di apprez- zare. Li aveva osservati insieme, dopo che lei era uscita dall'ospedale. Suo marito era un tipo massiccio, un omone grande e grosso che puzzava di ta- bacco: come faceva, lei, a stargli assieme? Ogni tanto Norm la immagina- va rivolgersi a lui e dire: — Solo tu puoi salvarmi. — E l'avrebbe salvata, sicuro; l'avrebbe portata in cima a una montagna e avrebbe vissuto là di- gnitosamente e nobilmente; e la sera, al momento di andare a letto, avreb- be messo la sua spada tra di loro. Sapeva però che si trattava solo di fantasie, che lei era una donna sposa- ta, con le sue responsabilità e magari anche dei figli; aveva indubbiamente una casa, degli amici che lui non conosceva, un lavoro, insomma le tante cose di qualsiasi vita. Ma pur sapendo tutto ciò, Norm anelava a parlarle, sognava di sentirla dire: — Tu puoi aiutarmi. — Perché forse lei voleva veramente fuggire da quell'uomo; non sarebbe stato logico, del resto? E anche se avesse detto soltanto: — Nascondimi — o — Ti prego, prestami un po' di soldi — o cose del genere, per lui sarebbe stata una gioia. Sì, an- che se avesse avuto la certezza di non poterla rivedere mai più. L'esecitazione di emergenza ebbe luogo alle tre e mezzo. Alcune perso- ne non parteciparono perché erano ubriache nelle loro cabine o in altri po- sti. Sorsero anche altri problemi: il gestore del cinema del ponte di passeg- gio non era stato avvisato, oppure si era dimenticato di essere stato av- visato e non aveva interrotto le proiezioni. Bisognò prelevare dal cinema una trentina di persone, ma ormai non era più molto importante, perché il parassita era già stato trovato. Dal suo sedile al centro della scialuppa trentuno, l'uomo grasso si guardò intorno, mentre lo steward faceva l'appello. Si ricordò di essere già stato su una scialuppa, ma a quell'epoca non aveva prestato molta attenzione al- l'ambiente intorno. Si trattava a quanto pareva di una piccola imbarcazione che poteva essere sganciata dall'imbarcazione più grande in caso di emer- genza. Avrebbe potuto verificarsi un'emergenza mentre lui si trovava a bordo? — Signor Eller? — Presente — rispose. I passeggeri davanti a lui erano per lo più americani di mezz'età dall'aria agiata. Cerano solo un uomo e una donna più giovani che si tenevano per mano e, più in là nella fila, un uomo ancora più giovane, vestito in modo insolito. Lo steward stava illustrando le caratteristiche della scialuppa e che cosa sarebbe successo in caso di emergenza. Gli occhi dell'uomo grasso non stavano guardando nella direzione dello steward, e l'osservatore non scor- geva il quadro comandi; sperando di vedere meglio sgusciò fuori, nello spazio indistinto, ed entrò in un altro corpo con tanta rapidità, che la donna ospite non ebbe quasi nemmeno un capogiro quando il grassone le piombò addosso per poi rotolare sul pavimento. La gente si alzò in piedi per osservare la scena. Lo steward, aiutato da un uomo con una fascetta intorno al braccio, mise l'uomo supino e gli slacciò il colletto. Poi lo steward tornò sul davanti. — Signore e signori, sedetevi, prego — gridò. Il portello della scialuppa si aprì e vi venne gettata una corda. Lo ste- ward la raccolse, la tirò, e subito comparve una barella. — Qualcuno mi può aiutare? — chiese. Due uomini si avvicinarono; con lo steward e l'a- gente della sicurezza sollevarono l'uomo e lo misero sulla barella, poi tra- sportarono questa sul davanti. Lo steward parlò di nuovo al telefono; il portello si aprì, e lo steward gettò la corda fuori. Subito la barella con il grassone sopra varcò la soglia e scomparve. Lo steward si girò. — Signore e signori, sono adesso autorizzato a in- formarvi che questa scialuppa è stata destinata a uno scopo speciale. Lo scopo è di isolare il portatore dell'epidemia, per consentire agli altri pas- seggeri di riprendere la loro normale attività. Come sapete, la malattia è del tutto innocua... — Ehi, un attimo — gridò una donna dai capelli bianchi. — State forse dicendo che su questa scialuppa siamo tutti in quarantena? — Purtroppo sì. Però questo significa soltanto che tutti noi, me compre- so, resteremo qui finché non ci ammaleremo, e poi saremo trasferiti per dieci giorni in ospedale, dove riceveremo le migliori cure. Altri parlarono, ma lei non badò ai loro discorsi. Era chiaro adesso che aveva fatto un imperdonabile errore: aveva sottovalutato i suoi avversari. Era possibile che fossero disposti ora a lasciar morire uno di loro pur di sbarazzarsi di lei? Se sì, il suo destino era completamente cambiato in quell'unico momento in cui, senza sospettare di niente, era entrata nella scialuppa; la partita era perduta, la sua morte certa, e i suoi figli non sareb- bero mai nati. 37 Lo steward parlò di nuovo al telefono, poi si girò verso i passeggeri. — Signora Claiborne? — Presente — disse la giovane donna che gli stava davanti in mezzo a- gli altri. Lo steward le si avvicinò e si protese verso di lei. — Posso vedere la vo- stra carta di identità, per favore? — Prese il documento che lei gli porse e lo esaminò con cura. — Vi spiace venire con me? — Scusate, ma per quale motivo? — Vi lasciamo andare perché avete già avuto la malattia. Starete in qua- rantena su un'altra scialuppa, poi, quando saremo sicuri che il portatore dell'epidemia è ancora qui, sarete libera di fare quel che volete. Lei guardò il marito. — Malcom, non voglio lasciarti qui solo. — No, devi andare — disse lui, stringendole la mano. — Non ha senso che stiamo tutti e due intrappolati qui; non sacrificarti ancora una volta per me. Lei sorrise. — Va bene, cercherò di non farlo. A presto. Lo steward la condusse a prua. Il portello si aprì ed entrò un uomo dai capelli grigi. A un cenno dello steward, la signora Claiborne uscì. Il portel- lo si richiuse. — Steward, posso chiedere cosa sta succedendo? — disse una donna an- ziana. — Certamente, signora. La signora Claiborne è stata lasciata andare per- ché ha già avuto la malattia. Questo signore, invece, è un volontario venu- to a rimpiazzare il signore che si è ammalato. Ciascuna delle persone che si ammaleranno sarà sostituita in questa maniera, quindi, come potete capi- re, saremo in grado di lasciare la scialuppa molto presto. Adesso la loro strategia era chiara, e lei li ammirò per il modo ingegnoso in cui erano riusciti ad aggirare il tabù che impediva loro di uccidere. Ri- sultava inoltre chiaro, dai limiti che si erano imposti, che non erano dispo- sti a sacrificare uno di loro. Perciò lei doveva reagire dimostrandogli che la loro strategia non poteva avere successo. Quando l'avessero capito, avreb- bero dovuto liberarla assieme al resto dei passeggeri. Ma se non l'avessero fatto? Lo steward stava passando, e lei scivolò fuori e poi di nuovo dentro, con tanta delicatezza che lui se ne accorse solo quando il corpo della donna crollò in terra. Lo steward si inginocchiò, la raddrizzò, le tirò giù la gonna. Il polso era lento e regolare. Curioso, pensò lo steward, come la gente sembrasse invariabilmente stupida e brutta quando perdeva conoscenza. Yeager doveva uscire, e credeva di sapere quale fosse il modo migliore per farlo. Se si fosse buttato in terra come in preda a un collasso e non si fosse mosso per nessuna ragione al mondo, l'avrebbero portato fuori in ba- rella. Poi, appena arrivato in ospedale, si sarebbe "ripreso", e una volta che era fuori non avrebbe avuto senso sbatterlo di nuovo sulla scialuppa. Avrebbe trovato lei seduta al ristorante oppure su una sdraio vicino alla piscina, e le avrebbe detto sorridendo: — Posso farvi compagnia? Chiuse gli occhi e si afflosciò. Mentre crollava in terra si contorse un po- ', in modo da colpire il pavimento con la spalla. Poi si mise supino, restò immobile e si impose di respirare lentamente, mentre ascoltava le voci in- torno. Lo steward tornò velocemente sui suoi passi, nel corridoio tra i sedili. Era incuriosito: il giovane che giaceva in terra aveva qualcosa di strano. Non sembrava stare male, e non sembrava nemmeno svenuto. Pareva inve- ce uno che fingesse di dormire. Mentre si inginocchiava scivolò ancora una volta fuori e poi di nuovo dentro, e quando sentì il corpo cadere ac- canto a lui, trasalì a tal punto che per poco non aprì gli occhi. Dopo un bel po' sentì che lo sollevavano e lo mettevano su una barella. Fu trasportato lungo il corridoio, poi ci fu una breve attesa. Il portello si aprì. — Due alla volta, adesso — disse una voce, poco lontano. — Sì. — Be', così le cose vanno più in fretta. La barella si mosse di nuovo, girò su se stessa, si fermò. Lui sentì aprirsi un'altra porta. Continuò a fingere di essere svenuto e resistette alla tenta- zione di sbirciare socchiudendo gli occhi. Adesso stavano entrando in un ascensore; la porta si chiuse e l'ascensore si mise in moto. Poi la barella fu sospinta lungo un corridoio. Un'altra porta. — Due, questa volta! — disse una voce femminile. — Oh, dottor McNulty! China sopra di lui adesso c'era un'altra persona. — Terri, per favore, ap- plicate il cannello a quello lì — disse la voce. — Questo qui ha qualcosa di strano... E lui sgusciò fuori, nello spazio indistinto, per poi entrare di nuovo in un ospite, e mentre stava chino sul paziente capì di essersi sbagliato: il giova- ne era chiaramente in stato di stupore, con gli occhi socchiusi e il respiro quasi impercettibile. Si stava forse rimbambendo?, pensò il dottor McNulty. 38 Per il resto della giornata sulla scialuppa non successe niente. La mattina dopo, alla riunione dello staff direttivo, McNulty disse: — È inutile fare congetture, ma quel che mi preoccupa è che il parassita possa non entrare in azione apposta. Restare in un unico corpo fino a che l'ospite muore. — Può farlo? — chiese Higpen. — L'ha già fatto una volta. — Non vedo che vantaggio potrebbe ottenere — disse Arline Truman, che aveva il viso segnato da occhiaie scure. — Be', se uccidesse ancora, saremmo costretti a evacuare la scialuppa. — E se non lo facessimo? Rimarrebbe intrappolato lì. — Saremmo costretti — disse McNulty, torvo. — D'accordo, ma lui non lo sa. Forse sta cercando di ingannarci con un bluff. — Come dite voi, dottore, non ha senso fare congetture — disse Bliss. — Forse è una guerra dei nervi. Quando il parassita capirà che non inten- diamo cedere, cambierà di nuovo ospite e noi continueremo a usare i vo- lontari, come previsto. — Sì, ma poi? — disse la Bernstein. — Signor Bliss, stanotte non ho dormito quasi niente. Pensavo, e se anche il nostro piano funziona, a che cosa servirà? — A darci un attimo di tregua. — Non basta. — Lo so. Dottore, avete concluso qualcosa con i farmaci e le droghe? — No. — Di che farmaci e droghe parlate? — chiese la Bernstein. — Oh, era solo un'idea. Ci siamo detti che forse c'era qualche medicina- le o qualche droga che poteva impedire al parassita di contagiare la gente. — Il campione che ho è troppo limitato — disse McNulty. — Finora non ho trovato nessuno che fosse sotto l'effetto della marijuana, di barbitu- rici o di una mezza dozzina di altre cose, ma questo non dimostra niente. — Perché non somministriamo qualche sostanza ai volontari, prima che entrino? — disse la Truman. — Forse varrebbe la pena di tentare. Ci sono migliaia di farmaci. — Vorrei che pensaste un attimo a una cosa — disse la Bernstein. — E se le medicine o le droghe non funzioneranno? Se non funzionerà niente? In quel caso l'unico modo di uccidere il parassita sarà uccidere la persona in cui si trova. McNulty scosse la testa. — Dovremo sbarazzarci di lei — disse la Bernstein. — Buttarla in fondo al mare. — Non possiamo farlo — disse McNulty con voce quasi inaudibile. — Fose non ci resterà altro da fare — disse la Bernstein. — Prima o poi dovremo affrontare questa realtà, e tanto vale che raffrontiamo adesso. — Signora Bernstein, non esageriamo. Dottore, ho avuto un'altra idea. Nell'attimo in cui il parassita esce da un ospite per entrare in un altro do- vrebbe essere un po' come un granchio senza corazza. Non potrebbe risul- tare vulnerabile, allora? McNulty si accarezzò il mento. — Vulnerabile da cosa? — disse. — Da campi elettrici, forse? — Sì, qualcosa del genere. Signor Jacobs, potreste mettere insieme al più presto un qualche congegno? — Certo, se mi fate capire cosa volete. — Be', un affare che riunisse un po' di tutto. Campi elettrici, ultrasuoni, radiofrequenze, tutto quello che vi viene in mente. — Sarà una specie di pistola alla Buck Rogers — disse Jacobs con un sorriso. — Sì, ma se funziona non ci formalizzeremo. Nient'altro da dire? Nes- sun'altra proposta? Allora a domani. L'osservatore era felice di avere l'opportunità unica di studiare McNulty, l'uomo incaricato di curare i suoi ex ospiti, ed era affascinato dall'immagi- ne vaga e distorta che McNulty aveva di lui quando se lo raffigurava. Ammirava il dottore per la sua umiltà, il suo rifiuto di autoingannarsi, il rimorso che sentiva per avere provocato la morte di un paziente; queste qualità davano alla sua personalità un sapore che la mente che lo osservava trovava molto gradevole. Attraverso McNulty l'osservatore comprendeva anche il carattere degli altri membri dello staff direttivo, in particolare di Bliss e della Bernstein. Bliss era un uomo coscienzioso e privo di fantasia, un amministratore. La Bernstein, di gran lunga la personalità più forte dello staff, per poco non aveva provocato la morte dell'osservatore. Lui aveva pensato di imposses- sarsi di tutti e due, ma poi aveva ritenuto sciocco metterli fuori combatti- mento, dato che sarebbero stati rimpiazzati da altri di cui non sapeva nien- te. Inoltre l'ingegner Jacobs rappresentava una possibile minaccia, l'entità della quale doveva essere verificata. Quando si alzarono per andarsene, colse l'opportunità; sgusciò fuori, si diresse verso l'uomo che aspettava di passare dalla porta ed entrò in lui, mentre qualcuno inciampava nel corpo appena caduto e intorno nascevano grande stupofe e confusione. — Dio santo, è McNulty! — disse Bliss. — Anche il signor Skolnik? — No, io sto bene — disse Skolnik, rialzandosi. — Ma credo che il dot- tore sia stato contagiato. — Com'è possibile? — disse qualcuno. — Signor Seaver, chiamate l'ospedale per favore, e fate venire una ba- rella. — Avete bisogno di me, capo? — disse Jacobs. — No, andate pure. — Jacobs e altre due persone si allontanarono. — Ma vi rendete conto? — stava dicendo Arline Truman. — Ciò signi- fica che il parassita è rimasto nel corpo del dottor McNulty per tutto il tempo in cui abbiamo parlato. Sa per filo e per segno quel che ci siamo detti. A Bliss venne un orribile sospetto. — Signore e signori — disse a voce alta — allontanatevi l'uno dall'altro, per favore. Toglietevi dall'ingresso, se non vi spiace, e tornate nella stanza... così, grazie. Vorrei che steste ad al- meno un metro e mezzo l'uno dall'altro. Quando ve ne andate fatelo uno al- la volta, mantenendo la distanza di sicurezza. — Si guardò intorno. — Chi manca? Taggart, Williams e Jacobs. Signor Seaver, vi spiace chiamarli al telefono e avvertirli di usare la stessa precauzione? Di stare cioè ad almeno un metro e mezzo di distanza da chiunque incontrino? — Ma qual è il motivo? — chiese Skolnik. — Il parassita in questo momento è probabilmente in uno di noi. Ab- biamo motivo di credere che passando da una persona all'altra non possa percorrere più di un metro, un metro e mezzo. Se cominciasse a cambiare ospite, potrebbe finire all'ospedale l'intero staff direttivo. Higpen disse a bassa voce a Yetta Bernstein: — Non possiamo tornare al perm. — Hai ragione — disse lei. — Come si fa negli ascensori? — chiese Erik Seaver. — E nei ristoran- ti? Sulla Sea Venture non si può andare da un posto all'altro senza finire a meno di un metro dalla gente. — Allora non uscite. Se necessario ci consulteremo solo per telefono. Cercate più che potete di fare il vostro lavoro esattamente come prima. Consumate i pasti in camera e assicuratevi che gli steward non vi si avvi- cinino. Higpen attirò l'attenzione della Truman. — Arline, Yetta e io pensiamo che sia meglio non tornare nel perm finché la faccenda non si è risolta. Po- tete procurarci un paio di cabine? — Sì. — Arline si portò una mano alla fronte. — Fatemi pensare. Non sono nemmeno sicura di poter tornare nel mio ufficio. Ecco: chiamerò da qui, mi farò dire i numeri delle stanze, e chiederò che qualcuno le apra e lasci le chiavi dentro. — Grazie. — Bene, allora — disse Bliss — se non ci sono altre domande, andate pure, uno alla volta. Appena ci saranno delle novità lo farò sapere a voi tutti. Jacobs andò nel suo ufficio. Si sentiva scosso: il parassita non aveva mai attaccato fino allora un membro dello staff direttivo, e lui inconsciamente credeva che non l'avrebbe fatto mai. Si sedette, mise i piedi sul tavolo, e cominciò a riflettere sulla pistola da Buck Rogers che Bliss gli aveva sug- gerito di fabbricare. Campi elettrici, radiofrequenze... Non era un proble- ma: bastava un motore non schermato. Quello del trapano elettrico sarebbe andato benissimo, e avrebbe usato l'impugnatura e il pulsante per il resto del congegno. La sua testa era piena di diagrammi. A ultrasuoni? Forse no... avevano un generatore di ultrasuoni nella zona di pesca, ma era trop- po grande. Gli ultravioletti, però... E mentre assorbiva le sue conoscenze, l'osservatore vide che nessuna delle cose che Jacobs progettava di fare poteva danneggiarlo. L'aveva im- maginato, ma era importante esserne sicuri. Quando entrò lo steward con il carrello del pranzo, l'osservatore sgusciò fuori di nuovo e guardò Jacobs rotolare silenziosamente in terra. 39 Dopo Jacobs, nessun altro membro dello staff fu contagiato. Bliss conti- nuò a imporre lo stesso la regola della distanza di sicurezza; era una secca- tura quasi intollerabile, ma non sapeva cos'altro fare. I pazienti continua- vano a essere ricoverati in ospedale al ritmo di cinque o sei al giorno. Metà circa erano steward, e il problema con il personale era grave. Alcuni degli steward ancora sani rifiutavano seccamente di lavorare, e Skolnik si vide costretto a offrire loro premi enormi. Lo sconcertante era che il parassita fosse uscito dalla scialuppa nono- stante tutte le loro precauzioni. Se poteva eludere così la rete di sorve- glianza, probabilmente tutto quello che credevano di sapere su di lui era falso. Solo allora Bliss capì fino a che punto si fossero abituati a fare affi- damento su McNulty. Adesso tutta la responsabilità era sulle spalle di Bliss stesso, e soltanto lui sapeva quanto fosse inadeguato al compito. Si rendeva perfettamente conto che un suo fallimento avrebbe potuto si- gnificare il crollo di una civiltà. Era giusto dire che i comportamenti cattivi erano da imputarsi a istinti irrazionali, ma se non fosse stato per gli istinti nessuno avrebbe mai fatto niente. Ogni nazione si sarebbe disgregata, la famiglia si sarebbe disgregata... Chi, per esempio, si sarebbe mai sposato e avrebbe mai avuto figli, se fosse stato guidato solo dalla razionalità? Quindi bisognava cercare di eliminare il parassita. Bliss sapeva che un sistema doveva esserci, ma per quanto si spremesse le meningi e si sfor- zasse al massimo, non riusciva a trovare la soluzione. A Emily, dopo che era stata dimessa dall'ospedale, il mondo cominciò ad apparire molto strano. Le cose intorno erano meno minacciose e nel contempo, in qualche modo indefinibile, meno interessanti. Le scialuppe, per esempio, erano soltanto scialuppe e non le suscitavano più un senso di orrore. Sapeva ora perché Jim avesse spesso perso la pazienza con lei; non riusciva a capire perché avesse paura di così tante cose, e adesso nemmeno Emily afferrava il perché di quelle paure. Non la intimoriva neanche Jim, ed era difficile per entrambi abituarsi a una novità del genere. Lui a volte la guardava sconcertato, come se fosse un'estranea. Erano straordinaria- mente educati l'uno con l'altra. Lei capiva che in certo modo al marito mancava l'antica Emily, perché quella Emily aveva bisogno di lui. Dovunque andassero, Emily non sentiva più il rumore del carrello del supermercato e sapeva che non l'avrebbe sentito neanche in futuro. Era come se una sorta di aspirapolvere le avesse tolto la polvere dal cervello. E lei era contenta, ma si rendeva conto adesso che paure e illusioni erano tut- to quanto aveva. A volte, mentre di notte stava sdraiata sul letto, sveglia, cercava di richiamare indietro qualcuna delle vecchie paure, come se fos- sero un antico malanno familiare. Ma erano scomparse, e lei non sapeva più chi era. Phil e Rodney Thurston erano due gemelli diciottenni con i capelli rossi e gli occhi verdi. Phil era il più alto; Rodney era un po' più grasso e aveva il viso rotondo. Viaggiavano con il padre; la madre era morta. Il viaggio, aveva spiegato il padre, era un premio perché erano stati promossi all'e- same di maturità della Stowe School e avevano studiato parecchio per ave- re accesso a Harvard, riuscendo a essere ammessi. Phil e Rodney avrebbe- ro preferito passare un mese a Parigi, o anche a Denver. Metà del loro tempo lo passavano a girare con la cuffia SeeMan in testa, guardando le immagini frenetiche sullo schermo e ascoltando la musica con gli auricola- ri. Andavano a teatro e ai concerti con il padre, quando ci erano costretti (il vecchio aveva il pallino della cultura) ed esprimevano commenti educati per evitare che lui si indisponesse. Fra di loro, quando erano soli, diceva- no: — Che barba. Quando il padre ebbe un collasso nella sala di ritrovo del ponte sportivo e fu portato in ospedale, le cose per i due migliorarono. La nuova atmosfe- ra che regnava sulla Sea Venture era eccitante, e trovavano meraviglioso essere assolutamente liberi. In un primo tempo si limitarono a stare alzati tutta la notte a ubriacarsi con il whisky. In seguito sperimentarono altre co- se. Quando si alzò, un ramo gli sferzò gli occhi, e lui si scostò di scatto con un senso di rabbia e rancore, quasi fosse colpa di qualcuno se non aveva visto il ramo o aveva valutato male la distanza. Era il tipo di rabbia che ti fa andare in municipio a reclamare. Perché era così furioso da non riuscire a vedere una cosa tanto vicina? E dov'era, comunque, il ramo? Nel bosco dietro la casa dei suoi genitori? O se no dove? E quando era successo quel- l'episodio? L'immagine era già scomparsa: solo quella scena completa in se stessa, ma senza avvenimenti che la precedevano o seguivano. — Mettila là — disse la voce di lei. L'oggetto da "mettere là" era una brocca di porcellana umida e gelida, e il "là" era un tavolo smaltato nel ca- pannone degli attrezzi. Nient'altro: un vivido frammento di ricordo o desi- derio; era possibile che l'episodio fosse successo sul serio, avevano passato un sacco di tempo nel capannone degli attrezzi, ma lui non rammentava esattamente, non aveva mai giudicato quel particolare abbastanza impor- tante da conservarlo nella memoria e non aveva idea di quando la cosa fos- se accaduta. Pronunciò il nome di lei, cercando di richiamarla alla mente, e cercò di voltarsi indietro per vederla, ma nello stesso tempo sapeva che la scena era tutta li: solo la brocca bianca e gelida nelle sue mani, e la voce normale di lei, che non trasmetteva messaggi sottintesi ma un semplice: — Mettila là. Si ricordò di come avesse creduto di essere preparato alla morte di Nita, anzi più che preparato: aveva atteso quasi con impazienza quella morte che avrebbe dovuto porre termine al dolore di entrambi. Perciò, quando Nita morì, rimase scioccato dalla profondità del proprio dolore. Dolore non era nemmeno la parola giusta. Non si sentiva come uno che si macerava e tormentava; sentiva piuttosto l'immensa fatica di dover accettare un fatto irrimediabile che rendeva tutto quanto il resto privo di significato. Soltanto buttandosi nel lavoro era riuscito a riprendersi dallo shock; e per mesi e mesi, anche quando ormai era convinto di avere superato la co- sa e dava questa impressione a tutti, aveva continuato a essere assalito da ondate assolutamente inaspettate di dolore. Dopo un po', proprio per quel motivo era diventato un medico migliore, ed era arrivato a pensare che tutti i medici, avendo a che fare con la soffe- renza altrui, avrebbero dovuto affrontare un'esperienza come la sua, maga- ri come parte integrante dell'internato. Certo non si poteva uccidere la mo- glie dello studente che faceva pratica, e se poi questi era povero, come era per lo più il caso, la moglie non l'aveva comunque; però si poteva dargli qualcosa che desiderava moltissimo, lasciare che si abituasse ad essa e poi portargliela via. Forse in tal modo i medici avrebbero avuto un po' meno il vezzo troppo frequente di ridurre i pazienti a semplici parti del corpo e a parlarne in termini di "questo fegato" o "quel melanoma". Aveva la vaga consapevolezza di essere un paziente anche lui, adesso; sì, certo, e gli pareva di fluttuare intorno come fosse quasi senza corpo. Quella coscienza della malattia gli ricordava la confortante sensazione che provava da bambino quando era troppo ammalato per andare a scuola, e stando al sicuro e al caldo sotto le coperte, nella stanzetta dietro la cucina, pensava che sua madre era lì da qualche parte, pronta a portargli tè e aspi- rine. Era una bella sensazione perché toglieva il peso dei problemi e delle responsabilità; come da piccolo, anche adesso doveva solo essere ammala- to, un compito facile e piacevole. E poteva lasciarsi trasportare da un luogo all'altro. Adesso si trovava in un posto tipo Disneyland oppure da qualche altra parte, con uomini verdi che sembravano stecchini e che si arrampicavano intorno, formando una rete di chiodi di color grigio scuro. I loro visi non erano umani, ma questo non lo disturbava come un tempo, gli pareva anzi interessante, e sapeva che sarebbe stato più facile capirli in seguito, quando sarebbero stati "tutti fratelli e sorelle". 40 Hartman era più che mai turbato da quanto accadeva sulla Sea. Venture. Aveva già visto la violenza esplodere durante i tumulti di Londra degli an- ni Ottanta e dopo il terremoto di Lisbona; quando in una società civile l'or- dine veniva a mancare, persone che di solito possedevano autocontrollo approfittavano dell'occasione per spaccare roba e darsi al saccheggio; era comprensibile. Ma in questo caso la faccenda non era diversa? Ragazzi giovanissimi che si avvicinavano a una donna anziana, le strap- pavano il bastone e lo usavano per spaccarle le ossa. Aggressioni con bot- tiglie di Coca Cola rotte, stupri, accoltellamenti. Era violenza assurda e in- sensata, quasi che, pensò Hartman, ci fosse nella mente umana una forza oscura e semicosciente di sé, che vedendosi minacciata menava botte da orbi come un animale ferito. Quando ormai non c'erano più volontari, Hartman si offrì di collaborare e gli fu affidato un incarico di supervisione durante il turno notturno. Il terzo giorno che prestava servizio, poco prima di mezzanotte, era seduto alla sua scrivania nel corridoio quando vide Hal Winter venire verso di lui. — Bene, ci rincontriamo — disse Hartman. Guardò la fascetta bianca in- torno alla manica di Winter e il manganello che aveva in mano. — Anche voi vi siete offerto volontario? — Eh sì. Ritengono che sia fisicamente troppo debole per pattugliare, così mi hanno dato un incarico di coordinamento. Mi hanno perfino affib- biato un titolo, lo stesso che avevo in precedenza. In un certo senso è una cosa molto bella. Ma ecco le istruzioni. Il vostro settore è il fianco sinistro di questo ponte, a mezzanave a prua dal corridoio A a quello E. Il vostro compagno dovrebbe essere qui a minuti e vi spiegherà lui le regole. Ecco il mio numero: chiamatemi in caso di problemi, anzi fatelo per prima cosa. Ogni ora vi è concesso un periodo di riposo di dieci minuti. Vedete? Ho il caffè, le ciambelline, tutte le comodità di casa. Immagino vi avranno detto di non usare troppo la forza, vero? — Sì. — Be', non prendete il discorso troppo alla lettera. Se ci fossero proble- mi cercate se potete di cavarvela con le parole, ma se non ce la fate usate il manganello, che ha proprio quella funzione lì. Siete pratico del manganel- lo? — No. — Permettetemi che vi spieghi due o tre cose. Se si tratta di un uomo armato, mirate al polso, alla spalla, al gomito, perché lasci cadere l'arma. Se ritenete che sia troppo sveglio per farsi disarmare così, colpitelo diret- tamente al ventre. Il manganello vi permette di aggredire l'avversario a una distanza di quaranta centimetri, ed è improbabile che lui abbia un coltello così lungo. Se lo colpite abbastanza forte, gli paralizzerete il plesso solare, e lui avrà così male che non dovreste fare fatica a convincerlo a seguirvi senza opporre resistenza. Le stanze che fungono da prigione sono lungo il corridoio. Ora supponiamo che vi troviate davanti a un uomo che sta assa- lendo una donna. In tal caso non vi consiglierei di cercare di persuaderlo con le parole. Dategli una botta dietro l'orecchio, così, oppure sulla tempia: una botta abbastanza forte da schiacciare un pompelmo. Non siate troppo delicato. Meglio di tutto sarebbe stordirlo o fargli perdere i sensi, ma se dovesse anche riportare una commozione cerebrale non preoccupatevi troppo: meglio lui di voi. È tutto chiaro? — Sì. Spero di sì — disse Winter con un sorriso. — Siete un ragazzo alto e forte, non dovreste avere problemi. Buona for- tuna. La prima volta fu mentre tornavano la sera tardi da un cinema. Attraver- sarono i corridoi residenziali per andare all'ascensore di dritta, e davanti a loro videro una vecchia che procedeva zoppicando con un bastone. — Dieci punti — disse Rodney. Si guardarono. — Ti sfido — disse Phil. Rodney non disse niente, ma aveva gli occhi che gli brillavano. Comin- ciò a camminare più in fretta. Phil accelerò il passo per non restare indie- tro; era tutto eccitato adesso, e si domandava se il fratello l'avrebbe fatto sul serio. Arrivarono alle spalle della vecchia. Mentre le passavano a fianco, Rod- ney allungò la mano, afferrò il bastone e tirò. — Ah! — esclamò la vec- chia, cadendo. Aveva gli occhi che sembravano ostriche e teneva ancora la mano stretta sul bastone. Rodney glielo strappò. Aveva il viso rosso e le labbra lucide. Alzò il bastone e colpì la donna sulle ginocchia. Poi tutt'e due scapparono, inseguiti dalle urla di lei. Nascosero il bastone dietro una pendola del corridoio. La sera successiva se ne procurarono un altro e dopo di allora uscirono entrambi con il basto- ne, la notte, in cerca di vittime. Per un po' scelsero sempre vecchi, ma poi la cosa li annoiò e una sera sorpresero una donna da sola. La tirarono dentro il vano di una porta, e Rodney le premette il bastone contro la gola mentre Phil le tirava giù le mutandine. Dopo non si guardarono negli occhi, né si parlarono; ma tre notti dopo ripeterono la prodezza. Anche se i corridoi della Sea Venture erano zeppi di cartacce e immon- dizia, anche se le luci del soffitto erano rotte e certi schermi tv bianchi, un po' di vita nei locali pubblici c'era ancora. Il casinò era chiuso, ma i risto- ranti e i bar erano aperti: l'unica differenza, a parte la spazzatura, era che si incontravano meno persone, e alcune di esse apparivano un po' strane. La Barlow e Geller, che sceglievano con una certa cautela l'ora e i posti, non avevano mai avuto problemi; Geller aveva l'aria sufficientemente robusta e aggressiva da scoraggiare i malintenzionati, e la Barlow portava nella bor- sa un bisturi da patologo. Un pomeriggio stavano seduti al bar del casseretto a bere un cocktail. — Eccone uno — disse la Barlow, guardando dall'altra parte della sala. — No, tutti e due lo sono. Geller seguì la direzione del suo sguardo. — Sì. — Ci stanno fissando. — Be', perché no? — Geller alzò il bicchiere e sorrise. L'uomo disse qualcosa alla donna. Dopo un attimo si alzarono e attraver- sarono la sala portandosi dietro i bicchieri. — Possiamo presentarci? — disse l'uomo. — Mi chiamo John Stevens. E questa è Julie Prescott. — Sedetevi — disse Geller. — Randy Geller, Yvonne Barlow. — Si spostarono per fare loro posto. — Siete entrambi pazienti guariti, vero? — chiese Stevens. — Numero uno e numero due. Posso chiedere come avete fatto a indo- vinarlo? — Credo sia stato qualcosa nella vostra faccia — disse Julie Prescott. — Ma non so proprio spiegare come riesco a intuirlo: lo intuisco e basta. — Chi di voi due è il numero uno? — chiese Stevens. — Io. Giù al laboratorio marino. McNulty è convinto che sia uscito qualcosa da un'australite che abbiamo pescato dal fondo. Pensa anche che non sia un virus, ma un parassita intelligente. — E voi invece non lo credete? — Oh sì, lo credo anch'io. — Anche voi lavorate nel laboratorio marino, signora Barlow? — Yvonne. Ci lavoravo, ci lavoravamo entrambi. Ma abbiamo mollato il lavoro. — Capisco. Perché vi pareva che non avesse più senso? — Sì. Si guardarono. La Barlow aveva la strana sensazione che le parole in se stesse fossero irrilevanti. — Pensate allora che il motivo per cui ci riconosciamo sia quello? Rico- nosciamo le persone per le quali la vita non ha più senso? — Non è la vita a non avere più senso, ma il modo in cui vivevamo pri- ma — disse la Barlow. — E come vivrete da ora in poi? — Yvonne e io intendiamo mettere su un piccolo laboratorio privato nella Penisola Superiore del Michigan. Possiamo sbrigare abbastanza lavo- ro commerciale da tirare avanti, e conservare anche lo spazio per un po' di ricerca come si deve. — Ma nel Michigan non si tratterà di biologia marina, vero? — No, però la biologia è sempre biologia. Yvonne è interessata alla dermatite da schistosomi, detta anche "scabbia del nuotatore". A provocar- la è un parassita, e forse è per quello che le piace. E voi cosa pensate di fa- re? — Io non lo so ancora — disse Stevens. — Credo di avere problemi con la vita in genere. — Io penso che dipingerò — disse Julie. — Dipingerò in ogni caso per un anno o due, il tempo sufficiente per capire se è un campo in cui valgo qualcosa. — Sempre supponendo che riusciamo a scendere dalla Sea Venture — disse Geller. Stevens sorrise. — Oh, scenderemo, scenderemo. In un modo o nell'al- tro. 41 L'idea del trucco fu di Rodney. Con della cipria chiara in faccia, parruc- che da vecchi rubate dal negozio di costumi dietro il teatro e i vestiti del padre indosso, potevano trascinarsi in giro come due poveri zoppi, e nes- suno si sarebbe insospettito vedendo i loro bastoni. Una sera ebbero un piccolo colpo di fortuna. Avevano appena buttato in terra una vecchia e Rodney le aveva appena dato una bastonata in testa per farla stare zitta, quando qualcuno girò l'angolo e venne loro incontro. Era- no in due: due uomini con in mano il manganello e fascette bianche in- torno alle maniche. Phil e Rodney si guardarono. — Fai la commedia — mormorò Rodney. — Cos'è successo, qua? — disse uno dei due uomini. — Chi è stato? — Si accovacciò in terra per guardare la donna priva di conoscenza. — È stato orribile, agenti — disse Rodney cercando di imitare la voce di un vecchio. — Abbiamo visto arrivare questi due ragazzi che... che l'hanno colpita così con un bastone. — Da che parte sono andati? — disse l'altro uomo, avvicinandosi. Guar- dava i due ragazzi in un modo che a Phil non piacque per niente. — Da quella parte — disse Rodney, indicando col dito. Si curvò, tenen- dosi una mano sul petto. — Oh, non mi sento affatto bene. È il cuore. — Mi fate vedere un documento di identità? — chiese il secondo uomo. Il primo si era rialzato e parlava al telefono. Il secondo si avvicinò ancora di più. — All'attacco! — gridò Rodney, e calò il bastone sull'uomo che stava te- lefonando. Phil colpì con il proprio bastone l'altro uomo fra le gambe. L'uomo gli sferrò una manganellata sulla guancia, ma Phil si scansò quasi subito e gli fece lo sgambetto, buttandolo a terra. Poi Rodney colpì anche lui l'uomo, che rotolò accanto all'altro con un rivolo di sangue che gli usci- va dalla bocca. Quindi i due ragazzi scapparono. Fu solo più tardi che Phil cominciò a sentir male alla mascella rotta. Stevens fu svegliato la mattina presto dal ronzio del telefono. — John, scusate se vi disturbo, ma Hal non è tornato e non riesco a rin- tracciarlo per telefono. Alla sicurezza sembra che non sappiano niente. Mi chiedo se... — Certo. Vedrò di scoprire quello che posso. Vi richiamo fra pochi mi- nuti. Stevens riattaccò, poi compose il numero dell'ospedale. Dopo un attimo gli rispose una voce femminile stanca. — Potete dirmi se è stato ricoverato da voi nelle ultime ore un paziente di nome Harold Winter? — Fatemi controllare. Stevens aspettò. — Sì, è stato ricoverato alle quattro di mattina. — Posso chiedervi in che condizioni è? — Stazionarie. Ha riportato una commozione cerebrale. Sapremo di più nelle prossime cinque o sei ore. — Grazie. Stevens si alzò e cominciò a vestirsi. Compiva ogni azione meccanica- mente; non aveva dubbio su quel che stava per fare. Mise in una tasca un piccolo bastone pesante e nell'altra l'astuccio di pelle con gli attrezzi. Da quando era guarito provava la sensazione in parte gradevole di essere sospeso. Aveva detto a Newland di non credere al caso, ma non era vero. Adesso che non dava più alcuna importanza al passato, aveva l'impressio- ne che il futuro fosse appeso a un tenue filo e che qualsiasi folata di vento potesse spingerlo in una direzione o nell'altra. Aveva aspettato con curiosi- tà di vedere se il destino gli avrebbe inviato un messaggio. E adesso il messaggio era arrivato. Bussò alla porta di Newland. — Paul, sono John. — Un attimo. Newland aprì la porta. Era sulla sedia a rotelle e aveva ancora indosso il pigiama. — Cos'è successo? È ferito? — Temo proprio di sì. Vogliono che vi porti giù. Non ha perso cono- scenza, ma devono lasciarlo immobile. — Dio, dio — disse Newland, con voce rotta. — Com'è successo? — Non lo sanno bene. Qualcuno l'ha assalito sul ponte delle scialuppe. — Chiuse la porta alle spalle di Newland e gli camminò a fianco mentre lui si dirigeva sulla sedia a rotelle all'ascensore. — Il ponte delle scialuppe? — disse Newland. — Sì, gli hanno cambiato settore stamattina. — L'ascensore li portò giù. La porta si aprì con un sibilo. Stevens condusse Newland alla sezione scialuppe. Faceva buio, lì; una delle luci del soffitto era rotta. — Qui? — disse Newland, aguzzando gli occhi, e dopo un attimo Ste- vens lo colpì col bastone. Il vecchio si afflosciò; non c'era traccia di san- gue. Stevens lo spinse avanti, nella nicchia. Poi prese dall'astuccio la striscia di plastica piatta e la infilò nella serratura. Il portello si aprì. Stevens spin- se la carrozzella dentro, chiuse il portello alle sue spalle, poi aprì il secon- do, quello che dava accesso alla scialuppa vera e propria. Appena entrò si accesero le luci e l'aria condizionata. Lasciò la carrozzella nel corridoio tra i sedili, andò a prua, alla console del pilota, e si infilò i guanti. Attraverso gli spessi oblò vide spruzzi d'ac- qua sollevati dal vento che sferzavano lo scafo. Immaginò la scialuppa spuntar fuori dal condotto, immergersi nell'acqua, tornare a galla, poi an- dare alla deriva. Non male: un funerale da vichinghi. Newland aveva il respiro lento e leggero. Non era ancora morto, ma lo sarebbe stato presto. Stevens tornò al pannello di accesso accanto alla porta, lo staccò ed e- saminò i comandi. Premette il pulsante contrassegnato dalla scritta USCI- TA SCIALUPPA. Mise il timer sui due minuti e puntò il comando AU- TOLANCIO nella posizione ON. Lasciò il pannello di accesso in terra. Buttando un'ultima occhiata alla testa grigia di Newland, uscì come era en- trato. Per due minuti non successe niente, sulla scialuppa. Poi il timer scattò. I cavi vennero sganciati e ritirati. L'ariete idraulico sul lato più lontano della barca scivolò indietro, lasciandola andare, e l'aria compressa la spinse fuori dal condotto. Il motore si accese automaticamente, portando la scialuppa lontano dalla Sea Venture, in direzione del vento. 42 Sulla console lampeggiò una luce rossa. Ferguson disse a Bliss: — C'è un segnale che riguarda il portello della scialuppa cinquantatré. — Di nuovo qualcosa che non funziona? — Probabilmente. — Mandate una persona a controllare. Pochi minuti dopo Ferguson esclamò: — Adesso dalla stessa scialuppa ci arriva un segnale di lancio! — Premette in fretta dei bottoni. — Non c'è nessun segnale di stato — disse dopo un attimo. — Credo sia stata lanciata davvero, anche se non ho idea di come sia potuto succedere... Dagli oblò e dagli schermi televisivi si vedevano solo pioggia e spruzzi. — Vedete se riuscite a captare niente con il radar. — Il mare è troppo agitato — disse Ferguson. — Potrebbero anche es- serci una dozzina di scialuppe, là, che non riusciremmo mai a vedere. Senza aspettare ordini, la Stuart parlò al microfono. — Sea Venture chiama scialuppa cinquantatré, ci sentite? Rispondete, cinquantatré. — Dopo un po' si girò e scosse la testa. Bliss restò in piedi dov'era, cercando di assumere l'espressione di uno che stava pensando. Dio santo, cosa poteva fare? Cos'avrebbe fatto Nelson al suo posto? Se la scialuppa era stata calata davvero, o qualcosa aveva funzionato male e nessuno si trovava a bordo, oppure qualcuno l'aveva lan- ciata di proposito. In quel caso c'era la minima ma concreta possibilità che il passeggero o i passeggeri avessero il parassita. Che cosa poteva fare, lui? Dalla Sea Venture non era possibile re- cuperare una scialuppa; chi aveva progettato la nave aveva supposto che se fossero state sganciate le scialuppe la Sea Venture sarebbe stata lì lì per af- fondare. L'unica cosa che poteva fare era calarne un'altra, ma ciò significa- va raddoppiare la probabilità che il parassita fuggisse. Sarebbe stato ri- schioso per chiunque passare da una scialuppa all'altra, con quel tempac- cio; se la prima barca fosse risultata vuota, un uomo sarebbe potuto anne- gare per niente. — Capitano — disse la Stuart — Quinn comunica dalla sezione lancio che la scialuppa cinquantatré è scomparsa. — Datemi l'ospedale. — Qui Fenwick dell'ospedale — disse una voce di donna. — Sono Bliss, il direttore delle operazioni. È stato ricoverato nessun nuovo paziente nell'ultima mezz'ora? — No, signore. — Appena ne arriva uno avvertitemi. Dopo un'ora la Stuart disse: — Una telefonata per voi, capo. È la Fen- wick, dell'ospedale. Bliss premette il tasto del telefono. — Sì, signora Fenwick, ci sono novi- tà? — Mi avevate detto di chiamarvi appena fosse arrivata un'altra vittima dell'epidemia, direttore. Ne è stata appena ricoverata una, una donna. Si chiama Gearhart. — Non avete dubbi sui sintomi? — No, signore. — La voce della Fenwick suonava offesa. — Grazie. — Bliss si rivolse alla Stuart. — Spedite questo messaggio sul canale di emergenza. "Scialuppa lanciata per sbaglio dalla Sea Venture a..." Fornite la posizione e l'ora. "Potrebbe avere passeggeri a bordo". Con- tinuate a inviarlo finché non otterrete una risposta. — Sì, signore. Newland aprì gli occhi e provò dolore e una sensazione di vertigine. In un primo tempo non capi dov'era, né come fosse arrivato lì. Si trovava sul- la sedia a rotelle con indosso soltanto il pigiama; aveva freddo, e dondola- va avanti e indietro. In un punto la testa gli faceva un gran male, e quando si toccò sentì una protuberanza grossa e molle. Poi vide il soffitto giallo e i sedili azzurri e pensò, sono sulla scialuppa. Ma non sapeva il perché. Hal era stato ferito, ecco cos'era successo: il ri- cordo gli provocò una fitta ancora più forte di quella che avvertiva alla te- sta. Lui aveva chiamato John Stevens. E lì i ricordi si fermavano: non af- fiorava più niente. Era successo qualcosa alla Sea Venture?! Allora come mai era da solo sulla scialuppa? Andò con la carrozzella fino alla console e guardò il mare grigio. La barca rollava in mezzo alle onde, buttandolo ogni volta da una parte e dal- l'altra. Cercò di sollevarsi dalla carrozzella e di infilarsi nel sedile del pilo- ta; ci riuscì, ma lo sforzo lo lasciò fiacco e stordito. Quando mosse il timone, il muso tozzo della scialuppa cambiò direzio- ne, in mezzo alle onde. Adesso il dondolio era da prua a poppa, e l'acqua grigia sferzava gli oblò. Newland guardò tra gli spruzzi nella speranza di scorgere la Sea Venture, ma non vide niente. Continuò a muovere il timone finché non ebbe descritto un cerchio completo. Sull'oceano grigio non c'era nessuna nave. Gli venne in mente di dare un'occhiata all'orologio. Era mezzogiorno e dieci. Si ricordò di avere chiamato John verso le sette del mattino. Non po- teva quindi trovarsi sulla barca da più di cinque ore. Quanto poteva essersi allontanato dalla Sea Venture in quel lasso di tempo? Trovò i radiocomandi, accese il ricevitore e cercò di sintonizzarsi su qualche punto della banda. Ma non si sentiva altro che elettricità statica. Quali erano i canali di emergenza? Non riusciva a ricordarselo. Accese il trasmettitore e disse: — Mayday, Mayday. Qui è Paul Newland a bordo di una scialuppa della Sea Venture. Non so dove mi trovo. Ho lasciato la Sea Venture circa alle sette e mezzo di questa mattina. Aiutatemi, vi prego. Mayday, Mayday. La barca beccheggiava furiosamente in mezzo alle onde. Newland si le- gò al sedile con la cintura di sicurezza. 43 Carl Nohrenberg passò attraverso il rivelatore di metalli e il fiutatore di esplosivi, mostrò il documento di identità al marine di guardia ed entrò nell'ufficio ovale alle otto e un quarto in punto. Il Presidente, come al soli- to, era seduto dietro ai disegni di Topolino della sua scrivania ed era roseo, allegro, sorridente e vestito in modo impeccabile. — Bene, che notizie mi portate stamattina, Carl? Nohrenberg aprì la sua cartella. — Signor Presidente, c'è una di- chiarazione del presidente Lamartain che appoggia decisamente la vostra politica nello Zaire. — Bene. Cos'altro? Nohrenberg voltò pagina. Al Presidente piaceva sempre cominciare la mattina con un paio di buone notizie. — Abbiamo in visione una copia del rapporto della Commissione Walter. Intendono prosciogliere Rickard. — Ottimo, ottimo. Inviategli un messaggio di congratulazioni. Anzi no, non importa, lo chiamerò io stesso. E adeeesso — cantilenò, con un sorriso — mi dite quali sono le brutte notizie? Nohrenberg sorrise a sua volta. — Non è che ci siano notizie proprio brutte, signor Presidente, ma ci stanno facendo sempre più pressioni per- ché interveniamo nell'interesse delle persone che si trovano a bordo della Sea Venture. — Firestein, Greaves e una quindicina di altri? — Sì, signore, e a nostro avviso sarebbe opportuno assecondarli. Qui a matita è stato aggiunto un appuntamento con l'ammiraglio Penrose, che verrebbe a parlarvi della cosa alle dieci e mezzo. Se siete d'accordo, po- trebbe far arrivare là in cinque o sei ore una portaerei che trasporterebbe e- licotteri. — Va bene, gli parlerò. Sapete, mi viene in mente la storia di quel capi- tano la cui nave affondò durante una tempesta, e che la mattina dopo si ri- trovò a galleggiare su una zattera con il suo pappagallo... — Cosa vi è successo, amico? — disse Hartman. Winter si sforzò di sorridere. Aveva la testa tutta bendata e una grossa chiazza sotto un occhio. — Non ricordo. Forse non ho seguito abbastanza i vostri consigli. E Ned Mulhauser, il mio compagno, come sta? Non mi hanno voluto dire niente. Hartman esitò. — Sta un po' peggio di voi, ma si riprenderà — mentì. In realtà Mulhauser aveva riportato gravi ferite interne ed era dato per spac- ciato. — Bene — disse Winter. — Potreste telefonare al professor Newland e fargli sapere che sono qui? — Sì, certo. E tornerò presto a trovarvi. Hartman provò a chiamare Newland nel suo appartamento, ma non ri- spose nessuno. Gli parve strano. Salì sul ponte delle comunicazioni, bussò alla porta, aspettò, poi provò a entrare. La porta non era chiusa a chiave. La cabina era vuota. Di solito, per ragioni incomprensibili, dagli uffici della compagnia tele- fonavano a Bliss alle sei del mattino. Colford, il direttore generale, era molto gentile e premuroso, ma Bliss aveva idea che non comprendesse la situazione. — Signor Bliss — disse quella mattina — credo sia meglio sappiate che dalla Casa Bianca abbiamo ricevuto rimostranze. Ci hanno parlato nell'interesse di diciotto vostri passeggeri: dovreste garantire loro che troverete il modo di contenere l'epidemia prima che la nave tocchi Guam. — Non posso garantirlo, signor Colford. — O almeno — disse Colford — vorrebbero che deste il permesso di sbarcare a certi passeggeri, compresi quei diciotto i cui nomi ho già fatto. Ora, non mi pare che sia una richiesta irragionevole. Ritenete che sia irra- gionevole, signor Bliss? Il guaio era che non poteva dire a Colford tutta la verità, perché non sa- rebbe stato creduto. Se avesse cominciato a cianciare di parassiti intelli- genti e via dicendo, era sicurissimo che Colford lo avrebbe licenziato. Al- lora lui avrebbe dovuto rifiutare di cedere il comando, e tutta la faccenda sarebbe costata cara. — No, non è irragionevole — disse. — Dunque, ho saputo che la marina militare intende inviare una portae- rei là dove vi trovate voi; la nave preleverà i famosi diciotto passeggeri, o anche di più, trenta, quaranta, il numero che deciderete voi, signor Bliss. E queste persone saranno tenute in quarantena finché non si sarà sicuri che tutto è a posto, dopo di che verranno fatte sbarcare. Quand'è che dovreste arrivare a Guam? — Il tredici febbraio — disse Bliss. — Bene, allora vi spiace organizzare le cose per l'operazione? Ah, a proposito, con gli elicotteri arriveranno anche dei medici; questa notizia dovrebbe sollevarvi. — Sì — disse Bliss. Stevens si rendeva conto di avere verso Julie un atteggiamento diverso, che lo lasciava perplesso e lo disturbava. Trovava assurdamente belli certi particolari del suo viso e del suo corpo che prima gli erano parsi del tutto comuni. E a parte quello, scopriva di pensare con affetto a lei come perso- na; le augurava ogni bene e desiderava difenderla dal male. Quel pomeriggio, nel letto di lui, Julie mormorò: — Cosa desideri? — Questo. — Nient'altro? — No. Tu cosa desideri, Julie? Lei rimase un attimo zitta. — Forse vorrei che tu mi dicessi la verità. — Su di me? — Sì. — E se ti dicessi che sono un criminale? — Non mi sorprenderei. Che tipo di criminale? Stevens la guardò. — Sul serio vuoi sapere? E va bene, allora. Sono un assassino. È la mia professione. Sono stato pagato per venire qui su questa nave e uccidere una persona. Sei soddisfatta? — Non ci credo — disse lei. Poi, guardandolo negli occhi: — Sì, ci cre- do. Chi dovevi uccidere? — Non è il caso che te lo dica. Lei annuì. — Quando lo farai? — L'ho già fatto. — Adesso non so cosa credere — disse lei. — Sulla Sea Venture non è stato ucciso nessuno. — Ma Stevens capì che Julie pensava che era vero. — Che impressione ti dà? — Essere un assassino? L'impressione che sia un modo stupido di passa- re la vita. — Solo questo? — Che cosa vuoi che ti dica, che mi pento dei miei misfatti? Non è così. Credo che il mondo stia molto meglio senza certe persone, ma non è quello il punto. L'unica cosa che mi dispiace è che la mia vita è stata priva di sen- so. — Anche la mia — disse lei dopo un attimo. Al tramonto erano sul ponte delle comunicazioni, vicino a prua, e guar- davano il mare sempre più scuro e la striscia rosso fuoco dell'orizzonte. — Non è una nave, quella? — disse lei. Stevens si fece schermo con la mano. — Dove? Ah, quel puntolino, sì, adesso l'ho visto. — Per un attimo, pensando che potesse essere la scialup- pa, aveva sentito un tuffo al cuore. — Immagino che anche loro ci stiano guardando e che siano ben contenti di non essere qui. Quando arriveranno a casa diranno ai loro amici: "Siamo passati a dieci miglia dalla Sea Ventu- re". — Non poteva essere di sicuro la scialuppa: non sarebbero riusciti a scorgerla da così lontanp. Si chiese se il vecchio fosse morto; doveva es- serlo, ormai. Perché non se n'era assicurato? Probabilmente, pensò, perché non aveva voluto di proposito assicurarsene. Aveva voluto lasciate a Ne- wland una probabilità, benché si trattasse di una probabilità su cento. Se Newland avesse vinto, se fosse stato ritrovato vivo, sarebbe stato un altro segnale, il segnale che Stevens aspettava adesso. Voltarono le spalle e cominciarono a passeggiare intorno alla piscina. — Credi che ce la faremo? — disse Julie, così per parlare. — Ti riferisci alla razza umana? Direi che dipende da una cosa: se meri- tiamo di sopravvivere. — È un discorso molto cinico. — Al contrario, è molto idealistico. Ci sarebbe un modo semplicissimo di salvare l'umanità, qui sulla Sea Venture, se solo qualcuno si offrisse co- me cavia. L'unico problema è: si offrirà mai nessuno? — Quale sarebbe, questo modo? — In certi casi, quando per esempio vicino all'ultima vittima si trova soltanto una persona, uno sa di essere il portatore del parassita. Basterebbe che in quel momento questa persona dicesse: "Per favore, sgombrate la zo- na che va fino all'entrata passeggeri e aprite il portello". — Capisco. Dovrebbe buttarsi in mare? Molto semplice. — Sì, molto semplice. — Tu lo faresti? Stevens alzò le spalle. — Se rispondessi di sì, sarebbe una spacconeria. Siccome ho già avuto la malattia, è improbabile che sia chiamato alla pro- va, e lo stesso vale per te. Così possiamo teorizzare standocene al sicuro e voltare le spalle al problema, come fanno tutti gli altri. Ma forza, andiamo. Non è ora di cena? 44 Il giorno dopo a mezzogiorno, quando Bliss si era appena seduto per consumare da solo il suo pranzo, suonò il telefono. — Sì? Era la sua segretaria. — Signor Bliss, c'è una videochiamata del Presi- dente. — Dio santo — disse Bliss. Si alzò, andò al telefono della scrivania e premette il bottone. Sullo schermo apparve l'immagine di un giovane serio con i capelli rapati. — Capitano Bliss? Potete restare in linea che vi passo il Presidente degli Stati Uniti? — Sì. Trascorsero parecchi minuti; poi sullo schermo apparve il viso famoso. — Capitano Bliss, come sapete molti mi hanno espresso la loro preoc- cupazione per la vicenda della Sea Venture e desidero informarvi che ho ordinato alla portaerei Bluefields di lasciare la propria posizione e di rag- giungere la vostra a una determinata ora di domani. Si cercherà la scialup- pa che è stata calata per sbaglio e si provvederà a consegnarvi un gruppo di medici e infermieri della marina militare, nonché un distaccamento di ma- rine che si incaricheranno di mantenere l'ordine sulla Sea Venture. Avrete quindi tutto l'aiuto e l'assistenza possibili, da parte nostra. — Grazie, signor Presidente. — Inoltre, capitano Bliss, quelli della Bluefields riceveranno anche l'or- dine di condurre via il maggior numero possibile di passeggeri non conta- giati. Oggi stesso vi invieremo un elenco di tali passeggeri. L'elenco è provvisorio e ad esso potrete aggiungere varie altre persone desiderose di andarsene, naturalmente tenendo conto della disponibilità di spazio della Bluefields. — Posso chiedervi che cosa farete con i passeggeri prelevati, signor Pre- sidente? — Certo che potete, stavo proprio per parlarvene. Naturalmente saranno tenuti in quarantena sulla Bluefields, finché i nostri medici non saranno si- curi che tutto è a posto; dopo di che verranno condotti a Guam. — Grazie, signor Presidente. — Niente, capitano Bliss, e se c'è qualcos'altro che possiamo fare per voi, chiamate pure il mio ufficio a qualsiasi ora del giorno o della notte. Adesso vi lascio libero di tornare alle vostre incombenze, capitano, e desi- dero sappiate che preghiamo per voi. — Altri guai sulla Sea Venture già provata dalla sfortuna — disse il commentatore televisivo guardando la telecamera con espressione grave. — Mentre una portaerei parte per una missione di soccorso, un passeggero famoso, Paul Newland, scompare misteriosamente. Parleremo di questa e di altre vicende dopo la lettura dei titoli. Quella sera, mentre cenava con Hartman, Bliss disse: — Francamente non so che pesci pigliare. Abbiamo provato tutte le soluzioni possibili, e tutte quante si sono rivelate un completo fallimento. Adesso abbiamo an- che avuto la sfortuna che il parassita sia uscito dalla scialuppa di salvatag- gio. Non era assolutamente detto che succedesse, ma è successo. E il peg- gio è che ha contagiato McNulty e Jacobs. Jacobs stava per costruire un congegno che gli avrebbe permesso di scaricare radiofrequenze e altre cose del genere sul parassita mentre questo cercava di passare da una vittima al- l'altra. — Credete che abbia contagiato Jacobs per impedirgli di costruire il congegno? — Può darsi. Oppure per farci credere che quello sia il motivo. Be', non deprimiamoci troppo. Provate questo chiaretto. Hartman ne prese un sorso e cercò di non far trapelare dal viso la sua o- pinione. — Ottimo. — Tutta la responsabilità è sulle mie spalle, capite — disse Bliss. — Vi assicuro che avrei preferito che fòsse sulle spalle di chiunque altro. — È un bel pasticcio, vero? — disse Hartman. — Non potete lasciar sbarcare nessuno finché non vi siete liberato del parassita, ma d'altro canto non potete tenere i passeggeri qui in eterno. — I miei superiori mi hanno detto che devo permettere a una portaerei di prelevare determinati passeggeri. Ma non posso farlo. Se il parassita do- vesse finire su una portaerei, chi lo fermerebbe più? — Già, capisco bene. Immagino che alla fine sarà necessario ricorrere a misure "eroiche". Tipo Nelson a Copenhagen, per intenderci. — Quello è il punto: io non sono un eroe. — Va be', nessuno di noi lo è finché non si trova davanti alla necessità concreta di esserlo, vi pare? Quando verrà il momento lo sarete anche voi. 45 Alle due di notte il telefono sul comodino di Bliss ronzò. Bliss rispose mezzo addormentato. — Sì? — Capitano, scusate se vi disturbo, ma c'è una chiamata di vostra moglie a carico del destinatario. — Su video? — No. — Va bene, passatemela. — Stanly? — Sì cara? — Eravamo così preoccupati per te. Stai bene? — Sì, sto bene. — Senti, tesoro, non avrei mai chiamato a quest'ora, ma durante il gior- no non sono riuscita a mettermi in contatto. Continuavano a dirmi che le linee erano sovraccariche. — Sì, probabilmente era vero. Qualcosa non va? — Be', niente di grave, però Tommy è un po' nei guai. Ha preso in pre- stito una somma da un uomo, in ufficio, poi, sai, ha perso il posto e così naturalmente non ha potuto restituire il denaro. — Che somma? — Be', sembra che siano tremila sterline e sai, con la nuova caldaia che hanno messo l'anno scorso e l'aumento delle tasse, siamo proprio a corto di soldi. — Lui quanto ha? — Ecco, solo poche sterline perché, vedi, ha prestato quasi l'intera somma a un altro uomo. È una storia un po' complicata, temo. Ma quel ti- zio, quello a cui ha chiesto i soldi in prestito, è diventato ossessionante, te- lefona giorno e notte, e noi non ne possiamo proprio più, tesoro. Volevo solo sapere se potevi aiutarci in qualche modo. — Vi farò un vaglia telegrafico — disse Bliss. — Grazie, tesoro, sei un angelo. E come va con l'epidemia, ci sono novi- tà? — No, tutto come prima. — Be', sono sicura che te la caverai, caro. Ah, a proposito, la vecchia si- gnora Frye mi ha pregato tanto di portarti i suoi saluti. Prega per te tutte le sere, come del resto anche noi. — Grazie. — Bene, caro, ora bisogna che ti lasci, non voglio farti spendere un pa- trimonio in telefonate. Dormi bene. — Sì, anche tu. — E bacio Tommy per te, vero? — Sì. Buonanotte. La mattina dopo, alle otto, Bliss andò come al solito al Centro di Con- trollo. Ferguson era appena entrato in servizio. La Stuart era alla console delle comunicazioni. — Signor Ferguson e signora Stuart, mi spiace informarvi che ho ricevu- to l'ordine di fare una cosa che a mio giudizio sarebbe estremamente peri- colosa. — Cioè, capitano? — disse la Stuart. — Una portaerei degli Stati Uniti è partita da Guam e fa rotta verso di noi. Arriverà circa alle nove. — Sì, signore. — La portaerei dovrebbe prelevare diversi passeggeri della Sea Venture e tenerli in quarantena. Credo che non si rendano conto che è del tutto im- possibile tenerli in quarantena su una portaerei, ma naturalmente non ho altra scelta che accondiscendere alla richiesta. — Infatti, signore — disse la Stuart. — Date le circostanze, è davvero increscioso che mi informiate che le nostre apparecchiature per le comunicazioni sono guaste e che non pos- siamo inviare messaggi. — Prego, signore? Bliss si portò l'indice a lato del naso. — Credo che c'entri l'antenna. An- zi, è un guasto grave, perché riceviamo messaggi sui canali di emergenza e i segnali relativi al tempo e alla navigazione, ma nient'altro, né attraverso il telefono, né attraverso la tv. Naturalmente spero che ripariate le appa- recchiature rapidamente, ma con tutta la dovuta attenzione. Mi avete capi- to, adesso? — Oh, sì, signore, credo di sì — disse la Stuart. — Bene. E voi, Ferguson? — Sì, capitano. Sulla console delle comunicazioni lampeggiò una luce. La Stuart pre- mette un pulsante e ascoltò. — Capitano, un messaggio dalla Bluefields. Dicono che il rendez-vous è previsto per le nove e tredici. Chiedono con- ferma. — Peccato che non possiamo rispondere, vero? Preparate tutto per l'im- mersione, signor Ferguson. — Sì, signore. Su tutti i ponti scoperti urlarono le sirene. Gli steward si affrettarono a mettere via le attrezzature non fisse e ad accompagnare dentro i passegge- ri. I portelli di accesso ai ponti scoperti furono chiusi ermeticamente. La zona di pesca e il laboratorio marino furono chiusi a loro volta. — Pronti per l'immersione, signore — disse Ferguson. Bliss non rispose. Alle nove in punto la Stuart disse: — Un messaggio radio dalla Blue- fields, signore. "Stiamo per effettuare il rendez-vous. Ci sentite? Aprite le telecomunicazioni, prego". — Grazie. Bliss si rivolse a Ferguson. — Li vedete? — Sì, signore. Eccoli là. — Indicò lo schermo televisivo. — Ormai si sentono già l'osso in bocca — osservò Bliss. — Sì, signore. — Saranno molto seccati di vederselo portare via. — Sì, signore. Sullo schermo era ormai ben visibile la portaerei, un'enorme sagoma grigia. Sull'albero di trinchetto lampeggiavano le luci. — Sta trasmettendo segnali con l'eliografo, capitano. — Lo vedo. Sapete interpretare il messaggio, signor Ferguson? — Sì, signore. "Preparatevi ad accogliere l'elicottero". Bliss aggrottò la fronte. — Quando avete imparato a decifrare i messag- gi dell'eliografo, signor Fersugon? — Tredici anni fa, capo. — Ecco perché le vostre nozioni sono un po' arrugginite. State tirando a indovinare, vero? — Se lo dite voi, signore. — Lo dico sì. Anzi, noi non sappiamo nemmeno che quella è una nave della marina militare americana. Potrebbe essere ostile. Credo che dob- biamo sottrarci al combattimento, signor Ferguson. Guardarono in silenzio la portaerei avvicinarsi rapidamente. Virò a mez- zo miglio di distanza, poi inviò altri segnali. Infine un elicottero si sollevò dal ponte e si diresse verso la Sea Venture. — Immersione a più dieci — disse Bliss. — In fretta, signor Ferguson. — Sì, signore. L'acqua salì finché solo dieci piedi delle strutture superiori della nave rimasero sopra la superficie. L'elicottero continuava a volare verso di loro. Attraverso la telecamera sulla coffa di trinchetto lo videro passare di scor- cio, quindi riapparire, girare due volte in cerchio sopra di loro e infine tor- nare alla portaerei. — Questa qui la pagheremo cara — disse Ferguson. — Lo so — disse Bliss. Ai vecchi tempi della Queen un primo ufficiale non avrebbe mai parlato così al capitano, ma Bliss non era un capitano e quella non era una nave. 46 Sul ponte della Bluefields il comandante Leonard W. Markey guardò su- gli schermi televisivi l'elicottero che tornava dal punto dove la Sea Venture si era inabissata. Accanto a lui c'era il comandante in seconda, Glenn Pu- gliese. L'altoparlante gracchiò: — Torno alla nave. — Ricevuto. — Che cavolo di prodezza credono di fare? — disse Markey. Pugliese, che conosceva bene il capitano, non rispose. — Appena il pilota arriva mandatelo qui che lo voglio interrogare. Anzi, no, niente. Perdio! Me ne vado nella mia cabina! Bliss aspettò mezz'ora, poi diede l'ordine di emergere. L'elicottero tornò immediatamente. — Immersione a più dieci — disse Bliss. L'elicottero vo- lò in cerchio, lasciò cadere qualcosa e raggiunse di nuovo la Bluefields. — Che roba è? — chiese Bliss. — Colorante da segnale — rispose Ferguson. — Ah, bene, capisco. Che peccato. Riaffiorarono altre due volte, l'elicottero tornò, e loro si immersero di nuovo. Bliss immaginò i messaggi che si scambiavano la Bluefields e Wa- shington. Intorno a loro si allargò una macchia gialla, che a poco a poco si lascia- rono alle spalle. Nel tardo pomeriggio l'elicottero volò di nuovo sopra la Sea Venture e buttò altro colorante. Dopo una cena consumata in santa pa- ce, Bliss tornò al Centro di Controllo. Era di servizio l'ufficiale Davis. Le stelle brillavano sopra l'oceano. — Immersione a meno trecento, signor Davis — disse Bliss. — Trecento, signore. — Il giovane gli lanciò un'occhiata piena di ammi- razione. — Tenetela a quella profondità fino alle venti di domani. Registrate la cosa sul giornale di bordo. — Sì, signore. E adesso stava contando una serie di scatole in un ripostiglio. Dio santo, quand'era successo, quell'episodio? Probabilmente nel '79 o nell'80, l'anno in cui era una matricola. Si trattava di un lavoro estivo, un'autentica noia, ma le scatole adesso apparivano assolutamente reali e lui riusciva perfino a leggere la scritta sul cartone marrone: "Disaccoppiatore TEKTRONIX, Modello 105, 4920-29". Non aveva più pensato a quel lavoro per anni e anni e certo non aveva tenuto a mente la scritta sulle scatole, ma sapeva che era giusta. Vedeva la propria mano che impugnava la matita, e il bloc- notes, e le particene di polvere che danzavano nella luce proveniente dal- l'unica, alta finestra. Adesso i corpuscoli luminosi gli passavano accanto e non erano più par- ticelle di polvere, e lui avvertiva nelle narici un odore di bagnato, un odore netto e freddo di ambiente subacqueo, familiare come quello di uova e pancetta, e sentiva le proprie mascelle aprirsi e chiudersi mentre qualcosa gli arrivava vicino. E ora nell'acqua pura e incolore come l'aria vedeva un pesce venirgli incontro: il pesce aveva le squame che parevano una corazza multicolore e si girò a guardarlo con un unico occhio tondo e fesso, per poi guizzare via, fino all'altro capo della vasca. Quando si svegliò, Newland capì che si era addormentato. Sentiva male in tutto il corpo, Fuori era buio, e lui aveva una gran sete. Riuscì a togliersi dal sedile di pilota e a sedersi sulla carrozzella; percorse con essa il corri- doio tra i sedili, trovò un Doccione di acqua potabile e bevve. Pensò che forse avrebbe dovuto mangiare qualcosa. Vide gli armadietti con le prov- viste di cibo, sopra i forai a microonde, ma erano troppo in alto per lui. 47 Il comandante Leonard W. Markey era un uomo biondo e robusto. Ave- va gli occhi celesti, le ciglia quasi bianche e la pelle così chiara che al sole si bruciava e si spellava. Sarebbe stato adatto a navigare nell'Atlantico del nord o nell'Artico e quindi, come faceva per abitudine e tradizione, la ma- rina lo aveva assegnato alla Flotta Asiatica. Markey si era diplomato ad Annapolis diciassette anni prima, classifi- candosi centoquarantunesimo tra i diplomando della sua sessione. Adesso, a trentanoye anni, sapeva di avere fatto carriera un po' troppo lentamente, e di non poter sperare in ulteriori promozioni; a meno che non fosse scoppia- ta una guerra calda, prospettiva alla quale, da uomo ragionevole, non ane- lava certo. Si considerava un buon ufficiale; la primavera precedente nelle manovre tra le portaerei che trasportavano elicotteri, la Bluefields si era classificata seconda assoluta. In complesso era soddisfatto della sua vita e della sua carriera; contava di prestare ancora servizio per alcuni anni senza ottenere particolari riconoscimenti, e di andare poi in pensione, stabilen- dosi con la moglie e i figli a Oahu. La missione attuale si era presentata subito abbastanza insolita da risul- tare interessante, ma certo nessuno aveva previsto che si potesse trasforma- re in una sfida. La ricerca della scialuppa scomparsa era una faccenda di ordinaria amministrazione; gli elicotteri da ricognizione tornavano ogni giorno senza nulla da riferire, e non c'era da stupirsene: se qualcuno si tro- vava al timone della scialuppa, questa ormai poteva essere da qualsiasi parte nel raggio di mille miglia. Non era quello il vero problema di Mar- key: altre navi e altri aerei partiti da Guam cercavano la scialuppa, e alla fine l'avrebbero trovata. Il suo problema, invece, era portare in salvo i pas- seggeri vip della Sea Venture. In un primo tempo aveva creduto che quelli della SV si comportassero in modo strano per una sorta di sciocco abbaglio, ma adesso cominciava a considerare la cosa con occhi differenti. Non si trattava di una missione di aiuto-ai-civili, come trasportare a casa da Yalta il cane di Roosevelt duran- te la seconda guerra mondiale; si trattava, pensò, di combattere una batta- glia navale contro un avversario che cercava di prenderti per i fondelli. Purtroppo non poteva far atterrare un elicottero sul ponte della SV, per- ché ogni volta che ci provava, la dannata nave entrava in immersione. Con la ricognizione effettuata dagli elicotteri era in grado di localizzarla quan- do riaffiorava, ma non poteva sparare un colpo, né sganciare cariche di profondità, né fare alcun'altra cosa che potesse nuocere ai civili; e se l'eli- cottero provava ad avvicinarsi, la Sea Venture regolarmente si inabissava. Doveva pur esserci una soluzione, si era detto. E c'era. Markey l'aveva trovata e si sentiva soddisfatto di se stesso. Per il momento, decise Bliss, la cosa migliore sarebbe stata navigare parzialmente in immersione la notte, quando le probabilità di essere avvi- stati erano praticamente nulle, e riaffiorare durante il giorno. L'unico modo per sottrarsi alla portaerei sarebbe stato di navigare completamente im- mersi per un tempo indefinito, ma Bliss non poteva farlo perché le sostan- ze chimiche che depuravano l'aria non potevano durare per l'eternità. An- che il cibo prima o poi avrebbe costituito un problema: le provviste erano destinate a durate soltanto il tempo necessario ad arrivare a Manila. Quando, giovedì alle otto, Bliss entrò nel Centro di Controllo, il sole era già alto in un cielo parzialmente rannuvolato. Salutò Ferguson e la Stuart, guardò il giornale di bordo, poi il barometro. — Ancora nessuna traccia dei nostri amici? — chiese. — Non ancora. Anzi, scusate, adesso credo di vederli. Nel monitor della coffa di trinchetto si distingueva una forma scura che beccheggiava vicino all'orizzonte. — Sì, sono loro — disse Bliss. — È sta- to chiuso tutto? — Sì, signore, come avete ordinato. — Nessuna lamentela da parte dei passeggeri? — Oh, sì. I quattro sommozzatori si radunarono sul ponte di volo. Sui monitor del ponte di comando Markey li guardò salire a bordo dell'elicottero che tra- sportava il loro equipaggiamento. Il portello si chiuse. — Charlie Hatrack Four Niner, tutto pronto per il decollo — disse l'al- toparlante. — Ricevuto. Dopo un attimo le due serie di pale cominciarono a girare; il goffo appa- recchio si sollevò dal ponte, volò a punto fisso, virò a mezz'aria e si diresse verso la Sea Venture. — Immersione a più dieci, signor Ferguson. — Sì, signore. L'acqua inondò un ponte dopo l'altro. L'elicottero passò sopra la nave, poi virò e tornò indietro; poco dopo, alcune sagome scure piovvero in ma- re da esso. — Che cos'era? — chiese secco Bliss. — Sommozzatori, signore. Quattro. — No, intendevo quell'altra cosa... era un gommone? — Credo di sì, signore. — Cosa stanno macchinando? — mormorò Bliss, e si rosicchiò un'un- ghia. — Un gommone. Si attaccheranno a noi... Dio santo! Emersione, si- gnor Ferguson, in fretta! — Come, signore? Sì, signore. — Ferguson toccò i comandi. Sullo schermo di osservazione videro il mare ritirarsi; poi il ponte delle comuni- cazioni affiorò dall'acqua e quando l'obiettivo delle telecamere tornò nitido videro della spuma bianca ribollire sul ponte. Quattro figure barcollanti fu- rono sbattute di lato. Sugli schermi adesso erano visibili il gommone e quattro teste scure che ballonzolavano tra le onde a pochi metri dal fianco sinistro. I sommozzato- ri e il loro gommone a poco a poco rimasero indietro rispetto alla Sea Ven- ture. L'elicottero girò in cerchio sopra di loro. Poi volò a punto fisso e calò un gancio di sollevamento. Dalla Sea Venture guardarono un sommozzato- re dietro l'altro venire issato a bordo dell'elicottero. Il gommone lo lascia- rono in mare. Poi l'apparecchio si allontanò, dirigendosi verso la portaerei. Ferguson era chiaramente sconcertato. — Capitano, permettete che vi chieda... — Avevano intenzione di attaccarsi a noi con un cavo. Li avremmo ri- morchiati dovunque fossimo andati. Poi, appena fossimo emersi, ce li sa- remmo trovati a bordo. Sarebbe stata la fine. — Sì, signore. — A Ferguson brillavano gli occhi. Bliss distolse lo sguardo. Non era fiero di se stesso, e l'ammirazione che leggeva sul viso dei suoi ufficiali lo faceva sentire come un impostore. Quella tattica aggressiva, da temerario, non era proprio nel suo stile. Gli era rimasto impresso il discorso che Hartman aveva fatto su Nelson, e im- maginava Nelson che alla battaglia di Copenhagen si portava il cannoc- chiale all'occhio da cui non vedeva e affermava di non riuscire a leggere i segnali. Poteva andare bene per Nelson, ma non per lui. Dopo la battaglia Nelson era stato nominato visconte; lui invece avrebbe perso il posto, e forse la vita. Quando l'elicottero tornò con il suo equipaggio demoralizzato, Markey disse al comandante in seconda: — Perdio, chi è il capitano, là? — Un civile, credo. È probabile che fosse nella marina mercantile, pri- ma. — Be', dove ha preso tutta quella faccia tosta? — Markey si sedette al tavolo delle carte nautiche. — Vi rendete conto che mi tocca comunicare al comando supremo che abbiamo fatto cilecca un'altra volta? — Non riusciranno a cavarsela ancora per molto tempo. — Ma chi li fermerà? — Markey guardò il tavolo con aria cupa. — Chiamate San Francisco. Dite loro che ho bisogno della pianta dettagliata della Sea Venture, una pianta che descriva fin la più piccola rotellina. Que- sto qua è un lavoro più duro di quanto pensassi. 48 Dopo ventiquattro ore il facsimile della pianta della Sea Venture comin- ciò a uscire dalla macchina. Il mucchio di fogli era alto quasi mezzo metro. Markey consegnò il tutto a Ed Jensen, l'ufficiale di macchina, e disse: — Trovate qualcosa. Dopo cena Jensen andò da lui con un tabulato in mano. — Ecco quello che cerchiamo. Sappiamo che una delle loro scialuppe è scomparsa: ciò significa che c'è un condotto di lancio vuoto. — Indicò la pianta. — Questo passaggio è chiuso dal portello della scialuppa stessa, quando essa è dentro il condotto. Qua c'è un portello a tenuta stagna. Biso- gna penetrare lì e forzare questo portello. Dopo non potranno entrare in immersione. Se li prendiamo di sorpresa possiamo arrivare fino al ponte, quello che chiamano Centro di Controllo. E questo è tutto. — Abbastanza ingegnoso — disse Markey. — Sì, potrebbe funzionare. Il tenente Avery N. Hamling jr. aveva quarantasette anni ed era ancora il migliore sommozzatore del suo gruppo. Suo padre, capitano di fregata del- la marina militare e ottimo nuotatore, gli aveva insegnato fin dall'età di quattro anni a sforzarsi fino ai limiti delle possibilità, e la Sezione Speciale Subacquea gli aveva dato l'occasione di farlo. Hamling si manteneva in forma e manteneva in forma i propri uomini per poter intervenire pronta- mente ogni volta che in marina gli affidavano un'incombenza particolar- mente rischiosa e difficile. Trovò Markey, Pugliese e Jensen nella sala delle riunioni. — Mi avete mandato a chiamare, capitano? — Sì. Sedetevi, Hamling, che vi spiego di cosa si tratta. Mostrategli quei tabulati, Ed. Jensen gli allungò attraverso il tavolo una serie di fogli. — Qui ci sono la pianta e il prospetto di uno dei condotti per le scialuppe della Sea Ventu- re. Come potete vedere, è un cilindro del diametro di quattro metri e mez- zo e della profondità di quasi dieci metri. Qui, sei metri più indietro rispet- to all'imboccatura del condotto, c'è l'entrata passeggeri, che porta a un bre- ve corridoio di due metri e mezzo in fondo al quale c'è un portello a tenuta stagna. È lì che vorremmo andaste voi. Hamling studiò lo schema. — Il portello può essere aperto manualmente da chi arriva dalla parte del condotto? — Sì. — Jensen gli passò un altro disegno. Hamling lo guardò, poi tornò a concentrare l'attenzione sulla pianta del condotto. — Dov'è la linea di galleggiamento? — chiese. — Qui, proprio in fondo al condotto. — E non c'è alcun genere di appiglio a cui afferrarsi? — Non nel condotto. Riteniamo che ci sia un corrimano nel breve corri- doio. Purtroppo in pianta non è segnato. Dovrebbe esserci, ma non sap- piamo dirvi quanto sia vicino all'entrata. Hamling fissò i disegni, cercando di immaginarsi concretamente le cose che rappresentavano. — Il portello della scialuppa si apre verso l'interno o verso l'esterno? — chiese. — Domanda intelligente — disse Markey, alzando un sopracciglio. — Dov'è la pianta, Ed? — Un attimo. — Jensen prese tutti i tabulati e li sfogliò. — Ecco qui. — Mostrò agli altri la pianta e il prospetto della scialuppa. — Il portello nel corridoietto si apre verso l'interno, e il cardine è sulla sinistra, guardando il condotto. Hamling annuì. — Va bene. Quindi, se ci sono appigli, sono sul lato de- stro. Altra domanda: questo condotto è a dritta o sul fianco sinistro? — A dritta — disse Markey. Prese una fotografia da una pila di carte e la mostrò a Hamling. — L'elicottero ha scattato questa con il teleobiettivo. Vedete il condotto vuoto, qui? Hamling studiò la foto. — Quando è stata fatta? — Stamattina. — Sembra che le onde vengano da dritta. Ogni volta che onde del gene- re colpiscono il condotto non sarà certo uno scherzo trovarcisi in mezzo. Che probabilità ci sono che il tempo sia migliore fra un giorno o due? — Nessuna — disse Markey. — Tra due giorni è previsto il tifone Tony. Rimasero un attimo in silenzio. — Se dipendesse solo da me — conti- nuò Markey — aspetterei che il tempo fosse decente. Ma a bordo della Sea Venture ci sono alcuni civili che hanno impegni urgenti. Il comando su- premo vuole che li preleviamo subito, anzi, prima che subito. — Quando dovremmo partire? — Alle quattro di domattina. Hamling rimase un attimo in silenzio. — Si può fare. — Sicuro? — chiese Markey. — Sì. — Bene, adesso veniamo all'altra parte del problema. Non ci si può av- vicinare alla Sea Venture con la luce del giorno, e non si può usare un mi- nisottomarino perché potrebbero sentire il rumore del motore. La soluzione migliore è che prima dell'alba vi caliamo il più vicino possibile alla posi- zione in cui dovrebbe trovarsi la Sea Venture al momento dell'emersione. In parte questa posizione ci toccherà tirare a indovinarla. Quanto vicino dovreste essere per fare quella nuotata sott'acqua? — Entro un raggio di otto chilometri. — Va bene, credo che ci riusciremo. Se però fallissimo, voi e i vostri uomini dovreste restare in acqua attaccati al gommone finché non verremo a ripescarvi dopo il crepuscolo. Sarà una giornata lunga. — Capisco. 49 Nel cono di luce gialla proiettato dall'elicottero, i cinque sommozzatori vedevano soltanto il gommone ballonzolare sulle onde, e l'acqua grigia in- torno ad esso: il resto del mondo era qualcosa di vuoto e nero. Nuotarono fino al gommone e vi salirono su; l'elicottero stava riprendendo quota. La sua luce brillò ancora un attimo, poi le tenebre si strinsero sempre più fitte intorno ai cinque. Quando il chiarore dell'alba si diffuse nel cielo striato d'argento, Hamling, aiutato da Martinez e Orr, si alzò sul gommone bec- cheggiante e cominciò a scrutare l'oceano con il binocolo. Per un pezzo non successe niente. — Eccola — disse poi. All'orizzonte spuntarono dall'acqua le strutture superiori della Sea Venture. — Quant'è lontana? — Un momento: non è ancora affiorata del tutto. — Hamling aspettò. E alla fine disse: — Otto chilometri, forse nove. — Abbassò il binocolo e lo infilò nel sacchetto fissato alla cintura. — Volete nuotare un po' o preferite gingillarvi tutto il giorno aspettando di essere raccolti? Gli uomini si aiutarono l'un con l'altro a mettere l'autorespiratore ad aria, controllarono i regolatori, strofinarono l'antiappannante sulla maschera. Orr e Martinez aprirono le valvole delle celle di flottazione. Mentre il gommone affondava, i cinque uomini scivolarono in acqua. Dopo quattro ore Hamling affiorò in superficie e ci stette abbastanza a lungo da buttare un'occhiata alla Sea Venture e regolare la linea di fede sulla sua bussola; poi tornò a un metro e mezzo di profondità. Un'ora dopo, lo scafo della Sea Venture si stagliò enorme davanti a loro. Nuotarono ver- so poppa. Hamling affiorò ancora una volta e sbirciò l'apertura scura subito sopra la linea di galleggiamento. Ogni volta che un'onda s'infrangeva contro la nave, l'acqua grigia spu- meggiava dentro il condotto. Hamling controllò con il cronometro il ritmo delle ondate; ciascuna durava sei secondi, e prima che arrivasse quella successiva il condotto era sufficientemente vuoto. Cercò di immaginare cosa succedeva dentro di esso. L'acqua si rove- sciava all'interno obliquamente, sbatteva contro il lato di prua, riempiva l'entrata passeggeri, che era aperta, poi rimbalzava dal retro del condotto e veniva espulsa con violenza. La direzione dell'onda li favoriva, ma l'acqua entrava con la velocità di un ottovolante. Bisognava misurare perfettamen- te la posizione ed essere molto tempisti, se non si voleva tornare fuori con braccia e gambe rotte o una commozione cerebrale. Hamling prese un cavo dalla cintura, lo srotolò e ne porse un capo a Martinez, facendo segno agli altri di attaccarsi. Girò le spalle e si avvicinò a nuoto allo scafo. Sopra la propria testa vide le linee grigio-perla del ven- tre dell'onda che entrava. Si lasciò catturare dal ritmo. Si immaginò nell'at- to di sollevarsi e farsi trasportare dall'acqua. Non pensò neanche un attimo di poter fallire. Contò i secondi, poi si girò su un fianco e si tirò su con tre potenti brac- ciate. Si sentì scagliare dentro: nell'accecante nuvola di spruzzi allungò una mano, afferrò un appiglio liscio proprio nel punto dove calcolava che fosse, e si tenne stretto con tutte le forze mentre il riflusso cercava di risuc- chiarlo fuori. Ansimante ed euforico, entrò nel corridoio passeggeri e legò il cavo al corrimano. Quando usci l'ondata successiva, diede uno strattone al cavo. Dopo un attimo lo sentì allentarsi, e lo tirò con entrambe le mani più in fretta che poté. Martinez, con la maschera di traverso, entrò dal- l'imboccatura. Quando furono tutti dentro, Hamling andò al portello stagno in fondo al piccolo corridoio. La ruota di comando era al centro. Hamling la girò in senso antiorario. In un primo tempo sembrò rimanere bloccata, poi cedette. Hamling aprì. Mentre gli altri si toglievano l'equipaggiamento, Martinez ti- rò fuori dalla scatola degli attrezzi un cuneo di gomma e lo cacciò sotto il portello con alcuni colpi di maglio. Esaminò il cuneo con la mano e alzò pollice e indice nel segno di "Okay". 50 A mezzogiorno, quando il turno cambiò, Bliss passò dal Centro di Con- trollo per darsi un'occhiata intorno prima di pranzare. Ferguson era appena stato rimpiazzato da Womack, e l'ufficiale addetto alle comunicazioni era adesso Peter Gann. A mezzogiorno e un quarto Bliss stava per andarsene, quando Womack drizzò la schiena e disse: — Capitano, non ci crederete, ma riceviamo un altro segnale relativo a un portello di scialuppa. Per di più si tratta sempre della cinquantatré. Bliss rimase zitto. E adesso? Che qualcuno fosse uscito attraverso il condotto vuoto? Che senso avrebbe avuto? E se... Dio santo, e se qualcuno fosse entrato? — Vedete se vi riesce di chiudere il portello — disse. Womack scosse la testa. — Risulta tuttora aperto. E se fosse solo un guasto? — No, non è un guasto. Provate ad aprirlo, poi a chiuderlo. — Ricevo un segnale di stato: apertura porta. — Chiusura porta. — Dopo un attimo Womack si girò verso Bliss. — Sempre lo stesso segnale. Non è chiusa. Bliss guardò l'orologio. Da quanto tempo era arrivato il segnale? Cinque, dieci secondi? Se c'erano veramente alcuni estranei laggiù, che cosa stava- no facendo, adesso? Sotto le mute i cinque uomini indossavano magliette e pantaloncini bianchi. Tirarono fuori dalla borsa le Colt della marina e le fissarono alla cintura. Martinez restò di guardia all'entrata della sezione scialuppe; gli al- tri, con Hamling in testa, si incamminarono a passo sostenuto lungo il cor- ridoio. — Immersione a più uno e diciassette, signor Womack. — Più uno e diciassette? Sì, signore. — Dopo un attimo disse: — Capi- tano? Se quel portello è davvero aperto, inonderemo il ponte delle scialup- pe. — Lo so — disse Bliss. Quando arrivò l'ondata successiva, tre-quattro centimetri di acqua entra- rono nell'area dove Martinez stava di guardia. Invece di rifluire fuori, l'ac- qua cominciò a salire. Di colpo si sentì il frastuono delle sirene d'allarme. Martinez vide la porta stagna scendere e fece appena in tempo a prendere un autorespiratore e buttarvelo sotto. Nel corridoio le lampade fluorescenti si spensero di colpo e furono sosti- tuite dalle luci di emergenza, che diffondevano un cupo chiarore giallo. I battelli di salvataggio piovvero dal soffitto e dondolarono appesi alle cor- de. Davanti ai quattro sommozzatori una porta stagna stava scendendo. Hamling si mise a correre verso di essa, sguazzando nell'acqua bassa, ma non arrivò in tempo. L'acqua raggiunse il portello chiuso e continuò a sali- re. — Fatemi sedere qui signor Womack, per favore — disse Bliss. — Voi e il signor Gann potete guardare intanto gli schermi della coffa di trinchet- to? — Bliss si sedette alla console e chiese di vedere lo stato del ponte del- le scialuppe. I portelli stagni erano stati abbassati su entrambe le estremità del corridoio Y, dove questo intersecava corridoi trasversali, ma la porta che dava accesso alla sezione scialuppe non era chiusa. Si trattava questa volta di un vero guasto, o l'avevano bloccata con qualcosa? Il livello del- l'acqua nel corridoio era poco più di sessanta centimetri. — Elicottero in vista, capo — disse d'un tratto Womack. Bliss, paradossalmente, provò di colpo un senso di sollievo. Quell'elicot- tero significava se non altro che lui non aveva preso un granchio enorme. In immersione, la Sea Venture somigliava a una balena, una sagoma massiccia e all'apparenza sgraziata quanto Bliss stesso. Forse soltanto Bliss si rendeva conto fino in fondo di quanto delicato fosse il suo assetto e di come sarebbe stato facile farla ballare. Calcolò mentalmente alcune cose. La sezione isolata del corridoio era lunga ottanta piedi e larga dieci, quindi era ottocento piedi quadrati che, moltiplicando per due, facevano milleseicento piedi cubici. Il che signifi- cava circa cinquanta tonnellate d'acqua. Bastavano? Probabilmente sì, ma Bliss non voleva correre rischi. Allungò la mano e regolò il comando della profondità su uno e ventisei. La Sea Venture scese piano di un altro piede. Adesso i sensori mostravano circa un metro d'acqua nel corridoio. Bliss alzò gli occhi verso i monitor. Quella macchiolina che era l'elicot- tero appariva chiaramente visibile. Con il comando manuale Bliss annullò il dispositivo di blocco e comin- ciò a pompare acqua fuori dai serbatoi d'assetto del fianco sinistro. Osser- vò il chinometro e sentì la nave inclinarsi quasi impercettibilmente, sotto i suoi piedi. Un grado. Due. Molto di più non si poteva, perché un mucchio di passeggeri anziani sarebbero caduti, rompendosi il femore. Regolò di nuovo il comando della profondità, mettendolo a più centoventinove. La Sea Venture cominciò a salire. — L'elicottero, signore! — disse Womack. Bliss buttò un'occhiata al monitor. L'apparecchio era vicino, ma c'era ancora tempo. — Dobbiamo emergere, prima di poterci immergere di nuo- vo — disse. Sugli schermi del ponte delle scialuppe vide un torrente d'ac- qua che si riversava nell'oceano. La luce verde sul pannello che indicava la porta della sezione scialuppe diventò di colpo rossa. L'ostacolo doveva es- sere stato trascinato via. Ancora una volta Bliss usò il comando manuale e fece alzare tutte le porte stagne. Il torrente continuava. Sugli schermi Bliss vide cinque uomini che si dibattevano nell'acqua. Quando il flusso impe- tuoso si fermò, abbassò di nuovo le porte e regolò il comando della pro- fondità su più dieci. La Sea Venture si immerse lentamente lasciando fuori solo le strutture superiori, mentre l'elicottero si avvicinava. Pochi minuti dopo Bliss ebbe la soddisfazione di vedere l'apparecchio calare un cavo per raccogliere i sommozzatori. 51 La mattina presto chiamarono Bliss dall'ospedale e gli dissero che il dot- tor McNulty aveva ripreso conoscenza. Bliss passò da lui un'ora dopo e lo trovò indebolito e confuso. — Come vi sentite, dottore? — Mi fa male il naso — disse McNulty. — Adesso so cosa si prova. Sognavo. Ho sognato... — Chiuse gli occhi. Più tardi, quello stesso giorno, Bliss gli fece visita di nuovo; McNulty appariva più sveglio. — Dottore, abbiamo sentito molto la vostra mancanza. Mentre eravate ammalato, abbiamo giocato a gatto col topo con una portaerei che vorreb- be prelevare i nostri passeggeri vip... — Non possono farlo. — Lo so, e finora sono riuscito a tenerli lontani, ma è una storia che non può durare in eterno. L'unica nostra speranza è di liberarci in qualche mo- do del parassita nei prossimi due o tre giorni. Se vi viene in mente qualco- sa... McNulty scosse la testa, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Imba- razzato, Bliss se ne andò. Paul Newland capì che la fine non era lontana. Si sentiva ormai molto debole, e ogni tanto scivolava in un confuso stato di semicoscienza; ma negli intervalli era abbastanza lucido. Aveva scritto un biglietto a Hal e un altro a Olivia Jessup. Aveva ripercorso con la memoria tutta la sua vita, come dicevano che facessero le persone in procinto di annegare, e si era ri- conciliato con essa. Forse certe scelte non le avrebbe ripetute, oggi, ma e- rano state le scelte migliori che potesse fare all'epoca in cui le aveva fatte. Era davvero semplicissimo morire; forse avrebbe preferito non essere completamente solo, ma non era poi così importante. Non si aspettava niente, dopo la vita: era convinto che la sua personalità fosse costituita da una serie irripetibile di forme d'onda che dopo la dissoluzione del cervello si sarebbero perse nel rumore di fondo dell'universo. Era contento di aver potuto usare quel corpo e quella mente per sessantaquattro anni; già tanto tempo prima aveva pensato che usarli per l'eternità non era affatto de- siderabile. Adesso era sicurissimo che fosse stato John Stevens a metterlo sulla scialuppa, forse dietro ordine del gruppo di Bronson. Non sentiva nessuno spirito di vendetta, solo una sorta di malinconico rammarico. Il mondo a- vrebbe continuato a girare senza di lui. Probabilmente la Sea Venture non avrebbe avuto lunga vita; invece il programma L-5 magari sì. Era un bene o un male? Non lo sapeva più. Si svegliò da uno dei suoi periodi di assenza e capì che l'ora era venuta. Non rimpiango niente, pensò, e scivolò nel lungo buio. A metà pomeriggio forti ondate investirono la Sea Venture da est; il ba- rometro stava scendendo. Alle cinque Bliss ordinò che i ponti superiori venissero sgombrati e che la nave entrasse in immersione fino a cinquanta piedi. Dopo cena Hartman andò con Bliss e Davis nel Centro di Controllo. Sentiva sotto i piedi un lieve ma percettibile rollio. — Posso chiedervi perché a questa particolare profondità? — Problemi di navigazione — disse Bliss. — Procederemmo molto me- glio se scendessimo ancora, ma più giù andiamo, più ci spostiamo a nord, e siamo già molto più a nord di dove saremmo dovuti essere. Permettete un attimo, Davis? — Sì, signore. L'ufficiale si fece da parte. — Noi siamo qui — disse Bliss, indicando il puntolino rosso al centro del video. Premette un bottone. — Questa è la rotta prevista per le prossi- me ventiquattr'ore. Come vedete, passeremo tra Rota e Tinian, ed è già ab- bastanza brutto, ma più a nord le correnti sono un vero incubo, e c'è il ri- schio di venir trascinati in una sorta di mini-gorgo a sud di Kiushu. — Quello è il guaio di navigare seguendo le correnti, vero? — Già, verissimo, e sarebbe molto più sicuro andare in crociera su que- sti mari d'estate, ma ci perderemmo il flusso turistico, per cui... — Be', se non altro la portaerei non ci troverà mai, con questo tempo. È già qualcosa. — Sì — disse Bliss, cupo. Giocò a scacchi con Hartman e andò a letto, ma non dormì; rimase sdraiato a fissare il ripetitore di guida inerziale illuminato, di fronte al let- to. Dopo un'ora e mezzo il rollio era molto peggiorato. Bliss prese il tele- fono. — Centro di Controllo. — Womack, fatela scendere a settanta piedi. — Sì, signore. Ben presto il rollio diminuì. Il fatto che a quella profondità lo si avver- tisse significava che in superficie le onde dovevano essere alte trenta metri. Bliss si chiese dove fosse la portaerei e se fosse riuscita ad allontanarsi dalla traiettoria del tifone. Là sotto erano come ciechi e sordi; avevano soltanto la guida inerziale. Là in alto c'era un inferno di onde e vento. Bliss era consapevole di avere fatto tutto ciò che umanamente si poteva fare, e anzi si era aspettato di meno da se stesso. Ma la sua fatica non era servita a niente, perché non era riuscito a isolare il parassita e non sapeva come ucciderlo. Per un pezzo si era aggrappato all'irragionevole speranza che il dottor McNulty, una volta ristabilitosi, escogitasse qualcosa. Ora non poteva più illudersi. Di lì a venti ore il rifornimento di sostanze chimi- che si sarebbe esaurito e non sarebbero più potuti entrare in immersione; poi l'elicottero avrebbe atterrato e prelevato i passeggeri: scacco matto in una mossa. Alle cinque del mattino si alzò, si fece la barba, si vestì e andò al Centro di Controllo. Parlò con le guardie di sicurezza sulla porta, attraversò l'anti- camera ed entrò. — Potete andare, Davis. Dormite un po' o fate qualunque altra cosa vi garbi. — Come, signore? — Ho detto che potete andare, siete dispensato dal servizio. Tornate alla vostra cabina. È un ordine. Il giovane si alzò lentamente e uscì dalla stanza. Bliss si avvicinò all'uf- ficiale addetto alle comunicazioni e gli batté la mano sulla spalla. L'uomo alzò gli occhi e si tolse la cuffia. — Siete dispensato dal servizio — disse Bliss. — Potete andare. Quando entrambi furono usciti, Bliss chiuse a chiave la porta e si sedette per l'ultima volta al posto di comando. Mai nella sua carriera professionale aveva dovuto prendere una decisio- ne come quella. Non era affatto nel suo stile; lui era un amministratore, non uno di quei capitani yankee che sedavano gli ammutinamenti con un punteruolo per funi o conducendo la nave in mezzo a una burrasca intorno a Capo Horn. Ma ormai aveva l'acqua alla gola. Non c'erano più due alter- native: solo una. Guardò sulla console la visualizzazione della guida inerziale. Erano po- co più di tre miglia a est di Rota. Aspettò e guardò il cronometro, poi pre- mette i bottoni per far emergere la nave. Benché fosse un'imponente bagnarola, si sarebbe sgretolata come un ca- stello di carte se lui l'avesse incagliata con quel tempo. Immaginò le para- tie crollare, e l'acqua invadere come un pugno grigio i corridoi. Mentre aspettava avvertì una vaga insoddisfazione, l'idea di qualcosa di incompleto. Peccato per la radio; gli sarebbe piaciuto chiamare sua moglie, giusto per dirle addio. 52 Quando l'enorme nave emerse, le onde si riversarono su di lei come montagne. La Sea Venture s'inclinò e vibrò, e la sua struttura massiccia mandò scricchiolii. Le tazze caddero dai tavoli, i vasi dai supporti. Dapper- tutto le persone si svegliarono di colpo e si interrogarono a vicenda, sba- lordite. Tutto, intorno a loro, tremava furiosamente, come se ci fosse un terremoto. Nessuno aveva mai sentito suoni come quelli che si udivano o- ra. Poi dagli altoparlanti nei corridoi uscì una voce. — Signore e signori, sono il capitano Bliss. Abbiamo incontrato un po' di turbolenza emergendo per evitare un ostacolo sommerso. Fra poco scenderemo a una profondità in cui saremo al sicuro. Non c'è motivo di al- larmarsi, per cui le scialuppe non verranno usate. Ripeto, le scialuppe non verranno usate. Grazie e buonanotte. Malcom si alzò e cominciò a vestirsi. — Che cosa fai? — chiese lei. — Se devo annegare, non voglio annegare a letto. Dopo un attimo lei rise. — Vieni qui un attimo, prima — disse. — Sai, mai come ora mi sono resa conto di quanto ti amo. Emily e Jim erano seduti e si guardavano in faccia. Jim era pallido e a- veva la fronte imperlata di sudore. — Em — disse, — Scusami, sai... Scu- sami di tutto. — Non devi scusarti — disse lei. — Forse... — Cosa? — Forse questo è il momento buono per perdonarci l'un l'altro. McNulty si svegliò con una sensazione di panico. In un primo tempo non capì dove si trovava. La stanza era buia, a parte il liève chiarore di un abat-jour. Il letto tremava sotto di lui, e dalle pareti arrivavano suoni cupi e sordi. Si alzò, raggiunse barcollando l'interruttore della luce e prese i pantaloni dall'armadio. Nel corridoio incontrò Hal Winter, che era ancora bendato. — Cosa succede, dottor McNulty? — Non lo so — disse McNulty. — C'è da qualche parte una sedia a ro- telle? Non sono sicuro di poter camminare. Winter gli portò una carrozzella motorizzata e lo aiutò a sedersi. — Do- ve state andando? — Al Centro di Controllo. — Vengo con voi. Nell'anticamera trovò due secondi, Ferguson e Davis, il primo ufficiale di macchina Walter Taggart, parecchie guardie di sicurezza e uno stuolo di altre persone. Pochi minuti dopo entrarono Ben Higpen, Yetta Bernstein e il capitano Hartman. Ferguson stava parlando al telefono. Dopo un attimo mise giù l'apparec- chio e si rivolse a McNulty. — Non vuole ascoltare — disse. — Chi non vuole ascoltare? — Il capitano. Si è chiuso lì dentro. — Lasciate che gli parli io. Ferguson si alzò e spostò la sua sedia per fare posto a McNulty. — Basta che premiate il bottone. L'altoparlante è acceso. McNulty si avvicinò sulla sua sedia a rotelle. — Capitano, sono McNulty. Vi spiace dirmi che cosa state combinando? — Mi dispiace, dottore — disse Bliss — ma non avevo scelta. Prima o poi ci avrebbero costretto a navigare in superficie, o ci avrebbero impedito la navigazione e avrebbero prelevato i passeggeri. Non abbiamo la possibi- lità di liberarci del parassita, lo sappiamo bene entrambi. L'unica è portar- celo dietro in fondo al mare. Mi dispiace moltissimo. Per favore dite agli altri che non provino a fare irruzione qui dentro: sono armato e se entrasse- ro sparerei. A un gesto di Ferguson, McNulty riattaccò. — Signor Taggart — disse Ferguson — potreste intervenire sui comandi bloccandoli? — Non in tempo per scongiurare la catastrofe. Secondo me non ci resta che forzare la porta e correre i nostri rischi. Forse è un bluff e non è vero che ha la pistola. — E se invece fa sul serio? Se sparasse qualche colpo contro il quadro comandi? — Ferguson riprese in mano il telefono. — Capitano, vorremmo parlare un po' di questa faccenda. Aprite il portello, per favore? — Neanche per sogno. Sapete tutti quanti che ho ragione. McNulty si prese la testa fra le mani. — Sì, ha ragione — mormorò. Gli passarono per la mente immagini di un ambiente acquatico; gli parve di sentire il freddo, e la bocca del pesce che sfiorava la sua faccia morta... Di colpo drizzò la schiena. — Dio santo — disse. — Un pesce! — Tranquillizzatevi, dottore — disse Ferguson, posandogli una mano sulla spalla. — No, no, non capite... Fatemi parlare con il capitano. — Afferrò il tele- fono e disse: — Signor Bliss, c'è una cosa che non sapete. — A dire il vero, ci sono un sacco di cose che non so, ma spero di sa- perne di più fra breve. McNulty continuò a parlare. — Vi ricordate che dopo che Randy Geller fu colpito da collasso ci fu un intervallo di tre ore prima che la seconda vit- tima avvertisse un capogiro? Ci fu una pausa. — No, non ricordo. E allora? — Geller fu trovato accanto all'acquario, nel laboratorio marino. Un pe- sce, capite? Un pesce! Seguì un momento di silenzio. — Intendete dire che...? — È in un pesce che il parassita trascorse quelle tre ore. Dev'essere stato per forza così. Non è scritto da nessuna parte che possa vivere soltanto al- l'interno di un organismo umano. Se ci fate affondare, non ucciderete il pa- rassita, ma lo lascerete libero in giro per il pianeta. Dopo una lunga pausa Bliss disse: — Immersione a cento piedi. A poco a poco la nave si stabilizzò e gli scricchiolii si spensero. La porta si aprì e Bliss uscì. Aveva il viso pallido e gli occhi cerchiati di rosso. — Signor Ferguson, sostituitemi voi. — Sì, signore. — Passandogli accanto Ferguson lo guardò con espres- sione solidale, come uno che pur volendo dire di più non avesse trovato le parole. Il tecnico delle comunicazioni lo seguì. Bliss si sedette pesantemente e mise le mani tra le ginocchia. — Mi di- spiace — disse. — Ho combinato un vero casino. Sapevo che prima o poi l'avrei fatto. — Guardò McNulty. — Siamo spacciati, vero? Non c'è modo di liberarsi di quell'affare. A McNulty riusciva uno sforzo insopportabile parlare. — Quest'uomo ha bisogno di un po' di riposo, e anch'io — disse. Si rivolse alla persona più vicina. — Potete chiamare l'ospedale e dire che gli diano un Dalmane? Dopo, qualcuno lo condusse all'ascensore e poi al suo letto d'ospedale. Quando McNulty si svegliò dopo un sonno brevissimo, Janice disse: — Dottore, vi va di fare colazione? — McNulty trovò disgustosa solo l'idea, ma bevve il succo d'arancia e riuscì a mandare giù qualche cucchiaino di farinata. Janice stava per aiutarlo ad andare in bagno, ma lui disse aspro: — So camminare da solo. — Ed era vero. — Sono stati ricoverati dei nuovi pazienti? — chiese appena tornò. — Due, stanotte: una gamba rotta e un infarto. — Dove sono? — Nel corridoio, ma non vorrete mica andare a visitarli, vero? Il pazien- te che ha avuto l'infarto si sta riprendendo, e la gamba l'ho aggiustata ed è a posto. Siete un paziente anche voi, dottore, e tutto è sotto controllo. "Sarebbe bello se fosse vero", pensò McNulty. — Come sta Bliss? — chiese. — Bene. Ha telefonato stamattina per sapere come stavate voi. — Janice si allontanò. Dopo pochi minuti era di ritorno con Higpen e la Bernstein. — Dieci minuti — disse secca, e scomparve di nuovo. Sia Higpen che la Bernstein avevano l'aria di non aver dormito. — Dot- tore — disse lei — vorremmo parlarvi di un'idea, se vi sentite abbastanza in forze. — Certo — disse McNulty. — Forse vi ricorderete che ve ne ho già accennato. C'è il modo di libe- rarsi del parassita, se uno di noi è disposto a morire. McNulty cominciò a scuotere la testa. — Non parlo di omicidio, parlo di qualcuno che accetti di sacrificarsi: un capro espiatorio. Mettiamo che alcune persone acconsentissero. Non dovrebbero essere mica molte. Andremmo nel punto dove crollerà in terra l'ultima vittima e rimarremo lì finché il parassita non entrerà in uno di noi. — E poi? — chiese McNulty. — Bisognerà tener pronta una gabbia da imballaggio di metallo, con il lato di tre metri. La persona, chiunque sia, entrerà nella gabbia e voi le fa- rete un'iniezione. — Io non... — cominciò McNulty. — Un attimo, lasciatemi finire. Metteremo dentro la gabbia un'imbotti- tura che tenga la persona al centro. Poi caleremo il tutto in fondo all'ocea- no. La vittima morirà senza provare dolore, il parassita non potrà uscire, e i pesci non potranno entrare. Ora ditemi cosa c'è che non va in quest'idea. — Non funzionerà — disse stancamente McNulty. — Se le persone coinvolte nell'operazione sapranno cosa stanno per fare, lo saprà anche il parassita, e scapperà come ha già fatto in precedenza. — Potreste ipnotizzarle, in modo da togliere loro la coscienza di ciò che stanno per fare? — Immagino scherziate... La Bernstein trasse un respiro profondo. D'un tratto gli occhi le si inu- midirono e le lacrime corsero a rivoli lungo le sue guance. — Be', se dob- biamo uccidere qualcuno che non si offre volontario... — disse con voce strozzata, quasi in falsetto. — Un capro espiatorio — disse d'un tratto Higpen. — Yetta, ti ricordi la capra della cerimonia del re Nettuno? — Certo. E allora? — Con i panni addosso e trasportata su un carro? E se inducessimo il pa- rassita a entrare in una capra? I due si guardarono, poi guardarono McNulty. — Potrebbe funzionare — disse questi, eccitato. — Il parassita non ha mai visto una capra, vero? — No, perché le abbiamo tenute fuori dal settore perm. Credete che se la addobbassimo di nuovo...? — Dio santo, mi è appena venuta in mente una cosa — disse McNulty, drizzando la schiena. — Quando tutta questa storia è cominciata, in ospe- dale cominciarono ad arrivare uno dietro l'altro pazienti che in qualche modo, o per i vestiti, o per il colore della pelle, apparivano insoliti. Molto probabilmente il parassita aveva notato la loro diversità, ed era curioso. — Venite — disse dopo un attimo la Bernstein, stringendo le mascelle. Higpen la seguì fuori della stanza. Diedero un'occhiata alle capre, poi parlarono con Miriam Schofelt, che quell'anno aveva presieduto la Commissione del re Nettuno. Aveva con- servato il costume che avevano usato per la capra: giacca, colletto e cravat- ta di carta in un pezzo solo tagliati dalla signora Omura. Chiamarono Dan Taggart al Centro di Controllo e gli spiegarono cosa volevano — Ho qualche dubbio sulla gabbia di metallo — disse Taggart. — Per- fino l'alluminio si corrode, dopo un po'. Direi che la cosa migliore sarebbe usare una gabbia di legno e riempirla di cemento, sempre che l'abbiamo. — Ho circa cento sacchi di miscela, in magazzino — disse Higpen. — Bastano? — Penso di sì. Come sono le parti nella miscela? — In alcuni casi uno-due-quattro, in altri uno-uno-due. — Dovrebbe andare bene. Quanto avete detto che dev'essere grande la gabbia? 53 In fondo al corridoio, la gente si stava radunando intorno a qualcuno che era appena entrato. Incuriosita, s'incamminò in quella direzione. L'osserva- tore dentro di lei scoprì con stupore che oggetto dell'attenzione della folla era una capra bianca e nera, che stava su un carretto con indosso una giac- ca grigia e una cravatta. Era chiaro, dalle sue reazioni, che l'ospite trovava la scena buffa, ma l'osservatore non capiva bene perché. Non era mai riu- scito a comprendere esattamente il rapporto tra gli esseri umani e le altre specie che abitavano il pianeta. La capra era ritenuta un animale inferiore, ma dato che quella era vestita come un essere umano, significava forse che alcune capre godevano di una considerazione maggiore? Appena fu abbastanza vicino, sgusciò fuori, in mezzo al vuoto indistinto, poi entrò di nuovo, e dopo un attimo il corpo sconosciuto crollò giù. L'os- servatore fece appena in tempo a capire che la capra era in effetti un ani- male inferiore, senza la facoltà di parlare o ragionare, prima che l'ago en- trasse nel collo della bestia. Portarono il corpo inerte della capra nella zona di pesca, dov'era pronta la gabbia, parzialmente riempita di cemento; vi calarono dentro l'animale, poi versarono altro cemento e chiusero il contenitore ermeticamente con una spranga. L'argano sollevò la gabbia sopra le onde verdi e gonfie, poi la abbassò e la lasciò andare. La gabbia affondò e scomparve, scendendo ver- so il fondo. L'orrore sparì con essa. Entrambe le vele erano state portate via dalla tempesta, e sui ponti si e- rano verificati altri danni; i riflettori parabolici dei radar e le antenne erano scomparsi, gli schermi e i parapetti erano rotti. La Sea Venture non poteva inviare segnali, ma era in grado di navigare, e alla fine l'elicottero atterrò nell'apposita area. Bliss era presente quando i marines uscirono con le pi- stole in pugno. — Quelle non sono necessarie, signori — disse. — Non opponiamo re- sistenza. Siete liberi di venire a bordo. — Chi siete?—chiese l'ufficiale dei marine. — Stanley Bliss, direttore delle operazioni. — Ho l'ordine di tenervi agli arresti finché la nave non sarà al sicuro, si- gnor Bliss. Volete precederci, prego? — Certo. McNulty si era analizzato con occhio clinico, cercando eventuali cam- biamenti nella sua visione del mondo, e pensò di averne trovato qualcuno. Era un po' come se tutte le cose che erano sempre state importanti per lui fossero pesi di una macchina di Rube Goldberg, e come se i pesi si fossero spostati silenziosamente e dolcemente in nuove posizioni. C'erano ancora tutti, ma la relazione tra essi era diversa. La sua visione dell'universo gli sembrava perfettamente coerente, e ne era soddisfatto; anzi, gli pareva di considerare le cose con più buon senso e razionalità di prima. Era curioso il fatto che osservasse la situazione dall'interno, e ancora più curioso che non gli apparisse importante avere previsto un fenomeno del genere. Innanzitutto, era contento di essere un medico e intendeva continuare nella pratica della professione, se fosse riuscito a cavarsela con il pasticcio appena successo. Ma aveva cambiato idea sulle regole e le convenzioni. Riteneva di avere fatto parecchie cose solo per il successo personale o per difendersi da eventuali accuse di negligenza, non per l'esclusivo beneficio del paziente, e rimpiangeva di non averne fatto altre che avrebbero potuto essere utili. D'un tratto, per esempio, scopriva di provare interesse per le cure a base di erbe, e per la medicina psicosomatica, che aveva liquidato come pseudoscienza. Forse era davvero pseudoscienza, ma che importanza aveva, se funzionava? Dopo che erano stati presi contatti con la portaerei, fu deciso che due- cento passeggeri scendessero dalla Sea Venture subito, e gli altri in segui- to, quando alla Bluefields si fossero aggiunte altre due portaerei. Alcuni rimorchiatori avrebbero aiutato la Sea Venture, che non si era troppo spo- stata dalla rotta prevista, a raggiungere Manila. Bliss non sapeva bene che cosa sarebbe successo dopo. Probabilmente avrebbero cercato di issare nuove vele per riportare la nave a San Francisco, suo porto d'origine. Chis- sà se la Sea Venture avrebbe più navigato; la cosa migliore, forse, sarebbe stata smantellarla per farne un mucchio di rottami. Quanto a Bliss, si sentiva anche lui più o meno un rottame. Forse avreb- be dovuto affrontare un processo penale negli Stati Uniti, e ci sarebbero state sicuramente anche delle cause civili. Se pure fosse riuscito a uscire indenne da quell'odissea, era improbabile che la Cunard gli permettesse di rientrare in servizio. Magari avrebbe potuto gestire un albergo in qualche posto della terraferma. Gli sarebbe piaciuto molto. L'ultima sera che passarono insieme, Bliss, la Bernstein, Higpen, Har- tman, Winter e McNulty cenarono tardi. — Devo dire che vi ammiro tutti molto — dichiarò Hartman. — Sarebbe giusto che il vostro nome compa- risse nei libri di storia. Ma anche se questo non dovesse succedere, avrete sempre la soddisfazione di sapere di avere affrontato e scongiurato il più grande pericolo che abbia minacciato l'umanità da centomila anni a questa parte. — Alzò il bicchiere. — Alla vostra salute. Auguri di successo e feli- cità. — Immagino che adesso non sapremo mai che cosa sarebbe accaduto se le cose fossero andate diversamente — disse Winter. — È un peccato che non abbiamo scoperto di più quando ne avevamo la possibilità. — Di più in che senso? — Non abbiamo scoperto per esempio come il parassita si riproduce... McNulty parve colpito. — Un'osservazione intelligente. Meno male che nessuna delle donne presenti a bordo era incinta! Nel corso di tre giorni gli elicotteri prelevarono milleduecento passegge- ri e, dopo ulteriori ritardi, li trasportarono a Guam. I rimanenti passeggeri scelsero di fare rotta con la Sea Venture per Manila. La nave sembrava più vecchia e deserta di quanto non fosse; si coglieva uno strano senso di mae- stà decaduta nei suoi corridoi e nelle sue sale, quasi fosse un antico albergo in procinto di essere demolito. Alcune delle persone che erano rimaste a bordo mostravano un attaccamento sentimentale per la Sea Venture, e par- lavano con disprezzo di quelli che avevano "abbandonato la nave mentre affondava". I rimorchiatori tonneggiarono il bastimento malconcio nel porto di Ma- nila in un pomeriggio di maggio. Il cielo era terso, l'aria calda e umida. Jim ed Emily Woodruff scesero dalla scaletta insieme, a braccetto. — Sarà bel- lo tornare a casa — disse Jim. — Sì. — Emily guardò con espressione calma la città che si stendeva davanti ai loro occhi. Jim ormai si stava abituando alla sua nuova persona- lità. — Ti senti bene? — chiese. — Sì, Jim — rispose lei, stringendogli delicatamente il braccio, come a rassicurarlo. Il capitano Hartman imboccò la scaletta con una fitta di rimpianto. Non era un'esperienza che avrebbe voluto ripetere, ma se non altro era stata una vera avventura marinara che avrebbe potuto raccontare ai suoi nipoti. Lui e Bliss avrebbero cercato di rivedersi, si erano detti. E forse un giorno si sa- rebbero rivisti sul serio, e bevendo birra avrebbero rievocato il passato come due vecchi lupi di mare. Julie Prescott imboccò la scaletta assieme ai suoi genitori. Stevens era un po' avanti a loro: si erano già salutati. Stevens si accingeva a volare in Svizzera; avevano convenuto di incontrarsi a New York in ottobre. — Quando tornerò, non stupirti se avrò un altro nome — le aveva detto. Julie avvertì un lieve senso di vertigine. Si ricordò di non aver parlato a John di una cosa: la data che lei aveva segnato con un cerchio sul calenda- rio e che era già passata da due settimane. Non aveva mai avuto un ritardo così forte. Non sapeva cosa pensare della probabile gravidanza, né cosa pensare di Stevens. Avevano un futuro davanti, o no? "Chi lo sa cosa succederà", si disse. "Staremo a vedere". FINE