Poesie e novelle in versi

Ferdinando Fontana

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  • A ANTONIO GHISLANZONI
  • LIRICHE
  • LA FORMA E L'IDEA
  • NOJA LETTERARIA
  • LETTERATURA DISONESTA
  • LE DEMOLIZIONI
  • IN MORTE DI EMILIO PRAGA[1]
  • ANACREONTE
  • EVO MEDIO
  • IL SECOLO DI PERICLE
  • LA NOTTE DI SAN SILVESTRO
  • LA SENAVRA[1]
  • IN ALTO
  • CIRCOLO
  • A FULVIO FULGONIO
  • LA CHIESETTA DEI MORTI
  • A UNA DONNA INTELLIGENTE
  • IL DI` DEI MORTI
  • PER IL SANTO NATALE
  • CORAGGIO!
  • DITIRAMBO
  • PER UNA SUICIDA
  • QUANDO?
  • ARS, ALMA MATER
  • DE MINIMIS.
  • FLECTAR, NON FRANGAR
  • MELODIA
  • SEMINARE E RACCOGLIERE
  • IL MARE CANTA
  • EN ATTENDANT
  • A UN CALENDARIO AMERICANO
  • ACQUA DEI MONTI
  • IN CORPO DI GUARDIA
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  • DIES.
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  • CITTA` ITALIANE
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  • SOCIALISMO
  • NOVELLE IN VERSI
  • MASTRO SPAGHI
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    FERDINANDO FONTANA



    POESIE


    E


    NOVELLE IN VERSI






    MILANO


    1877.








    A ANTONIO GHISLANZONI





    SCUOLA MODERNA[1]


    AD ANTONIO GHISLANZONI,
    DEDICANDOGLI IL LIBRO.



    Alla tua nota satira
    Chi porse l'argomento?
    Forse i carmi d'un giovane
    Da pochi giorni spento?[2]
    Forse il Torso di Venere
    O il Dualismo ardito,
    Che una Musa propizia
    Dettava a un erudito?[3]


    Non gia`!.... Dalle tue laudi
    Fu consacrato il primo;
    Tu lo sapesti scegliere
    Dal mediocre limo; [4]
    All'altro degli stolidi
    Soltanto il volgo indegno
    Oggi contrasta il fervido
    Estro e il robusto ingegno.


    Forse dell'Inno a Satana [5]
    Ti spavento` il concetto?
    No!.... Che tu abborri i vincoli
    Che strozzan l'intelletto,
    E so che, quando mediti,
    Ti ribelli ai confini,
    Al pensier del filosofo
    Imposti dai cretini.


    E` ver, talora il genio
    Ama le forme strane,
    Ma il pensator sa leggere
    Nelle sue cifre arcane,
    E sa discerner l'enfasi
    Del verso che non crea
    Dal balenar fantastico
    D'una sublime idea.


    Spesso il cantor d'Ofelia,
    Col labbro d'uno stolto,
    Strambi concetti mormora
    Ed e` di nebbie avvolto,
    Ma sempre, come folgore
    Che irradia la tempesta,
    Risplende tra le nebbie
    L'olimpica sua testa....


    Evvia!.... se qualche Becero,
    Nelle invalide carte,
    Pallia coll'artificio
    La mancanza dell'arte;
    Se con grottesche immagini
    Pochi grulli impotenti
    Cercano un vieto elogio
    A mal composte menti;


    Se nella solitudine
    Dove ti sei rinchiuso
    E` giunto qualche cantico
    Di giovinetto illuso.
    Se un impudente o un ebete
    Parlando in metro oscuro
    S'imbranca colle vecchie
    Che dicono il futuro;


    Deh!.... non armar la cetera
    Colla mordente corda!
    Carni di imbelli vittime
    Il verso tuo non morda!
    Frena, romito Antonio,
    La beffarda parola;
    Non dir che pochi stolidi
    Son la moderna scuola!


    Serba ai pedanti, agli arcadi,
    Lo scherno e l'ironia;
    Taglia pei dorsi elastici
    Le vesti in parodia;
    Non fornir armi ai deboli
    Che temono di noi
    E che verranno a irriderci
    Cantando i versi tuoi.


    Pensa che ai pochi giovani,
    Che vedon l'ardua meta,
    Il ben d'un raro plauso
    I grami giorni allieta....
    E che il maggior cordoglio
    Che contristi i gagliardi
    E` di sentirsi mettere
    Col volgo dei codardi.



    [1] Questi versi vennero gia` pubblicati in risposta ad una poesia del
    signor Ghislanzoni, dallo stesso titolo, nella quale l'egregio
    umorista avea preso a far la satira di certi sedicenti innovatori
    letterarii
    . Piu` die a rispondere al signor Ghislanzoni, questi versi
    intendevano a metter in chiaro la differenza che passa fra costoro e
    quelli che operano con vero ingegno.


    [2] Emilio Praga.


    [3] Due splendide liriche di Arrigo Boito.


    [4] Il Ghislanzoni fu il primo che incoraggio` l'ingegno di Praga.
    Quando questi pubblico` la sua Tavolozza, l'eminente critico,
    parlandone in un giornale cittadino, dava principio al suo articolo
    colle seguenti parole: “Finalmente, abbiamo un poeta.


    [5] L'Inno a Satana, di Giosue` Carducci.






    LIRICHE


    PREFAZIONE AI MIEI VERSI


    Esser poeti e` legger nei futuri
    Giorni; e` spaziar nel cielo delle indagini
    Condannate dai timidi cervelli;
    Esser poeti o sentirsi maturi
    Quando nel sangue bollono i vent'anmi;
    E` ridere di tutto, esser ribelli
    Alla gloria e agli affanni.


    Esser poeti e` librarsi giganti
    Sull'universo e, in se` raccolti, vivere
    Animati da incognita scintilla;
    E` accogliere del par sorrisi e pianti,
    Inni e bestemmie, rantoli e vagiti;
    E` scrutar con impavida pupilla
    I misteri infiniti;


    E` piangere col vinto e coll'afflitto,
    Ne` al forte, al vincitor, negare il plauso,
    Ne` armar la cetra d'una corda sola;
    E` comprender la colpa ed il delitto,
    Laudando il sacrificio e l'innocenza;
    E` cantar tra un bicchiero e una carola
    Il chiostro e l'astinenza.


    Prisma novello, col pensiero, i mille
    Raggi dell'universo in se` raccogliere
    E mutarli in cadenze e in armonie;
    Poi fra le genti seminar scintille,
    Fatali incendi suscitando intorno,
    Turbando il cranio alle persone pie...
    O illudendole un giorno!


    Esser poeti e` salir sovra un monte,
    Di notte, quando il ciel di stelle e` fulgido,
    E, in estasi, esclamar: “Credo! V'e` un Dio!”
    E inginocchiarsi, e chinare la fronte,
    Ripieno il cor di mistica paura...
    Poscia negarlo o metterlo in oblio
    Discesi alla pianura!


    Esser poeti e` viver d'illusioni
    Che sull'Eterno Nulla il piede appoggiano;
    E` celiar con se` stessi e con coloro
    Che vi sanno ammirar nelle canzoni;
    E` accettare, negando, il Bene e il Male;
    E` desiare la miseria e l'oro,
    La reggia e l'ospedale.


    Esser poeti e` tentar l'oceano
    Della vita; e` svelarlo; e`, ansanti, correre
    Dietro un caro ideal.... cui non si crede!
    E` comprender del tutto il nulla arcano,
    E, d'ogni cosa quaggiu` disperando,
    Trovare ancora entusiasmo e fede
    Per vivere cantando.


    Esser poeti e` abbandonarsi ai sensi;
    E` compendiare un secolo in un distico;
    E` mutar l'alimento del mattino,
    A vespro giunti, in voli eccelsi, immensi....
    E, invero, questi versi sono usciti
    Dalle vivande o dal preteso vino
    Che l'oste m'ha imbanditi.

    LA FORMA E L'IDEA


    (A EMILIO PRAGA)


    La forma son le tenebre,
    E la luce e` l'Idea;
    La Forma e` il rito, il simbolo
    Del pensiero che crea;
    Il pensiero e` l'Iehova
    Dei veggenti profeti
    Che parla dai roveti.,
    E la Forma e` Gesu`.
    La Forma e` la parabola,
    La Forma e` il pane, e` il vino,
    E` l'orto, il bacio, il Golgota,
    E` la Croce, e` Longino;
    E il pensiero e` l'assiduo
    Svolgersi del creato,
    Cui spiegar non e` dato
    Alle menti quaggiu`!


    Eterna lotta!.... Scorgere
    L'Idea!.... Vedere il sole!...
    E disperar d'esprimerlo
    Con possenti parole!
    Nelle affannose veglie
    Concepir l'universo....
    E alla foga del verso
    Non saperlo svelar!
    Dietro un fatal connubio
    Il cervello si stanca!....
    Giunge lo sposo al tempio,
    Ma la sposa vi manca;
    Egli, il Pensiero, l'evoca
    Colla voce pietosa....
    Ma la Forma, la sposa,
    Non si reca all'altar.


    Ahi!.... Talora nel cranio,
    Indarno affaticato,
    Disperando, un terribile
    Dubbio m'e` balenato!
    Pensai che forse esistono
    Idee si` vaghe e arcane
    Che invan le menti umane
    S'attentano a scolpir!
    Forse passo` fra gli uomini
    Il sommo dei poeti
    Fra la schiera dei mutoli
    E degli analfabeti....
    E, forse, il suo silenzio
    Fu incompresa epopea,
    In cui sfuggi` l'Idea
    Della Forma il martir!


    Ah!.... Perche', dunque, struggerti,
    O povero cervello?
    Contro la Forma, il despota,
    Sorgi, schiavo rubello!
    Non ti curar degli uomini!
    Vivi in te stesso e pensa!....
    La tua melode immensa
    Non rivelar che a te!
    Chiuso nel tuo silenzio
    Ogni idioma oblia!
    Del tempo e dello spazio
    Comprendi l'armonia!
    Ogni idioma e frivolo
    A esprimer l'Universo!
    Nato a servire un verso
    Il mio pensier non e`!!


    Evvia!.... Sorridi, Emilio!....
    Sorge nel Ciel l'aurora,
    E, solitario, io vigilo
    Sulle mie carte ancora!
    Stolto!.... Giuro il silenzio,
    E ti favello intanto!....
    Stolto!.... E rileggo il canto
    Che la mia man noto`!
    Emilio, io voglio illudermi!
    Sono troppo felice!
    Mi risveglio da un'estasi
    E il pensiero mi dice:
    “Stretto e` il fatal connubio!
    “Chiudi gli occhi e riposa....
    “Questa notte la sposa
    “All'altar si reco`....”


    Milano, giugno 1875.

    NOJA LETTERARIA


    Favello a voi, cui ferve la scintilla
    Dei febbrili entusiasmi nel cervello;
    Favello a voi, dentro il cui sguardo brilla
    La balda gioja d'un pensier novello!


    Favello a voi, che, frammezzo alle genti,
    Vecchi a vent'anni, in silenzio passate,
    Colla pupilla volta ai firmamenti
    E colle mani alle reni appoggiate.


    Favello a voi, cui nota e` l'armonia
    D'ogni cosa creata, e cui son noti
    Cogli entusiasmi la melanconia
    E gli sconforti; a voi favello, iloti,


    Dannati a conservar la stessa creta
    Leggendo dentro ai secoli venturi;
    Dannati a scorger la splendida meta
    Dietro le grate di carceri oscuri!


    Favello a voi, per cui dolore e gioja,
    Pari al lampo, non duran che un istante,
    E che desiate, per fuggir la noja,
    Un'angoscia od un gaudio incessante;


    Favello a voi, che vivete com'ebri
    D'un arcano licor sovra la terra,
    Ed avete un uncino nei cerebri
    Che l'Universo nei suoi moti afferra!


    Noi siam mendichi, a cui la gente antica
    Le briciole lascio` di lauta mensa;
    Viviam di stenti e il genio s'affatica
    Dietro una turba di fantasmi immensa.


    Gli antichi Numi, ispirator dei carmi,
    Son morti nel sogghigno universale;
    La Natura ci annoja; il suon dell'armi
    Ne spaventa; ridiam dell'ideale;


    L'amore e` un campo in cui non resta zolla
    Da fecondare; senza scrosci e` l'ira;
    Il nostro corpo e una corteccia frolla,
    Mentre la mente a nuovi cieli aspira.


    E nuovi cieli, splendidi, profondi
    Come lo spazio, immaginar n'e` dato....
    Ma dall'estasi, a cui traggonci i mondi
    Senza cifra, un poeta non e` nato!


    I nostri canti son feti gia` morti;
    Sono la serpe che la coda addenta;
    Son l'urna ove troviam pochi conforti
    E la febbre che i giorni ne tormenta.


    Noi li cantiamo a noi stessi soltanto,
    E all'ultimo levita siamo eguali,
    Che, derelitto nel suo tempio santo,
    Celebrera` da solo i rituali....


    E non ci resta che cingere i fianchi
    Col bigiastro mantel del pellegrino,
    E correre la terra erranti e stanchi,
    E abbandonarci ad un pazzo cammino....


    Milano, luglio 1875.

    LETTERATURA DISONESTA


    A CESARE TRONCONI [1].


    Que la muse, brisant le luth des courtisanes,
    Fasse vibrer sans peur l'air de la liberte';
    Qu'elle marche pieds nuds, comme la verite'.
    ALF. DI MUSSET.


    Dunque perche` le pagine
    Noi modelliam sul vero;
    Perche` neghiam di battere
    Ogni volgar sentiero;
    Perche` volgiamo intrepidi
    Le pensierose fronti
    Alla piu` vasta cerchia
    Di splendidi orizzonti;


    Dunque perche` l'indagine
    I nostri libri ispira;
    Perche` i costumi ipocriti
    Ci fanno schifo ed ira;
    Perche`, toccando l'ulceri,
    La nostra man non trema.
    D'insultatori un popolo
    Ci scaglia l'anatema!?


    Scosso all'ingiusto oltraggio,
    Tu ti contristi e piangi:
    Nelle dolenti veglie
    Fremi e la penna infrangi;
    E, forse, al melanconico
    Ingegno tuo tu chiedi
    Se un mondo immaginario
    E` quel che ascolti e vedi!


    Me pur gli insulti colsero
    Dei grulli e dei perversi,
    E, inesperto degli uomini,
    Un tempo anch'io soffersi..
    Allor pensai che inutile
    Pazzia sono i miei canti,
    Che un vano desiderio
    E` il vincere i pedanti!


    E mi tento`, nell'aride
    Mie notti d'apatia,
    La vile idea di scegliere
    Men faticosa via;
    E, a tesser panegirici
    Alla Morale e a Dio,
    Nel branco delle pecore
    Giurai d'entrare anch'io!


    Evvia!.... Sorridi!.... Il fascino
    Della verace Musa
    Venne a guarir l'insania
    Della mia mente ottusa!
    E da quel giorno, libero
    Da ogni dubbio codardo,
    Contro i melensi e gli Arcadi
    Io sursi piu` gagliardo!


    E il temerario oltraggio
    Come una celia accolsi,
    E l'amarezza inutile
    Nella risata io sciolsi;
    E i profili ridicoli
    Di grotteschi figuri
    Della mia stanza vennero
    A popolare i muri.


    Una lanterna magica
    Mi rallegro` le notti;
    E vidi volti d'upupa.
    Ventri che parean botti,
    E smisurate orecchie,
    E code smisurate,
    E uno stuolo di scimmie
    Da artisti camuffate.


    Imitando dei chierici
    La vieta filastrocca,
    Tutte ad insulse nenie
    Aprivano la bocca;
    E, mentre mi passavano
    Lentamente dinanti,
    Un'eco lontanissima
    Ne ripeteva i canti:


    “Heine e Musset son scettici
    “Degni dell'odio umano;
    “Giorgio Byron non merita
    “Una stretta di mano!
    “Con quei che il vero parlano
    “Non si discute mai!....
    “Se sonvi error, celiamoli;....
    “Correggerli?.... Giammai!


    “Lasciam che il mondo seguiti
    “Le usanze inveterate;
    “Che le donne ci aizzino
    “A passioni dannate;
    “Che le fanciulle uccidano
    “I bambini illegali;
    “Che le piaghe si coprino
    “Con fiori e madrigali!


    “L'amor del mondo e` soffio....
    “Ma guai chi fa all'amore!
    “Giusto e` che i vecchi imprechino
    “Dei giovani al vigore!
    “La Societa` dev'essere
    “Il modello dell'Arte....
    “Ma noi vogliamo scorgerla
    “Soltanto da una parte!


    “Perche' della famiglia
    “Son sante le affezioni,
    “Non canterem che bamboli,
    “Che madri in ginocchioni;
    “Non canterem che Sindaci
    “Che porgono l'anello;
    “Consulteremo il Codice
    “Per giudicare il Bello!


    “Per chi dira` che esistono
    “Altre fonti di gioja;
    “Per chi dira` che a scrivere
    “Al par di noi si annoja;
    “Per chi dira` con libera
    “Parola un'opinione,
    “Invocheremo l'indice,
    “La Santa Inquisizione!


    “Su, giovinetti!.... Facile
    “Strada v'abbiam dischiusa!
    “Crear vorreste?.... E` inutile!
    “Deve copiar la Musa!
    “Deve copiare!.... E il plauso
    “Le largiranno tutti....
    “E grideranno al genio
    “Babbi, mammine e putti!


    “Lasciate che combattano
    “Per le donne gli stolti!
    “Esse non saran l'ultime
    “A graffiar loro i volti!
    “Le donne sono un popolo
    “Mansueto di schiave....
    “Non e` d'un cuor di femmina
    “Il buon-senso la chiave!


    “Su, giovinetti!.... Facile
    “Strada v'abbiam dischiusa!
    “A magri pranzi assidasi
    “L'indipendente Musa!
    “Sol nella vita pratica
    “Siate veristi!.... Il male,
    “Fatto con volto ipocrita.,
    “Diventa piu` ideale!!”


    Ahime`!.... Superba Lirica,
    L'ali su te ripiega!
    Non gia` tuonar., ma ridere
    Mi fe' quella congrega!....
    Alle grottesche immagini
    Dal letto mio, celiando,
    Risposi, amico Cesare,
    Coi versi che ti mando:


    “Tutto e` quaggiu` possibile!
    “Il tempo e` omai passato,
    “In cui, fanciullo e ingenuo,
    “Mi son maravigliato!
    “Degli antichi filosofi
    “Or la saviezza imito;
    “Alla meta so incedere
    “Indifferente e ardito....


    “E se color che insultanci
    “Bandissero domani
    “Che, per pudore, debbano
    “Portar le brache i cani,
    “Io, nel veder l'eccentrica
    “Innovazion morale,
    “Continuando a ridere,
    “Direi: E` naturale!”


    Napoli, 16 marzo 1876.


    [1] Cesare Tronconi, l'autore della Passione maledetta e delle
    Madri... per ridere. Cesare Tronconi, il romanziere piu` calunniato e
    piu` vilipeso dagli spigolistri. Ripeto a bella posta il suo nome per
    risarcirlo in parte della guerra sleale e vigliacca mossagli da alcuni
    giornalisti, i quali per non dargli voga erano andati d'accordo per
    chiamarlo l'innominabile.... tout court.





    VERITAS, VANITAS!


    Una sera piovosa, autunnale,
    Ora schivando il fango, ora una pozza.
    Io seguii la carrozza
    Che manda al Cimitero l'Ospedale.


    Cimitero e Ospedal son buoni amici
    E tengono fra lor conti correnti.
    Davver, pochi clienti
    Si dan l'un l'altro tanti benefici!


    L'Ospedale gli manda i suoi defunti,
    E il Cimiter lo paga col dolore,
    Che rende infermo il cuore
    E fa le donne e i giovinetti smunti....


    L'Ospedale gli manda le sue spoglie,
    E il Cimiter gli manda i suoi poeti,
    Che in mezzo ai sepolcreti
    Tentano col pensier le eterne soglie....


    La carrozza che va dall'Ospedale
    Al Cimitero, portandovi i morti,
    M'ha dati piu` conforti
    Che non millanta libri di morale!


    Filosofando, io le cammino allato
    E vo pensando a chi dentro vi giace,
    E, spesso, mi do pace
    Se per caso quel di` non ho pranzato!


    La colomba che sopra v'e` scolpita
    Par che dica, mandandomi un saluto:
    “Che giova esser vissuto!
    “Che giova il darci pena della vita!”


    Or, quella sera, deposte le bare,
    Il negro carro era diggia` partito,
    Ed io, come impietrito,
    Restai del camposanto al limitare.


    La` m'inchiodava una visione strana,
    Di quelle che sa far soltanto il Vero,
    E che vede il pensiero
    Sol di chi studia la Commedia Umana.


    Una vecchia magrissima e grinzosa
    S'era posta a seder sovra le bare,
    Ed io l'udia cantare
    Una canzon con voce cavernosa.


    La solinga megera, gravemente,
    S'accompagnava nelle note basse
    Battendo sulle casse
    Coll'ossa delle gambe macilente.


    Elia diceva: “Io son la portinaja,
    “E sono vecchia, e di pessimo umore....
    “Ma quando ero sul fiore
    “Degli anni, allora, ero leggiadra e gaja!


    “Quanti baci, quand'ero ancor fanciulla,
    “Su queste spalle secche e questa bocca
    “Ora, bazza a chi tocca!
    “Io vo' morir, che non son buona a nulla!


    “Forse, qui dentro, in queste casse bianche
    “Han chiuso qualche giovane d'allora,
    “Che si tolse all'aurora
    “Dalle mie braccia, colle membra stanche!


    “Forse, a quel tempo, egli m'avra` adorata
    “Come a ventanni un'illusion si adora!
    “Il giovane d'allora
    “Amore, arte, piacer m'avra` chiamata!


    “Chicchetussia dei mille amanti miei,
    “Che mi presti la bara a seggiolone,
    “Sappi che un'illusione
    “Per te, se fosti vivo, ancor sarei....


    “E sarei la piu` triste e la piu` grama,
    “La piu` steril di pace e d'allegrezza,
    “E potrei d'amarezza,
    “Non piu` di gaudio, pagar la tua brama.


    “Sappi ch'io sono ancora un'illusione,
    “Ma non siccome un di` bella e gioconda,
    “Ne' alla mia treccia bionda
    “Chiederesti il profumo e l'oblivione!


    “Sappi che piangeresti in mia presenza,
    “Perch'io son l'illusion la piu` inumana;
    “La piu` caduca e vana;
    “L'illusion dei sepolcri: l'Esperienza!”


    Agosto 1876.

    LE DEMOLIZIONI


    A EUGENIO TORELLI-VIOLLIER.


    Pietre, da tanti secoli
    In un bacio congiunte,
    Travi e barre, dall'acqua
    E dal sole consunte,
    Barcollanti casipole,
    Ieri viventi ancora,
    Oggi il Tempo vi mormora:
    “E` giunta l'ultim'ora!”


    Il Tempo!... Il triste scettico;
    L'era, l'anno e l'istante;
    L'orco che mangia i popoli;
    L'impassibil quadrante;
    La sfinge inaccessibile;
    Il mistico serpente,
    Che afferra, eterno circolo,
    La sua coda col dente.


    In un nembo di polvere
    Cadon le vecchie mura;
    Sembran colte le tegole
    Da un'orrenda paura;
    Ed i balconi, vedovi
    D'imposte e senza vetri,
    Sovra i passanti guardano
    Come occhiaje di spetri.


    Povere case!... Il rantolo
    Della vostra agonia
    Fu lungo!... Il di` novissimo
    Lentamente venia!
    Barbari sempre, gli uomini
    V'han fatto i funerali,
    Pria che cadeste vittime
    Sotto i colpi mortali.


    E accanto a voi scolpirono,
    A scherno, in questi giorni,
    Di fastosi palagi
    I superbi contorni.
    Ah! quei colossi risero
    Di voi pigmei morenti,
    E piu` amari vi fecero
    I fatali momenti!


    Povere case!... Io vagolo
    A voi dintorno.—E` notte.
    E l'ombre dalle fiaccole
    Rosseggianti son rotte;
    E, somiglianti ai demoni
    Cui l'eccidio conduce,
    I pionieri nereggiano
    Sugli sprazzi di luce.


    Ed io penso alla storia
    Delle mura cadenti;
    Ai drammi, alle commedie,
    Agli idilii innocenti
    Che si ordiron per secoli
    Nelle piccole stanze
    Ed impressero un marchio
    Sulle umane sembianze.


    Ed io penso alle veglie,
    Alle insonnie, ai riposi,
    Alle fedi, alle infamie,
    Ai convegni amorosi,
    Ai sorrisi, alle lagrime,
    Ai di` foschi, ai di` lieti,
    Ai poemi che videro
    Quelle quattro pareti!


    Oh!... non ridete, splendide
    Case dai freschi ornati,
    Palagi da una magica
    Mano in un di` creati!
    Or tutti a voi sorridono
    Con beata alterezza
    Ed i vostri muri spirano
    La balda giovinezza....


    Ma verra` il di` che i posteri
    Vi chiameran capanne,
    Ed al suolo abbattendovi,
    Come fragili canne,
    Tesseranno una lirica
    Sovra i detriti immani....
    Piu` caduchi edifizii
    Innalzando il domani!


    Tu sol, bigio fantasima,
    Gotico tempio altero.
    Tu, frastaglio di guglie,
    Tu, gigante severo,
    Vedrai le metamorfosi
    Dei giorni che verranno,
    Sogghignando alla gioja,
    Sogghignando all'affanno!


    Finche` il Tempo, il terribile
    Tarlo che rode il mondo,
    Verra` te pure a spingere
    Nell'abisso profondo;
    E forse, fra un millennio,
    Quivi sostando un uomo,
    Tentera` di far credere
    Che tu esistevi, o Duomo!....


    Eugenio, sono effimeri,
    Al par di queste stanze
    D'ogni mortale i gaudii
    I pianti e le speranze;
    Il passato e` macerie
    Su cui sorge il presente,
    E l'avvenire e` il figlio
    D'un vegliardo cadente.


    Oh! umani eventi! oh! frivole
    Parvenze d'un istante!
    Perche` dunque ci esagita
    Questa febbre incessante?
    Perche` dunque sussistono
    Il sepolcro e la culla?
    Perche` mai tanto fremito
    Se tutto attende il Nulla?


    Perche`?... Perche` lo struggere
    E il crear son la vita;
    Perche` la noja e` l'unica
    Larva da noi fuggita;
    Perche` questa e` l'armonica
    Legge dell'universo;
    Perche` senz'essa il cerebro
    Non mi darebbe un verso!


    Milano, 2 ottobre 1875.

    IN MORTE DI EMILIO PRAGA[1]


    Egli visse sognando e sogna ancora
    Chiuso per sempre in questa negra bara;
    Sogna il tripudio della nuova aurora
    E il fior, che per il maggio si prepara.


    Quand'ei moveva per le nostre vie
    Parlava sempre del supremo giorno,
    Ed un nembo di canti e d'armonie
    Al grosso capo gli aleggiava intorno.


    E poi che il guardo umano invan s'attenta
    Di legger della Morte nei misteri,
    Ei rafforzava la pupilla lenta,
    Oppur tarpava il volo ai suoi pensieri.


    E, spaventato dal fatal problema,
    Triste amatore d'un'estasi arcana,
    Cantava a se` medesimo un poema
    Inebbriando la sua forma umana!


    Or, ditemi, fu in lui colpa o sventura
    Questo dispregio dei nostri costumi?
    Dobbiamo noi su questa sepoltura
    Rammentar la sua vita o i suoi volumi?


    E` vero!.... E` vero!.... Ei calpesto` un affetto,
    Che men compianta potea far sua vita!....
    E` vero!.... E` vero!.... Al domestico tetto
    Per lui la mensa fu di duol condita!....


    Ma chi di noi, sovra il proprio cammino,
    Non calpesto`, rimpiangendolo, un fiore?...
    Nascer poeta e` orribile destino!
    Il cerebro talor soffoca il cuore!


    Oh! guai nascer poeta ove la Musa
    Non trova il pane per nudrire i figli!
    Ove ogni sciocco delle labbra abusa
    Per esser largo solo di consigli!


    Oh! guai nascer poeta ove il sol splende
    Ed infervora i cantici ispirati,
    Ma dove l'uomo allori e culto rende
    Soltanto ai pensatori trapassati!


    Costui vivra` da pochi consolato,
    Fra il bivio orrendo d'essere un buon padre,
    O di spezzar la cetera indignato,
    Per altre volutta` meno leggiadre!


    Costui vivra` la famiglia cantando,
    La famiglia ideal,—cui dritto avea—
    E ch'egli dove` perder lagrimando....
    Che`, coi versi, nudrir non la potea.


    Noi, cui sorride l'italo orizzonte,
    Siamo un popol di bimbi analfabeti!
    Da qualche lustro appena alziam la fronte....
    Siam troppo grami per pagar poeti!


    Non turbi adunque questo popol gramo
    Il sepolcro d'un povero cantore....
    Meditiam la sua vita e confessiamo
    L'ignoranza d'un secolo e l'errore!


    Emilio! Emilio!... Son le tue parole
    Ch'io ripeto commosso... e (lo rammento)
    Da te un giorno le udii che le viole
    Dicean l'april con profumato accento.


    E tu piangevi per le tue sventure,
    Antiveggendo questo estremo istante,
    Senza sentirne le viete paure
    E mentre il viso tuo parea raggiante!


    Poi soggiungesti sorridendo: “Amico,
    “Quando mi porteranno al cimitero
    “Verrai tu pure, com'e` l'uso antico,
    “A far dei versi sul mio drappo nero;


    “Ma ti ricorda degli accenti miei,
    “Ed agli astanti, quel di`, li ripeti....
    “Se tu prima morissi, io li vorrei
    “Ripetere fra i mille sepolcreti.


    “E la`, dove la Morte i ricchi accoglie
    “E i poveri del par, tutti eguagliando,
    “Mi parria che dovrebber le tue spoglie
    “Ascoltare i miei versi giubilando!”


    ..............................


    Quest'oggi, in cui la legge di Natura
    Te primo, Emilio, al di` fatal condusse,
    D'ogni giogo servil la mente pura,
    Pieno il cor delle mie fedi inconcusse,


    Io vengo a replicar su questa bara
    Le tue parole; io compio il tuo desio....
    E sento, amico, che mi e` meno amara
    L'ultima volta che ti dico: Addio!


    [1] Questi versi vennero letti dall'autore il giorno 28 dicembre 1875
    sul feretro del poeta delle Penombre.

    ANACREONTE


    Fra le colonne—d'un bianco tempio
    Sacro a Minerva,—la Dea propizia
    Ai savi, austera Dea,
    Pensieroso sedea


    Anacreonte,—cantor dei fervidi
    Baci e degli inni—nati fra i calici
    E delle porporine
    Rose allacciate al crine.


    Sedea pensoso,—stringendo l'abile
    Stil nella destra,—la intatta tavola
    Sulle gambe giacente
    Guardando avidamente.


    Un sacerdote—dall'occhio linceo
    Di la` passava;—vide l'insolito
    Vate nel sacro albergo
    E gli si fece a tergo.


    Ei non udillo;—come le statue
    Chiuse nel tempio—pareva immobile,
    E la fisa pupilla
    Non mandava scintilla.


    Spesso la destra—la cerea tavola
    Avvicinava;—ma sulla tenue
    Veste che la copriva
    Non un verso scolpiva.


    E d'inusato—pallor coprivansi
    D'Anacreonte—le tempia, e l'unghia
    Tormentava la lama
    Con rabbiosa brama.


    Nella clessidra—cadea la polvere,
    E intorno, intorno—con suon monotono,
    Sotto le arcate fosche,
    Ronzavano le mosche.


    Alfin lo stile—sovra la tavola
    L'acuta punta—venne a configgere,
    E con note indefesse
    Questo cantico impresse:


    “Perche` mi manca nel pensier la vita?
    “Perche` come una spugna inaridita
    “Mi sta il cervel nel cranio?
    “Perche` la luce mi niega i colori?
    “Perche` il profumo mi niegano i fiori,
    “E la Musa un esametro?


    “Non sono io quello che i ridenti canti
    “Questa notte vergo`?—Perche` gli incanti
    “Soavi, perche` l'estasi
    “E l'armonia dei non studiati carmi,
    “Come donne, veniano a visitarmi,
    “Innamorate e ingenue?


    “Ed or ch'io chieggo un verso, una melode;
    “Or che una sete mi esagita e rode
    “Di profumi e di cantici,
    “Non una lieta immagin mi consola,
    “E invano alla mia Musa una parola
    “Io chieggo in elemosina!


    “Forse Minerva, l'austera diva,
    “Si vendica di me;—greggia votiva
    “Non reco;—nel suo tempio
    “Prima di questo giorno io non entrai;
    “Gli amori, il vin, le rose io sempre amai!;
    “Minerva ama il trapezio!


    Anacreonte dai versi soavi
    “Non t'e` propizia la Diva dei savi!

    “Dira` ridendo il popolo....
    “Stolto!... Il piu` savio e` chi gode la vita!
    “Il piu` savio son io!... Popol m'addita
    “Qual'e` dunque il mio tempio!


    “No!... Minerva e` propizia al mio poeta!
    “Io sono un savio dalla fronte lieta!...
    “Rido, ma penso!—Ahi!... dubito
    “Che la mia Musa, de' miei baci stanca,
    “Or m'abbandoni!... Gia` il mio crin s'imbianca
    “E gli occhi miei si offuscano!...


    “Nave sdruscita, si rintana in porto
    “A morir nella noja e lo sconforto!
    “Oh!... splendide memorie!...
    “Solcasti l'onde un di`, di fiori ornata,
    “E sulla tua bandiera inalberata
    “Stava scritto:—Odi Erotiche.


    “Venian da lunge a udir la melodia
    “Che dalle tue seriche sarchie uscia
    “Sotto la man de' Zeffiri,
    “E del mar della vita i nocchier stanchi
    “Si fean dappresso ai tuoi dorati fianchi
    “Per guarir dalla noja.


    “Giungevan mesti e cogli occhi infossati
    “E partivano lieti e consolati
    “In cor benedicendoti;
    “E, giunti in patria, alle persone care
    “Recavan, talismano salutare,
    “Un'ode a Bacco o a Venere.


    “Or sei sdruscita; le sarchie di seta
    “Son rotte; il fianco tuo puzza di creta
    “Guasto dal tarlo e fracido!...
    “Povera nave, ti rintana in porto
    “Ahime`!... Pria di perire di sconforto
    “Languirai di memorie!


    “O Musa mia, dammi un ultimo canto,
    “L'estremo bacio sia, l'estremo incanto
    “Dell'amor tuo!... D'un'estasi
    “Fammi ancora beato!... E poi... ch'io muoja!
    “Piu` della morte ho in orrore la noja....
    “E il dolore di perderti!


    “Ahi!... Vane preci!... Nel pensier la vita
    “Mi langue!... Come spugna inaridita
    “Mi sta il cervel nel cranio!
    “Ahime`!... La luce mi nega i colori!
    “Ahime`!... Un profumo mi niegano i fiori
    “E la Musa un esametro!”


    Sovra il suo ciglio—brillo` una lagrima;
    Scosso era il labbro—da un lieve tremito;
    E la spaziosa fronte
    Chinava Anacreonte.


    Allor dei vate—batte` sull'omero
    Il sacerdote,—la cerea tavola
    Colla destra additando,
    E disse sogghignando:


    “Pazzi e poeti—sono sinonimi!
    “Tu della Musa—ti lagni, il ciglio
    “Ancor molle hai di pianto....
    “Ed hai creato un canto!


    Luglio 1875.

    EVO MEDIO


    (A GIUSEPPE GIACOSA)


    Oh!... Il bel tempo dei miracoli,
    Dei giulivi menestrelli,
    Delle fate, degli spiriti
    E dei magici castelli!
    Oh! il bel tempo dei pigmei,
    Delle imprese e dei tornei!


    Oh!... Il bel tempo delle maglie,
    Dei vestiti di velluto,
    Quando Iddio, la dama e il trono
    Si rubavano il tributo,
    E cantavasi il perdono
    Sul motivo dei fendenti,
    Ed insieme pullulavano
    I castelli ed i conventi!


    Oh!... Il bel tempo dell'assiduo
    Alternar di paci e guerre,
    Quando i vescovi aggiravansi
    Cavalcando per le terre,
    Mentre ai pie` delle Eminenze
    Chiedean tutti le indulgenze!


    Beppe, il mondo di quell'epoca
    Pare un mondo immaginario!
    Il ladron della mattina
    Bacia a sera un reliquiario;
    Sulla massa che cammina,
    Come pecore attruppate,
    S'erge sempre, quasi a bussola,
    Il cocuzzolo d'un frate.


         * * * * *


    Eran piu` che innumerevoli
    I colori delle tonache;
    Una mistica lussuria
    Dava l'estasi alle monache;
    E cantavansi a distesa
    Inni e salmi nella chiesa.


    Sovra un asse Frate Angelico
    Dipingea le sue Madonne;
    Sempre azzuro il manto aveano,
    Sempre rosse avean le gonne;
    N'era il capo incoronato
    Da un bel circolo dorato.


    Gli alchimisti si sfiatavano
    Sulle brage dei fornelli;
    I teologi soffiavano
    Nei fanatici cervelli;
    Il delirio universale
    Era l'or filosofale.


    Si chiedeva allo Zodiaco
    L'avvenir delle persone;
    I romiti fabbricavano
    Le medaglie e le corone;
    E diceano i benefici
    Dei flagelli e dei cilici.


    Come noi si va in America,
    Lor si andava in Palestina;
    Qual tesor ne riportavano
    Una scheggia peregrina
    Della croce di Gesu`....
    Ne` chiedevano di piu`!


         * * * * *


    Oh!... I corteggi all'Evo Medio
    Nei trionfi e nelle feste!
    Oh! i cavalli, i fanti, i carri,
    L'oro e i drappi sulle teste!
    Eran splendidi e bizzarri
    I corteggi d'un possente,
    Smaglianti come il crotalo
    Sotto il sol d'Affrica ardente.


    Nani, alfieri, paggi e chierici,
    Gente bella e foggie strane
    E buffoni e trovatori
    E vezzose castellane
    Ed in mezzo ai gran signori,
    Del suo prence a mano manca,
    La ventraglia d'un cenobita
    Su una mula tutta bianca!


    Imbandiansi sulle tavole
    Le vivande in piatti d'oro;
    Il vestito delle dame
    Era un piccolo tesoro:
    Della plebe il brulicame
    Facea ressa nelle vie,
    Quando andavano a godersela
    Monsignori e Signorie.


    Poi le danze! Al suon di pifferi
    Di sirvente e di mandole
    Tarantelle e cavalloggie
    Alternavansi a spagnole;
    E, vedute dalle loggie,
    Quelle genti a piu` colori
    Un gran mazzo ti parevano
    In cui vita aveano i fiori.


         * * * * *


    L'Evo Medio si compendia
    Nella chiesa e nel castello;
    Dominavan le nazioni
    Un guerriero o un fraticello;
    Fra le mille devozioni,
    (Sacerdote il trovatore)
    Una sola era pregevole,
    Beppe: quella dell'amore!


    Nelle chiese c'era l'organo,
    Avean trombe i cavalieri,
    Ma la musica del popolo
    Era quella dei trovieri
    E le libere parole
    Uscian fuor delle mandole.


    Oh!... I bei tempi!... Il nostro secolo
    E` una nenia e non un canto!
    Noi siam lucciole sbiadite,
    Essi il fuoco, essi l'incanto!
    Oggi i bozzoli e la vite
    Ci preoccupan l'idea
    Piu` dei lauri e della gloria
    D'una bellica epopea!


    Oh!... I bei tempi!... Eppur s'io medito
    Sulle stragi dei possenti;
    S'io ricordo il Sant'Uffizio
    Ed i roghi dei sapienti;
    S'io rifletto alle baldanze
    Di tiranniche ignoranze;


    Benedico le vittorie
    In onor dei Veri eterni,
    E il prosaico vestimento
    Dei filosofi moderni;
    Benedico dei presenti
    La volgar monotonia;
    Nella scienza e nei negozii
    Trovo ancor la poesia!


    Penso, e` ver, che in tutti i secoli
    Si pareggian beni e mali;
    Che gli umani desiderii
    Han confini sempre eguali....
    Ma davver sono contento
    Di non viver nel trecento.


    Agosto, 1876.

    IL SECOLO DI PERICLE


    (AL MAESTRO GIOVANNI RINALDI)


    Sotto la ferrea—clava spartana
    Isterilivasi,—schiava gemente,
    La nata libera—volonta` umana.
    Delfo, silente,


    Sull'aureo tripode—parea dormire,
    Poiche` le belliche—tube eran mute,
    Ne` piu` all'Oracolo—chiedevan l'ire
    Senno e virtude.


    Nojata e gelida—la Pitonessa
    Sonar nel tempio—non intendea
    Che d'una vecchia—la voce fessa
    Cui, sorda, Igea


    Degli anni all'onere—curva lasciava,
    O qualche timida—prece d'amore
    Che su virginee—labbra mandava
    L'ansia del cuore.—


    Tebe era mutola;—tacea Corinto;
    Messene, esangue,—nelle sue mura
    Chiudeva un popolo—per sempre vinto
    Dalla sciagura.


    Brandian gli Ellenii—zappe e bipenni!
    Di illustri ceneri—piene eran l'urne,
    E le Olimpiadi—venian solenni
    E taciturne


    A baciar l'ampie—fronti dei saggi...
    Ma, in fondo ai bigi—tempi, un fulgore
    Brillava... ed erano—gli accesi raggi
    Di Atene in fiore.





    A TAIDE


    Taide, il mondo e` un'accolita
    Di sciocchi e di bricconi;
    A poche menti garbano
    Le libere canzoni;
    Gli sciocchi non camminano
    Che coi piedi degli altri,
    E l'armi degli scaltri
    Son frasi e ipocrisia.


    Il labbro, che ti predica
    L'azzurro e la morale,
    Beve, nell'ombra, al lurido
    Nappo del baccanale;
    Le donne oneste mostrano
    Nudo ai teatri il seno
    E chiameranno osceno
    Questo povero canto!


    In custodia ridicola
    Ognun stringe la sposa....
    E volge all'altrui talamo
    La mente desiosa;
    Mille impotenti giovani
    Sparlan dell'altrui donne....
    E delle proprie nonne
    Si fanno i paladini!


    E` l'infanzia un miscuglio
    Di lubrici misteri;
    La puberta` ci innebria
    D'ardenti desideri;
    Ma i vecchi scaraventano
    Sovra noi l'anatema,
    Se ne facciamo il tema
    D'un'ode in settenari.


    L'arte greca e` lascivia
    E l'insegna il pedante;
    Porta e Goldoni estasiano
    E venerato e` Dante;
    Ma se noi, baldi giovani,
    Tessiamo un inno al Vero,
    Sorge un popolo intero
    A gridarci la croce!


    Quadri, melodi e statue
    E commedie e volumi
    Tutti d'amor ci parlano
    Negli umani costumi....
    E` una rancida nenia!
    E` un nojoso frastuono!
    Sempre lo stesso tono
    Su una nota tenuta!...


    Taide, tu pure, ingenua,
    Alla nenia credesti!
    Con chi primo ti piacque
    Una notte giacesti....
    E trovasti, togliendoti
    Al convegno geniale,
    L'infamia e l'ospedale
    Dove morir di stenti.


    Altre, di te piu` caute,
    Si ribellano al mondo
    E, odiandoli, agli uomini
    Fanno il viso giocondo;
    Ed, ingannate, ingannano;
    E rubano, baciando;
    E ridono, sputando
    In fronte ai derubati!


    Innanzi a lor si inchinano
    Gli sciocchi riverenti,
    E i poeti le ragliano
    Con patetici accenti,
    E le madri del popolo,
    Che soffrono la fame,
    Alle fanciulle grame
    Le citano a modello!


    Io nacqui troppo povero
    Per comperarne i baci,
    E non m'impiglio al vischio
    Dei lor sguardi procaci;
    Delle fanciulle ingenue
    La ritrosia m'annoja,
    Che` dell'amor la gioja
    Non disgiungo dai sensi.


    Le donne oneste adescano
    Senza conceder mai;
    Fra gli imbecilli, o Taide,
    Finor non m'imbrancai!
    Odio gli altari e gli idoli
    A cui la turba grulla,
    Senza ottener mai nulla,
    Si inginocchia pregando!


    Spose od amanti, il talamo
    E la tomba d'amore!
    La noja o l'amicizia
    Lo surrogan nel cuore....
    Il Piacer, che n'e` figlio,
    Come l'Ebreo Errante,
    Con ardore incessante
    Cerca novelle forme!


    Taide, tu sola, vittima
    Degli umani disprezzi,
    Ai tristi che ti insultano
    Rendi lagrime e vezzi,
    Che` le fanciulle povere
    Dal sangue ardente e buone,
    Perdendo un'illusione
    Non si mutano in serpi!


    Tu sola sei possibile
    Per le menti severe,
    Che le catene abborrono
    Adorando il piacere!
    Tu, che ai ricchi ed ai poveri
    Mostri un egual sembiante
    E accogli in un istante
    Ogni filosofia!


    Tu, che non rechi i triboli
    D'un amore geloso;
    Che non ti atteggi a vittima
    D'un dolor fastidioso;
    Tu, che ti serbi vergine,
    Anche da lebbra infetta
    Che bocca maledetta
    T'infiltro` nelle carni!


    Tu, con cui scorre libera
    E aperta la parola;
    Tu, d'ogni umana lagrima
    Educata alla scuola;
    Tu, che dai per un obolo
    Cio` che l'altre, per anni,
    Con amarezze e inganni,
    Vendono a caro prezzo!


    No!... L'amor non e` l'unica
    Gioja al mortal concessa!
    Anche l'odio ha i suoi gaudi!
    E la vendetta anch'essa!
    E l'han le acute indagini
    Note ai sapienti, e l'ore
    Consacrate all'ardore
    D'un ambizioso sogno!


    Vieni, povera vittima,
    Vieni!... Al tuo sen mi stringi!
    Al par di mille ipocrite,
    Taide, il delirio infingi!
    A sozze man proficua
    Tu stessa non comprendi
    Che la merce che vendi
    E` una perla preziosa!


    Vieni!... Svanita l'estasi
    Col sol di domattina,
    Ti lascero`, per correre
    Dietro un'Arte Divina....
    Ne` subiro` la nenia
    Di promesse o lamenti,
    Che dei versi fluenti
    Potrian rompermi il filo!...


    Milano, ottobre 1875.

    LA NOTTE DI SAN SILVESTRO


    La falange dei secoli stanotte
    Si accrescera` d'un milite novello;
    E di tanti dolor, di tante lotte,
    Di tante gioje, raccolte in un anno,
    Forse un'eco infedele per memoria
    I di` venturi avranno!
    Per legger dentro ai secoli remoti
    Noi meditiam la forma d'un avello;
    E i nostri figli, cui sarem mal noti,
    Mediteran nei nostri cimiteri,
    Dei nostri eventi tessendo la storia
    E dei nostri pensieri.


    E strana legge!... I tumuli silenti
    Serban per lunghe etadi la parola,
    Mentre le mille voci delle genti
    Duran lo spazio che dura un istante,
    E vanno dei superstiti a morire
    Nel frastuono incessante!
    Ah!... Chi potra` afferrar l'attimo arcano
    Che al tempo stesso sussiste e si invola?!
    Chi mai potra` indicar con ferma mano
    Il limite sottil che fu segnato
    A divider fra loro l'avvenire,
    Il presente e il passato?!


    E noi viviamo; ed ogni di` che fugge
    Segna una ruga sulla nostra fronte;
    E un'agonia lentissima ne strugge;
    E, tremebondi, a noi stessi chiediamo
    Se esisterem, trascorso un anno, ancora;
    E mormoriam: “Speriamo!”
    E interroghiamo gli eventi passati,
    E gli amori, e i dolori, e l'ire, e l'onte;
    E dai mille fantasimi evocati
    Attendiam le speranze ed i conforti,
    Baciando i figli che vedon l'aurora
    E ripensando ai morti.


    Oh!... Tomba sconfinata!... Oh! Eterno Nulla!
    Tremendo Iddio che le esistenze ingoi!
    Oh! Infinito cammin!... Campagna brulla
    Dai nebbiosi orizzonti!... Oceano
    Sovra i cui flutti non scerne la sponda
    L'ansioso sguardo umano!...
    Dimmi, rispondi, che son divenuti
    I giorni senza numero, e gli eroi,
    E i popoli, che in sen ti son caduti?
    Che mai facesti tu di tanta polve
    Che, come l'onda s'accavalla all'onda,
    Su se` stessa s'avvolve?


    Che mai facesti tu di tante glorie,
    Di tanti pianti e di tanti sorrisi?
    Che giovano ai presenti le memorie
    Se chi lasciolle eternamente e` spento?
    Oh!... Triste scherno!... Un'era di mill'anni
    S'accoglie in un accento!
    Oh!... Triste scherno!... Il mozzicon di sego,
    Nella cui scialba fiamma ho gli occhi fisi
    E presso a cui scrivo e bestemmio e prego,
    Val piu` dei raggi insiem moltiplicati
    Che piovvero dal sol su gaudi e affanni
    Nei secoli passati!


    Oh!... Triste scherno!... Il mio vecchio bastone
    Vale gli scettri dei re che son morti!
    Il mio gramo cappel val le corone
    Che il tempo infranse! E il mio mantel sdruscito
    Val le toghe di porpora e di bisso
    Del popolo quirito!!!
    Cesare, Carlomagno e Bonaparte
    Ove siete?... Ove siete?... I volti smorti
    Spingete, o spettri, sovra queste carte....
    Datemi voi l'accento arcano, il verso,
    Ond'io possa descrivere l'abisso
    Su cui sta l'Universo!


    ................................


    Io mi prostro!... In un'orgia di visioni
    S'accascia la briaca fantasia....
    Veggo mari di sangue, e templi, e troni
    Accatastati, e altari, e deliranti
    Moltitudini, e donne, e bare, e fiori,
    E spade luccicanti....
    E tutta questa baraonda vola
    Dinanzi agli occhi della mente mia;
    S'apre ogni bocca e non dice parola;
    Batte ogni piede ed un fruscio non s'ode;
    E, in fondo a un bujo ciel, senza fragori,
    Ogni folgore esplode.


    Talor frammezzo alla gente piccina
    Giganteggia d'un Genio la figura;
    Socchiusi gli occhi e colla fronte china
    Passano i savi delle eta` trascorse,
    Color che innanzi all'arduo problema
    Hanno esclamato: Forse!
    Ed io, fiutando l'aura che circonda
    Questa turba ideal che fa paura,
    Sento le nari tormentarmi un'onda
    Di lezzi e di profumi; una miscela
    D'odor d'alcove e di tombe; l'emblema
    Che la carne rivela!


    ................................


    Dal suolo, ov'io gemevo, rovesciato
    Come un tronco cui svelse la bufera,
    Io mi sollevo.—Il mio sogno e` passato,
    Al pari d'ogni gente e d'ogni evento;
    Sorgo e, senza nudrir stolide fedi,
    Alla vita mi avvento.
    E a lei mi stringo, a questa grama vita
    Irta di noje, vana e passaggiera,
    Ma che all'avida bocca inaridita
    Puo` ancor porger la mistica mammella!
    A questa vita, il solo maravedi
    Dell'umana scarsella!


    Dolce tesor di mie brevi giornate,
    Io ti vo' spendere in luce e in amore,
    In lagrime e in ebbrezze spensierate!
    Ah!... Ch'io frema!... Ch'io viva!... E` nulla il resto!
    Muoja chi non vuol vivere!... I piagnoni,
    Non morti, io li detesto!...
    Io spariro` pria che i capelli bianchi
    M'abbian cinta la fronte, ed ho poche ore,
    Ma vo' morir colla testa sui fianchi
    Ignudi d'una donna amata e bella,
    Ripetendo le libere canzoni
    Di mia mente rubella!


    Milano, dicembre 1876.

    LA SENAVRA[1]


    AI DOTTORI A. MAGNI E A. ARCARI.


    Sognatori incorreggibili;
    Fervidissimi credenti;
    Crani vasti e crani piccoli
    Dai cervelli turbolenti;
    Furibonde creature
    Piene d'ansie e di paure;
    Vociatori allucinati
    Dagli spettri torturati;


    Barcollanti paralitici
    Avviati alla demenza;
    Infelici, cui sovreccita
    L'epilettica potenza;
    Pellagrosi, a cui la Fame
    Dissanguo` le carni grame
    Per dipingere le rose
    Delle mense sontuose;


    Catalettici, insensibili
    Come il cuor d'una beghina,
    Dallo sguardo spento e immobile,
    Dalla testa sempre china,
    Cui l'orrenda malattia,
    Ch'e` peggior dell'agonia,
    Induri` la gamba e il braccio
    Come il ferro e come il ghiaccio;


    Idioti tardi e sucidi
    Dalle stolide risate;
    Silenziosi melanconici
    Dalle fronti ottenebrate;
    Vecchi e bimbi, uomini e donne,
    A cui celan vesti e gonne
    (Dalla modula uniforme)
    La goffaggin delle forme;


    O poeti, cui, per esserlo,
    Non manco` che l'equilibro;
    O confuse e sparse pagine
    Che talor non fan piu` un libro;
    O filosofi egoisti
    Che furiosi, o lieti, o tristi,
    Suggeriste un entusiasmo
    All'indagine d'Erasmo;


    Io vi veggo dell'Ospizio
    Negli androni lunghi e scuri
    Sfilar tutti e, a larve simili,
    Rasentar gli scialbi muri;
    E me stesso e il mondo oblio
    Nell'udir lo stropiccio
    Delle scarpe trascinate
    Sulle pietre levigate.


    Quest'Ospizio, or non e` un secolo,
    Era un chiostro solitario;
    Vi dormian, tranquilli, i monaci
    Fra una cena ed un rosario:
    Quella pace chi rimembra?
    Tutto muta!... E il chiostro or sembra,
    Per le grida e il chiasso eterno,
    Una bolgia dell'inferno!


    Quanti sogni!... Quanti fascini!
    Quanti inani desideri!
    Quante vacue dovizie
    Di ipotetici forzieri!
    Quante inutili ambizioni
    Irte a mille umiliazioni!
    Quanto spreco di esistenze
    Per ridicole parvenze!


    Quanto fremer di battaglie
    Ideali in queste mura!
    Che splendor di luci incognite!
    Che prodigi di natura!
    Che profumi di giardini....
    Nel pensiero dei meschini!
    Che romane orgie evocate
    Dalle femmine eccitate!


    Salve!... Salve!... Questo popolo,
    Che stropiccia i corridoi,
    E` di re un'augusta accolita!
    E` un manipolo d'eroi!
    Sono artefici immortali!
    Sono duci e generali!
    Sono menti sovrumane!
    Son duchesse e cortigiane!


    Questo giovane, che medita,
    E` un sapiente... che sa nulla!
    Questa vecchia ottuagenaria
    Va affermando esser fanciulla!
    Questo mostro d'ambizione
    Vi domanda un mozzicone!
    Questo semplice artigiano
    Vuole onori da sultano!


    Una donna, melanconica
    E dal volto deformato,
    Vi susurra: “Dunque, Emilio,
    “Non m'inganno!... Sei tornato!”
    Ed un'altra, in foggie strane,
    Si rimbocca le sottane
    Al disopra dei ginocchi,
    Ammiccandovi degli occhi!


    Chi combatte cogli spiriti
    Grida, impreca e il braccio ruota;
    Altri, al suol cadendo supplice,
    Resta in estasi devota;
    Poi proteste, insulti ed ire!...
    “Io son savio!... Voglio uscire!
    “Scellerati!... Al cenno mio
    “Ubbidite!... Io sono Iddio!...”


    Se la vita e` un mar simbolico,
    E se noi siam naviganti;
    Se quaggiu` bonaccie e turbini
    Voglion dir sorrisi e pianti,
    O miei buoni, questa gente,
    Che non sa dov'e` l'oriente,
    Questi miseri sparuti
    Sono naufraghi perduti!...


    Ahi!... La Scienza, con un gemito,
    Dietro a lor perde il coraggio,
    Ne` sa ancor qual sia la gomena
    Da gettar pel salvataggio!
    Incessante l'uragano
    Scuote il rabido oceano....
    Ed i fragili intelletti
    Si frantuman tra gli affetti!...


    Fedi e infamie, amori ed odii,
    Amarezze ed illusioni!
    Ecco i venti, i nembi, i fulmini!
    Ecco i tristi cavalloni!
    Fino il duol del padre oppresso
    Nei nepoti resta impresso,
    E van pazzi a cento a cento
    Per chimerico spavento!


    O follia, sei tu un'orribile
    E fantastica megera
    Che trapassi in mezzo agli uomini
    Come rapida bufera,
    E che godi, sghignazzando,
    A toccare il fronte blando
    Del dormente neonato
    Con un dito arroventato?


    O Follia!... Cupa voragine!...
    Viver... morti!—Esser sepolti....
    Ne` saperlo!—Aver lo spregio....
    E non leggerlo sui volti!
    O Follia!... Pensier tremendo!...
    Forse l'estro ond'io m'accendo
    E` lo stigma del Destino,
    Che mi colse da bambino!...


    ................................


    Le notturne ore discesero;
    Son deserti i foschi androni;
    Gia` i maniaci s'addormentano
    Nei squallenti cameroni;
    Gia` dei poveri sospetti,
    Presso l'ansole dei letti,
    I metodici guardiani
    Assicuran piedi e mani....


    Deh!... Con sogni placidissimi
    La pieta` li benedica!
    Che` sui pazzi sta l'anatema
    D'una duplice fatica,
    E domani essi dovranno,
    Quando tutti sorgeranno
    Dell'albore ai raggi incerti,
    Risognare ad occhi aperti!...


    Dalla Senavra, 26 settembre 1876.


    [1] La Senavra e` il nome dell'ospizio dei pazzi di Milano.]

    IN ALTO


    (A GIUSEPPE GALLOTTI)


    Non domandarmi un cantico
    Per le umane passioni!
    L'inesorabil logica
    M'impone altre canzoni;
    Io non posso piu` esprimere
    Ne` il pianto, ne` la gioja,
    Che` mi vennero a noja
    Le lagrime e i sorrisi dei viventi.
    Mi rifiuto all'analisi
    Delle cose create,
    Per viver nel delirio
    Di altezze sconfinate;
    Ivi e` un eterno fascino,
    Ivi, un pugno di polve,
    Che ignoto soffio avvolve,
    Sembrano gli astri nello spazio ardenti.


    Dinanzi alla voragine
    Dell'eterna armonia
    Le passioni degli uomini
    Perdon la poesia;
    Cosi` l'estremo rantolo
    Del nocchier si confonde
    Col ruggito dell'onde,
    Su cui passa, tuonando, la bufera!...
    Il Bene e il Mal s'intrecciano
    Nell'assidua natura;
    Il Bene e il Mal s'alternano
    Con sapiente misura;
    E, indivisi, si aggirano
    Fra il turbo dei viventi,
    Gelidi, indifferenti
    A chi piange, a chi ride ed a chi spera.


    La medaglia simbolica,
    Dalla gianica faccia,
    Ha nella prima il gaudio,
    Nell'altra la minaccia;
    Ma si palesa agli uomini
    Sempre con fronte eguale,
    Perche` nel Ben sta il Male,
    Perche` nel Male sta del Bene il germe.


    I contenti e le lagrime
    Dei poveri mortali
    Per variar di secoli
    Saranno sempre eguali;
    I desiderii fervono
    In ogni creatura...
    E il gaudio o la sventura
    Vengono a soddisfar l'umano verme,


    E poi che un giorno ridere
    O pianger gli e` concesso,
    Torna dei desiderii
    Il popolo indefesso;
    La noja uccide il gaudio
    Ed il dolor si accheta...
    E la caduca creta
    Ribeve al fonte dell'antica speme!
    E` una storia monotona
    Degli uomini la storia!
    Sempre lo stesso fremito
    Di bassezze e di gloria!
    Sempre gli stessi gemiti
    Per gli stessi dolori!
    Sempre gli stessi amori!
    Sempre il labbro che ride e quel che geme!


    Al suon delle battaglie
    Succedono le paci;
    Dopo l'orgie del sangue
    Vengon quelle dei baci;
    Come fantasmi, i popoli
    Agitando le braccia,
    Contorcendo la faccia,
    Per un istante passan sulla terra....
    Ne` resta che una debole
    Eco di tanti eventi,
    Che nel frastuon va a perdersi
    Delle novelle genti,...
    Poi ricomincia il turbine
    Dei desiderii arcani,
    Che dai cervelli umani
    Elettrico incessante si disserra!


    Dal sorriso d'un popolo
    Nasce d'un altro il pianto;
    Per una gente e` un empio
    Chi per un'altra e` un santo;
    E le bufere scrosciano,
    E il sol sfavilla, e i fiori
    Si veston di colori,
    E nello spazio rotean le stelle!...


    Tutti, mendichi e principi,
    Deboli e forti, tutti
    Proviam gli stessi gaudii,
    Abbiam gli stessi lutti!
    Il Bene e il Mal ci scuotono
    Coll'istessa potenza,
    E l'umana sapienza
    Alla gran legge invan si fa ribelle!...


    No, il sorriso degli uomini,
    No, degli uomini il pianto,
    Nel cranio mio non destano
    Giocondo o mesto un canto;
    Perch'io so che le lagrime
    Fan piu` dolci i sorrisi;
    Perch'io so che indivisi
    Il Bene e il Mal s'aggiran fra i viventi.
    Sol nell'immensa sintesi
    Delle cose create,
    Nel supremo delirio
    Di altezze sconfinate
    Trovo dei carmi il fascino!
    Ivi, un pugno di polve,
    Che ignoto soffio avvolve,
    Sembrano gli astri nello spazio ardenti.


    Giugno 1875.

    CIRCOLO


    (A PAOLO GORINI)



    Un di` d'autunno, al tramontar del sole,
    In un ermo giardino entro` la Morte;
    E impallidir le rose e le viole
    Presaghe di lor sorte.


    Le foglie, scosse da leggiero vento
    E per sottil pioviggin lagrimanti,
    Siccome colte da orribil spavento
    Si fecero tremanti.


    E dal bigiastro ciel, parlando ai fiori,
    Disse una voce: “Cosi` vuole Iddio!
    “Voi dovete morire!—Addio colori!
    “Olenti effluvii, addio!”


    E la Morte passava.—Un'armonia
    Di indistinti sospiri e di lamenti
    Sorgea dovunque, ovunque la seguia
    Nei sentieri silenti.


    Eran sospiri timidi, repressi,
    Come il fruscio d'un abito di dama
    Che va di notte a colpevoli amplessi;
    Era un pianto, una brama


    Di restar fiori e foglie un giorno ancora.
    Un povero giacinto domandava
    Di lasciargli veder la nuova aurora...
    Ma la Morte passava.


    Il giranio avvizziva; le viole,
    Baciandosi fra lor con aria mesta,
    Diceansi addio, e sull'umide ajuole
    Chinavano la testa.


    Solo una rosa, una fulgida rosa
    Dal vivace color, nata il mattino,
    Surse a lottar, fidente e coraggiosa,
    Coll'avverso destino.


    E alla Morte grido`: “Perche` degg'io
    “Morire adesso che son nata or ora?
    “La mia parte di vita io chieggo a Dio...
    “Io vo' vivere ancora!”


    “Perche` vivere ancor?”—chiese la Morte.
    “Perche` ho terror del nulla...”—“Erri; m'ascolta:
    “Morir non e` svanir, ma cambiar sorte,
    “Nascere un'altra volta...


    “La mia man non distrugge, ma trasforma;
    “Apportatrice di vita indefessa,
    “La Materia non muor; muta la forma,
    “Ma la creta e` la stessa.”


    —“Lasciami dunque la forma presente,
    “Con te non mi lagnai della mia sorte.
    “Io voglio restar rosa eternamente!...”
    —Le rispose la Morte:


    “E che dira` la terra, a cui tu devi
    “Porger te stessa in provvido alimento?
    “Tu dalla morte altrui vita ricevi;
    “A te l'altrui tormento


    “Da` l'esistenza; il loto che si muta
    “Nel tuo stelo e le foglie ti colora,
    “Muore anch'ei; d'esser rosa ei si rifiuta
    “Ma pur convien ch'ei mora!...


    “A che tanto terror?... Prima d'un mese
    “Che saran le tue foglie?... Od aria o loto.
    “Per ridonarle a te, l'April cortese
    “Le fara` d'aria e loto.


    “La stessa brama, che tu senti, avranno,
    “Morir dovendo, l'aria e il loto allora...
    “Ma poi, mutati, Iddio benediranno
    “D'essere rose ancora...


    “Benediran l'Ente Infinito e Ignoto
    “E d'esser rose lo ringrazieranno,...
    “Per poi lagnarsi il di` che in aria o loto
    “Rimutarsi dovranno!


    “E` un'assidua vicenda!...—Il neonato
    “E` vecchio quanto il Tempo!—E` un'infinita
    “Catena!... Tutto muore!... E nel Creato
    “Freme eterna la vita!...”


    Tacque e passo`.—Cadean le foglie a mille
    Giallastre e secche; e dietro i tenui fusti
    Biancheggiavan le mura delle ville;
    E gli sfrondati arbusti


    Parevan membra di bimbi malati
    Usciti da mefitici ospedali;
    Borea scopava coi buffi gelati
    Le foglie nei viali;


    E intorno, intorno, un susurro s'udia
    Confuso e fioco, come il suon lontano
    D'un'arpa, cui chiedesse un'armonia
    Un'aerea mano.


    Era un canto di grazie; era un concento
    Che nel vespro nebbioso si perdea;
    Le foglie e i fior caduti, a cento, a cento
    Lo ripetean.—Dicea:


    “Ave, o Signor, che ci desti la vita,
    “Che loto ed aria quaggiu` ci mettesti!
    “Possente Iddio, la tua bonta` infinita
    “Fa che si manifesti!...


    “Possente Iddio, ci manda un po' di piova!
    “Possente Iddio, ci manda un po' di neve!
    “E tien lungi l'April, che in forma nova,
    “Aime`, mutar si deve!


    “Deh!... Tien lungi l'Aprile!... Ave, o Signore!
    “Noi siamo lieti della nostra sorte...
    “L'April tien lungi, che` mutarci in fiore
    “Vuol dir darci la morte!”


    Milano, giugno 1875.

    A FULVIO FULGONIO


    O modesto filosofo,
    Che giunto a quarant'anni,
    Fra l'incessante turbine
    Di miserie e d'affanni,
    Vivi solingo e povero,
    E nel tuo cor securo
    Sotto l'usbergo del sentirti puro,


    Di' qual e` dunque il tramite
    Che al sepolcro conduce
    E cui conforta il raggio
    D'inestinguibil luce?
    Dimmi, come si vincono
    Queste umane tempeste,
    Che fan le genti o torve, o tristi, o meste?


    Verso la tomba scendere
    Io ti contemplo, o amico,
    Come l'ombra di Socrate,
    Il grande savio antico;
    Tu pure d'ogni infamia,
    Con bocca altera e muta,
    Bevesti in questo mondo la cicuta!


    Deh!... Se una pia memoria
    E un fervido entusiasmo,
    Possono ancora emergere
    Dall'umano miasmo,
    Lascia ch'io possa volgerti
    Quell'arcana parola
    Che sa dire chi soffre e che consola.


    Sorridi ancora!... Passano
    I secoli e le genti,
    E le plebi, al barbaglio
    Degli empi plaudenti,
    Tu non merchi gli applausi,
    Ma sul tuo franco viso
    Ami serbar l'impavido sorriso,


    O modesto filosofo,
    Spesse volte affamato,
    Io mi faccio una gloria
    Di camminarti allato!
    O dolce amico, insegnami
    A vivere securo
    Sotto l'usbergo del sentirmi puro!


    Agosto 1875.

    LA CHIESETTA DEI MORTI


    (A GIULIO CORSARI)


    L'ho vista la chiesuola; essa e` perduta
    In mezzo ai campi come un eremita;
    Ed e` deserta, solitaria e muta,
    Qual chi studia il problema della vita.


    O teschi, o tibie, o stinchi ammonticchiati,
    Macerie umane, chi vi mosse in terra?
    Insiem congiunti come v'han chiamati?
    Becero, Truffaldino o Fortinguerra?


    Sotto una rozza lapide sconnessa
    Dorme il vecchio curato del villaggio;
    Egli almen cogli offizii e colla messa
    Il nome a questa eta` lascio` in retaggio!


    Ma un teschio, posto la`, sul cornicione
    Con cent'altri, ridendo, par che esclami:
    “Bel profitto davver, se le persone
    “Deggion dir ti chiamavi e non ti chiami!”


    Ed e` un teschio giallognolo e pulito
    Siccome d'un nodar la pergamena,
    Ed ha la nuca dal profilo ardito
    E guarda in giu` con un'occhiaja appena.


    ................................
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    ................................
    ................................


    E` il mattino.—Sull'erba verde e folta
    Scintillano le gocce di rugiada,
    E il ritornello da lontan s'ascolta
    D'un villano che passa sulla strada.


    La Natura e il Lavoro!—E poi?—La testa
    Poggiar sul cornicione d'una chiesa,
    Coi passeri che intorno le fan festa
    O col becco alle vuote orbite offesa!


    E contemplare i proprii stinchi ignudi
    In una nicchia, messi insieme a mille,
    O (peggio ancora) un poeta che sudi,
    E cerchi un verso alzando le pupille...


    Ei colla vita di cento persone,
    (Che visser forse ognuna settant'anni)
    Fara` dieci quartine o una canzone.
    Che l'udito ai viventi o strazii, o inganni!...


    Poveri morti, perdonate!—Tutti
    Amor vi concepi`; tutti una madre
    E un padre aveste; e amaste; e foste tutti
    Sposo, figlio, fratello, amico o padre...


    Per una strofa che dalla matita
    Mi cade, voi viveste, ahime`, tant'anni!
    Un sol mio verso e` costato una vita!...
    E una mia rima chissa` quanti affanni?


    Castelleone, agosto 1874.

    A UNA DONNA INTELLIGENTE


    Quand'io lessi i tuoi versi
    Ho pensato alla gioja
    Immensa e alla sventura
    Di chi puo` amarti, o bella creatura.


    Ho pensato all'arbitrio del destino,
    Che ti formo` col puro caolino
    Con cui formo` il cervello dei veggenti:
    Ho pensato al delirio
    Di chi bacio` i tuoi begli occhi lucenti;
    All'angoscia di chi, dopo il delirio,
    Vorra`, tremante, interrogarti il cuore,
    E, forse, trovera` lento e sbiadito.
    Come un suono che muore,
    L'amoroso battito!


    Strano connubio!... Donna e intelligenza!
    I sogni, che s'incarnano
    Nella gentil parvenza!
    Strano connubio!... Intelligenza e donna!...
    Lucifero che cela il ghigno orrendo
    Sotto un pallido volto di Madonna!
    Una bionda e leggiadra testolina,
    Un gingillo da por sovra un guanciale,
    Che scruta ed indovina
    Il cupo abisso del Bene e del Male?
    Strano connubio!... Donna e intelligenza!...
    Una mandola, cui la man d'amore
    Sa cercare una languida cadenza,
    E a cui scuote le corde
    Questo fantasma che sussulta e spia,
    E bacia, e sferza, e morde,
    E che gli umani chiaman: Poesia!


    Quand'io lessi i tuoi versi
    Ho pensato alla gioja
    Immensa e alla sventura
    Di chi puo` amarti, o bella creatura!


    Io vorrei che alla mia donna adorata
    Mormorasse un mortal detti d'amore,
    Perch'io potessi trafiggergli il cuore
    O morir di sua mano;
    Ma, ginocchioni, il ciel supplicherei
    Che tenesse lontano
    Dal suo capo gentile
    Il piu` spietato dei rivali miei,
    Il Pensier, che solleva
    Il tristo tentatore
    Che un di` fe' perder Eva
    E poi distrusse ogni sogno d'amore.


    E s'io t'amassi, ti verrei dinanzi
    Colle lagrime agli occhi e il viso bianco,
    E, come un pellegrin d'affanni stanco,
    Singhiozzando ai tuoi pie' mi getterei
    E, baciandoli, o donna, io ti direi:


    “Di non udir quaggiu` che la mia voce,
    “E d'esser sorda alle melodi arcane
    “Che vibrano nel tuo capo adorato;
    “Perch'io temo che il sol della dimane
    “Ti risvegli piu` fredda all'amor mio;
    “Perch'io temo che i baci del Pensiero
    “(Funestissimo Iddio)
    “Ti tolgano per sempre ai baci miei!”


    Questo, o donna, piangendo, io ti direi.


    E se tu volgerai, dolcezza mia,
    Quasi ammaliata, le pupille al cielo
    Ov'abita il tuo Nume, io, soffocando
    Nel profondo del cor la gelosia,
    Afferrero` la balza del tuo velo
    Per tenerti qui in terra... o per morire,
    Se a quella reggia d'oro
    Poeta e donna, tu vorrai salire.


    Agosto 1876.

    IL DI` DEI MORTI


    Quest'oggi il calendario
    Segna il giorno dei morti,
    Il giorno in cui gli scheletri
    Han mistici conforti,
    Ed io, seguendo il popolo
    Come sopra pensiero,
    Mi trovo al cimitero
    Fra i cippi a vagolar.
    Qui tra le mute lagrime
    Delle madri dolenti,
    Tra gli ipocriti gemiti
    Degli eredi parenti,
    Tra i fiori che inghirlandano
    I cippi biancheggianti,
    Rovistando i sembianti,
    Comincio a meditar.


    Chi mi disse che il funebre
    Campo, ov'io sono, ispiri
    Pensieri melanconici,
    Desolanti deliri?
    Chi mi disse che incutono
    Disinganni e paure
    Le mille sepolture
    Che stan dinanzi a me?
    Qui, dove gli altri parlano
    D'incompresi destini;
    Qui, dove gli altri perdonsi
    In mar senza confini;
    Qui, dove tutti fremono
    D'indicibil terrore,
    A me si spegne in cuore
    Ogni bugiarda fe`.


    Sulle zolle che atteggiansi
    A smaglianti ajuole,
    Tra i fiori, che si volgono
    Desiosi ai rai del sole,
    Della Morte io non veggio
    La larva ischeletrita;
    Non la Morte, la Vita,
    O miei fratelli, e` qui!...
    La Morte!... Che significa
    Questa strana parola,
    Che fa sgomento ai timidi
    E che i forti consola?
    La Morte!... Chi mi scioglie
    Questo fatal segreto,
    Che al cerebro d'Amleto
    Il dubbio suggeri`?


    E` la Morte una fisima
    Delle pusille menti!
    Se nacquer dai cadaveri
    L'erbe ed i fiori olenti,
    Se i vermi ha fatto nascere
    La carne imputridita,
    La forma, e non la vita,
    D'esistere cesso`!...
    L'operosa materia
    Convien che a se` ritorni;
    La Morte e` legge assidua;
    Noi moriam tutti i giorni!
    Noi moriam, trasformandoci
    Da bimbi in giovinetti!
    Noi moriam cogli affetti
    Che il nostro cor provo`!


    Perche` cercar nell'anima
    Le fede e la speranza?
    Perche` cercar nell'anima
    La postuma esultanza,
    Se scioglier la materia
    Ci puo` il fatal problema,
    Se il mistico poema
    Essa cantar ci sa?
    Essa, l'eterno simbolo;
    Essa, l'eterna Dea;
    Essa, da cui germogliano
    E l'albero e l'Idea;
    Essa che da` alle indagini
    I responsi piu` esatti,
    Che non i sogni astratti
    Delle trascorse eta`!


    Che v'importa dell'anime
    Dei figli trapassati,
    O padri, sovra i candidi
    Sepolcri inginocchiati?
    Via!... Chiudete l'orecchio
    Ad una sciocca turba,
    Che il pensier vi conturba
    Con sogni di terror!
    I vostri figli vivono;
    Sono raggi di sole,
    Son glebe, son garofani,
    Son aria, son viole;
    Voi, pregando sugli umidi
    Fiori o sui secchi dumi,
    Ne aspirate i profumi
    E vivete con lor.


    Oh!... Dite ai mille ipocriti
    Dalle fisime strane,
    Che noi, togliendo l'anima
    Alle credenze umane,
    Non vi togliamo il balsamo
    Delle memorie pie,
    I canti e l'armonie
    Che sanno consolar!
    Credete alla Materia
    Per creder nell'Eterno;
    Il Bene e il Mal sussistono;
    Ecco il Cielo e l'Inferno!
    Religion purissima
    E` la Scienza, la luce
    Che gli uomini conduce
    Ad amarsi e pensar.

    PER IL SANTO NATALE


    (A EUGENIO TORELLI-VIOLLIER)


    Eugenio, l'abitudine
    E` una cinica Dea,
    Che avveleno` coll'alito
    Ogni sublime idea!
    Profuse il genio ai popoli
    Le perle smaglianti
    E un'orda di baccanti
    In pietre le muto`!


    Dal di` che all'Evangelio
    Pace e conforto io chiesi,
    Dal di` che il cor degli uomini
    A interrogare appresi
    E, come un serpe, ascondersi
    Vidi nel Bene il Male,
    Il giorno di Natale,
    Da allora mi indigno`!


    I poetastri raglino
    Vieti e melliflui canti,
    Le olenti dame pensino
    Ai bambini lattanti,
    Credan davver gli stolidi
    Ch'oggi ogni sdegno e` spento,
    Biascichi un complimento
    Ogni bocca volgar!


    Io, solitario, medito
    Chiuso nella mia stanza
    Che retaggio di popoli
    Grulli e` una grulla usanza...
    Ne` a vagolar pei trivii
    Coi miei pensier discendo,
    Che` fuggo un quadro orrendo
    Che m'eccita a imprecar.


    Giu` v'e` un delirio, un'orgia
    Di sangue e di carname;
    Polpe squarciate e muscoli
    Ornati di fogliame,
    Bestie sgozzate e viscere
    Ancora palpitanti,
    E rosse man fumanti,
    E gocciolanti acciar!


    Lungi da me l'orribile
    Tripudio dei macelli,
    Ove le fronti pallide
    Di pecore e vitelli,
    Trofeo spaventevole,
    Col livid'occhio spento,
    Mandandomi un lamento,
    Mi possono guardar!


    Lungi da me, o limosine
    D'un mondo imbellettato,
    Chicche donate ai bamboli
    D'un popolo affamato!
    Lungi da me l'ingenua
    Fede dei tardi ingegni,
    Che spengansi gli sdegni
    Coll'agape d'un di`!


    Lungi da me quest'ebete
    Sfida a chi piu` divora,
    Quest'inno che da gonfie
    Ventraglie erutta fuora!
    Lungi da me l'effluvio
    Di frutta e di dolciumi,
    A cui gli acri profumi
    Inutil sangue uni`!


    O triste lotta!... O vincolo
    Fatal della Natura!
    E` ver, dell'altrui sangue
    Vive ogni creatura!
    E` ver, la morte e` il nocciolo
    Che genera la vita!
    In terra e in ciel scolpita
    La dura legge io so!...


    Ma, per far festa, uccidere,
    Non per sbramar la fame;
    Ma il rider tra i cadaveri,
    Gridando: Pace!... e` infame!
    Ma l'esclamar tra i rantoli
    Quest'oggi e` un giorno gajo!
    E` lazzo da beccajo
    Che il sangue inebrio`!


    Deh! Se nei vostri pargoli
    Sensi d'amor bramate
    Dal barbaro spettacolo,
    Madri, li allontanate...
    O scenderanno funebri
    Fantasimi crudeli
    A rapir loro i cieli
    Del sonno verginal!


    Ah! dite lor che scordino
    Quest'efferata usanza;
    Che a feste meno stolide
    Rivolgan la speranza;
    Che verra` un di` in cui gli uomini
    Saran davver fratelli,
    Senza l'orgie e i macelli
    Di questo saturnal!


    25 dicembre 1876.

    CORAGGIO!


    (AD ALBERTO BARBAVARA)


    Tu sogni una condotta, un bel villaggio,
    Dall'esil campanile, a mezza china.
    Che si imporpori al raggio
    Del sol, quando declina,
    Come la guancia d'una giovinetta
    Cui si parli d'amore.


    O mesto amico mio, biondo dottore,
    Talor lo sogno anch'io
    Questo tranquillo oblio;
    Talor m'accascio anch'io sul mio dolore
    Penso alla noja arcana
    Che da ogni cosa emana;
    Penso a quelli che furono
    E a quelli che verranno;
    All'albe ed ai tramonti ed all'affanno
    Che domina creato e creature;
    Alle molte sventure
    Ed ai pochi sorrisi
    Concessi a quei che pensano; alla culla
    Tanto presso alla tomba;
    A questo eterno nulla!


    Tu sogni una condotta, un bel villaggio
    Dall'esil campanile, a mezza china,
    Che si imporpori al raggio
    Del sol, quando declina;
    Ed io perdo il coraggio
    Nella frivola vita cittadina!
    E nei ridotti, ove s'affolla un mondo
    D'ubbriachi e di cretini,
    M'aggiro; e il volto mio cogitabondo
    Porta il riflesso d'inconsci destini...


    Pur se giunge una nota al mio cervello,
    Se vien qualche cencioso menestrello
    A strimpellare una canzon gioconda
    Al mio attonito orecchio,
    Una febbre m'inonda
    Di mille desiderii sconfinati;
    E penso ai vecchi errori, al mondo vecchio
    Che crollera` sotto il mio giovin pugno;
    All'arte nuova; ai versi cesellati,
    Coi quali passo qualche lieta notte
    Della mia giovinezza;
    E ritorno alle lotte,
    Ove soltanto il debole si spezza;
    Ed odio, ed amo, e scrivo,
    E lagrimo talor, ma fremo e vivo!

    DITIRAMBO


    (A EUGENIO TORELLI-VIOLLIER)


    Un giorno, Eugenio, tramontava il sole
    E tu mi stavi accanto,
    Ed al cervello mio le tue parole
    Suggerivano un canto.


    Tu mi dicevi: “La scienza e` la luce
    “Che feconda gli ingegni;
    “E` la guida infallibil che conduce
    “A inesplorati regni...


    Ai regni inesplorati, agli ideali
    “Che tu cercando vai,
    “A cui le menti, che han tarpate l'ali
    “Non arrivano mai.”


    Ed io dicevo: “E` vero!... I giorni miei
    “Passan senza splendori!
    “Oh, quante notti fra i bicchier perdei!
    “E quante fra gli amori!”


    E ripetevo: “La scienza e` la luce
    “Che feconda gli ingegni!
    “E` la guida infallibil che conduce
    “A inesplorati regni!”


    Poscia, rinchiuso nella stanza mia,
    Quella notte vegliai;
    Degli intravisti carmi l'armonia
    Mi si aperse e pensai:


    Scienza, che debbo chiederti?
    Qual ben puoi tu largirmi?
    Ahime`!... Dei canti il fascino
    Forse tu puoi rapirmi!
    L'entusiasmo puoi togliermi
    Che i giorni miei fa lieti!
    L'entusiasmo!... Il tesoro dei poeti!


    Scienza, che debbo chiederti?
    Forse il concetto immenso
    Del nostro nulla?—E` inutile!
    Io questa idea la penso...
    Come da vasto incendio
    Le scintille incessanti,
    Cosi` dal nulla a me vengono i canti


    Tu sai giunger, per aride
    E tortuose vie,
    In lande ove s'impressero,
    Da tempo, l'orme mie!
    Scienza, che debbo chiederti?
    Io volo, e tu cammini...
    Per soffermarci agii stessi confini!


    Puoi tu insegnarmi il numero
    Degli astri roteanti?
    Dirmi che sia lo spazio
    E cosa sian gli istanti?
    Dirmi perche` sussistano
    La luce, l'ombra e il moto,
    E come in foglie si trasmuti il loto?


    Scienza, a creare insegnami
    Un'erba od un insetto;
    A discerner le cause
    Dell'odio e dell'affetto;
    A indovinar l'incognito
    Principio della creta;
    Scienza, dei mondi apprendimi la meta!


    Ed io, fervente apostolo
    E adorator dell'arte,
    Verro` a chiedere l'estasi
    Alle tue dotte carte,
    E vestiro` coi fascini
    D'un eterno poema
    La soluzione del vital problema!


    Ma, fino allora, chiederti,
    Scienza, che deggio io mai?
    Forse l'oro e la gloria
    Che da tempo spregiai?
    Forse di qualche popolo
    Le gesta o la favella?
    Forse una data o il nome d'una stella?..


    Ahime`!...La scienza e` un briciolo
    All'ignoto involato!
    Noi non ghermiam che un atomo
    E gridiamo: E` il Creato!...
    E perdiamo nell'ansie,
    E perdiam negli affanni
    L'incantevol sorriso dei verd'anni!


    E poi, giunti sul margine
    Della vita che fugge,
    Anco cinti di gloria,
    Un pensiero ne strugge;
    E` del Nulla il fantasima
    Che nell'estrema prova
    Ci mormora all'orecchio: Or, che ti giova?...


    Lo so; i verd'anni passano
    Pei dotti e pei gaudenti,
    E forse nel silenzio
    Degli anni miei cadenti,
    Triste e scorato, ai fervidi
    Giovani di` pensando,
    Anch'io dovro` ripeter lagrimando:


    “Stolto!... I bei sogni sparvero!
    “Sparvero e nappi e amori,
    “E i giorni tuoi tramontano
    “Qual sol senza splendori!
    “Scendi, rabbiosa ed invida,
    “Nella tua sepoltura
    “A mutar forma, o volgar creatura!”


    E` ver!... Ma tutti muojono,
    E dotti e gaudenti!
    E allor che giova il plauso
    O il biasmo delle genti?
    In un pugno di polvere
    L'incompreso Destino
    Muta i cranii di Dante e d'Arlecchino!


    ................................
    ................................


    Viviam!... Rubando un briciolo,
    Affannosi, all'Ignoto,
    O tessendo una lirica
    Ad un pugno di loto,
    Pensiam che i giorni passano,
    E che—forse—Alighieri
    Invidia il bimbo partorito jeri...


    E vorrebbe rivivere
    Per giornate piu` liete,
    Soffocando nel cerebro
    Della Scienza la sete,...
    Per poi—forse—rimpiangere,
    Fatto vecchio, gli allori
    Fra le tazze obliati e fra gli amori!


    Viviam!... Rubando un briciolo,
    Affannosi, all'Ignoto,
    O tessendo una lirica
    Ad un pugno di loto,
    Pensiam che i giorni passano
    E che—forse—Arlecchino
    Vorria rinascer per studiar latino


    E vorrebbe rivivere
    Per diventar dottore,
    L'esilarante arguzia
    Soffocando nel cuore...
    Per poi—forse—rimpiangere,
    Fatto vecchio, le cene
    Rubate al ventre... dalle pergamene!


    Viviam!... Dei desiderii
    E` la turba infinita;
    Per soddisfarla gli uomini
    Troppo breve han la vita!...
    E vivesser coi secoli
    Convien che il labbro gema:
    “Noi siamo affranti...o la turba non scema!”


    Viviam!... Lasciam che passino
    Servi all'istinto gli anni!
    Tutti avrem pari i gaudii,
    Tutti pari gli affanni!....
    L'eternita` in un circolo
    Infinito ne serra!...
    E` il Nulla in cui s'avvoltola la terra,


    Luglio 1875.

    PER UNA SUICIDA


    Una bionda fanciulla innamorata
    Dal terzo piano si getto` stasera.
    L'han raccolta piangendo ed e` spirata!


    Domani i preti, colla stola nera,
    Com'e` costume, a prenderla verranno
    Recitando la solita preghiera;


    Domani tutti il nome suo sapranno,
    E morra` nel frasario d'un giornale
    Questa epopea d'un immenso affanno!


    Poveretta!... La veste nuziale
    L'attendeva coll'alba!... Ella ha voluto
    Mutare in epitaffio un madrigale!


    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


    Un tempo, anch'io, giovinetto inesperto,
    Credea nei libri di legger la vita,
    E non vedea che sterile deserto!


    E rivivea la fantasia romita
    In epoche lontano; in mezzo a gente
    Che incancellabil orma avea scolpita.


    E tutti mi diceano amaramente:
    “Che noi non siam che un popol di fantasmi;
    “Che i nostri affetti son ceneri spente;


    “Che son svaniti amori ed entusiasmi;
    “E che i lampi e i profumi eran mutati
    “In fosforo volgare ed in miasmi!”


    Ed io discesi nei trivii affollati,
    Non recando ne` fedi ne` illusioni,
    Arido figlio di padri annojati.


    Ma l'impeto fatal delle canzoni
    Tacitamente palpitar mi fea!
    Ed io, passando fra i tristi e fra i buoni,


    Fra lo splendore d'una eterna idea
    E le tenebre folte, il mar solcando
    Degli eventi, che intorno a me fremea,


    L'oltraggio fatto a noi dissi esecrando;
    E nella notte altrui trovai l'aurora;
    E risi e piansi anch'io; e lagrimando


    La strofa mi sgorgo` calda e sonora;
    E ritrovai la fede e la speranza,
    Perche' m'accorsi che si vive ancora!


    Si`!... Si vive! Si lagrima! Si danza!
    Come un di`! Come sempre! E infin che luce
    Avra` il sole ed i fiori avran fraganza,


    Questo dramma, ora lieto ed ora truce,
    In cui tutti abbiam parte, ed e` la vita,
    E che un'ignota man scrive e conduce,


    Palpitera` di passione infinita,
    Miscela arcana d'ombra e di splendore!
    E tu eterna starai (lampa romita,


    Oppure incendio divampante) Amore!


    Ottobre 1876.

    QUANDO?


    (A DINO MARAZZANI)


    Quando i giorni verranno
    Della malinconia,
    E morira` d'affanno
    Nel mio cranio la giovin fantasia,


    Io pensero` alle notti,
    Che passai con me stesso;
    Agli studii interrotti
    Per meditar della lampa al riflesso;


    Io pensero` alle sere,
    Che, coi pochi diletti,
    Confusi le preghiere
    Per l'Arte, per il Vero e per gli affetti.


    Allora, stanco anch'io
    Dei furbi e dei cretini,
    Mi sentiro` il desio,
    Il santo ardor di piu` vasti confini!


    Stringero` nella mano
    Un nodoso bastone,
    E me ne andro` lontano
    Un balsamo a cercar, l'oblivione...


    Andro` verso l'Oriente,
    Col sole sulla fronte,
    Guardando avidamente
    La linea circolar dell'orizzonte.


    E baciero` le siepi
    E i fiori per la via,
    E cerchero` i presepi
    Ove deporre la stanchezza mia.


    E scendero`, pensando,
    Alle vaste marine;
    E vedro`, palpitando,
    Gli splendidi tramonti e le mattine.


    Ritrovero` la vita
    Nell'immensa natura;
    E la gioja infinita
    Del creato empira` la creatura...


    Parmi d'aver dinanti
    Le romite vallate;
    Le strade biancheggianti
    Ove la fine polve arde in estate;


    Odo stillar le fonti
    Dallo spungoso tufo
    E, la sera, fra i monti,
    Stridere il grillo ed ululare il gufo.


    Sento l'acre profumo
    Dell'erbe e delle piante
    E, sull'umido dumo,
    La verde cavalletta saltellante.


    Poi, quando il giorno estremo
    Degli erranti miei giorni,
    Col comando supremo
    Vorra` che in vermi il corpo mio ritorni,


    Io cerchero` una sponda
    Giallastra e desolata,
    Ove si franga l'onda
    D'una glauca marina sconfinata


    La` posero` le spalle
    Sull'arena minuta,
    Che, come eterna valle.
    Verso un fondo nebbioso andra` perduta;


    Rammentero le storie
    Della mia giovinezza;
    Rivivro` di memorie,
    Di pianto, di speranza e d'allegrezza;


    Ed atomo piccino
    Dinanzi alla Natura
    E dinanzi al Destino,
    Coll'unghie mi faro` una sepoltura,


    Guardero` i cieli azzurri,
    Il mar pieno d'incanti,
    Di calme e di susurri,
    E i pulviscoli in aria roteanti.


    La` moriro` tranquillo
    Dagli uomini lontano...
    E, forse, fatto brillo
    Dall'agonia, colla tremula mano.


    Sovra la sabbia ardente,
    Pensando all'universo,
    Tracciero` sorridente,
    O dolce amico mio, l'ultimo verso.

    ARS, ALMA MATER


    (AD ALBERTO BARBAVARA)


    L'Arte morra`!... o La splendida
    Arte che amiamo, o Alberto,
    Morra`, come ingannevole
    Miraggio del deserto!...
    Oh! Tu non sai l'angoscia
    Che in petto mi fremea
    Quando la triste idea
    Nel cranio mi guizzo`!
    Nata col primo palpito
    Dell'umano pensiero,
    L'Arte non era in fascie
    Quando cantava Omero;
    Ma dalle vette olimpich
    All'Ellenia stupita
    Dicea: “Narro la vita
    “D'un'arte che passo`!”


    Dal sacro fiume Egizio,
    Dal Gange e dal Giordano
    Alle colonne d'Ercole
    Che chiudean l'oceano,
    Errante coi fenicii,
    Ape del sen fecondo,
    Ella verso` sul mondo
    Il miel di sue virtu`.
    E ad Iside e ad Osiride
    Eresse monumenti;
    E verseggio` le pagine
    Dei vecchi testamenti;
    E tocco` l'arpa a Davide;
    E al popol patriarca
    Disegno` l'are e l'arca;
    E celebro` Visnu`.


    In Grecia Apelle e Fidia
    Le chieser marmi e tele;
    Ella insegno` la linea
    Divina a Prassitele,
    E a Socrate e a Demostene
    La possente parola,
    E ad Eschilo la scuola
    Delle passioni apri`.
    Le mani d'Aristotile
    Ne composer la storia;
    La chiamo` Saffo, in lagrime,
    Amor; Pericle, gloria;
    Inspiro` l'odi a Pindaro;
    Segui` Alcibiade a festa;
    E gaja dalla testa
    D'Anacreonte usci`...


    Poi trasvolo`, coll'aquile
    Delle legioni, a Roma;
    Ed intrecciando i lauri
    Alla fluente chioma,
    Canto` i trionfi, il sonito
    Delle tube guerriere,
    Le spoglie e le bandiere
    Del Lazio vincitor.
    E quando la Repubblica,
    L'invincibile atleta,
    Sotto il pugno di Cesare
    Si sfascio` come creta,
    Ella, che adora il genio,
    Nella bellezza avvolto,
    Bacio`, plaudente, in volto
    L'audace lottator!


    E l'adoro`, recandogli
    Un impero a tributo;
    E, ad eternarlo, complici
    Ebbe Tacito e Bruto;
    E quando ei cadde, vittima
    Di vendetta gloriosa,
    Gli suggeri` la posa
    In cui dovea morir.
    Sovra il suo corpo esangue
    S'abbandono` piangendo;
    E si tempro` all'incudine
    D'uno spasimo orrendo...
    Poi surse, e avea nell'occhio
    Sguardi cosi` possenti
    Che n'arsero le menti
    Nei secoli avvenir,


    Ella narro` a Virgilio
    L'egloghe e l'epopee;
    Apprese in versi a Orazio
    Le proverbiali idee;
    E rizzo` terme e templii,
    E circhi e colossei,
    E sogghigno` agli Dei,
    Agli auguri, agli altar.
    Dai lidi della Nubia
    Chiamo` il pardo e il leone;
    Tolse a femminee viscere
    Caligola e Nerone;
    Rovescio` il bianco pollice
    In faccia ai moribondi,
    E chiese se altri mondi
    Eran da conquistar!...


    Mutati i lauri in pampini.
    Nuda dal capo ai piedi,
    A mense interminabili
    Volle Eterie e Cinedi;
    E, briaca, in un'orgia,
    Di vino e di deliri,
    Cadde dai drappi assiri
    Sul pavimento d'or.
    Fra i bianchi intercolonnii
    Ella era ancor sopita,
    Quando un profeta mistico
    Venne a chiamarla in vita.
    Ei la copri` col ruvido
    Manto, le die` una croce,
    E colla blanda voce
    Le favello` d'amor.


    Cosparsa il crin di cenere
    Seco a pregar l'addusse;
    La conforto` di massime
    Soavi ed inconcusse,
    E in mezzo a ignoti popoli,
    Quasi selvaggi ancora,
    Vestitala da suora,
    La chiuse in monaster.
    Ella, seguendo l'indole
    Di sua mondana vita,
    Da preci e da cilicii
    Affranta ed intristita,
    Per scongiurar la noja
    Del chiostro freddo ed ermo,
    Tradusse in canto fermo
    I timidi pensier.


    Indi minio` una bibbia,
    Cesello` dei rosari,
    E ricamo` in fantastici
    Fregi gli scapolari...
    La santita` dell'opere
    La rese ardita, e un giorno
    A un'asse si fe' attorno
    Con piume e con color,
    E disegno` un'aureola
    In mezzo a cui, raggiante,
    Pinse il volto mitissimo
    Del suo profeta e amante;
    E, le pupille in lagrime,
    Compunta a divozione,
    Disse alle genti buone:
    “Questi e` Nostro Signor!”


    Fu la sua voce armonica
    Che il nuovo dogma apprese;
    Fu per sua man che sursero
    E metropoli e chiese;
    E dissero i miracoli
    Di sue glorie passate,
    Le aguglie, le navate,
    I poemi e gli altar.
    Pur, colle glorie, l'orgia
    Fatal non iscordava;
    E il giorno che un Pontefice
    La volle far sua schiava,
    L'Arte, la bella indomita,
    Volse le spalle al tristo,
    E fea ritorno a Cristo
    Per piangere e pregar.


    Un'invincibil nausea
    Le saliva alla bocca,
    Che` l'andazzo del secolo
    La fea torva e barocca;
    Eran grottesche immagini
    Di frati, angioli e santi
    Con manti svolazzanti
    E iperbolici pel;
    Erano idee rachitiche
    Cinte di gonfie vesti;
    Sparia la pura linea
    Sotto i fregi funesti;
    E nei giardini mistici
    Della latina scuola
    Il puzzo di Lojola
    Isterilia gli stel.


    E Sanzio, e Michelangelo
    Non eran polve ancora
    Quand'ella in Francia e in Anglia
    Vide la prima aurora;
    E, mentre di Giansenio
    La pura man guidava,
    Fremeva e palpitava
    D'Amleto col cantor.
    Poscia amo` i nei, la cipria,
    Le satire mordenti;
    Chiamo` gli Enciclopedici
    In sale aurate e olenti;
    E, per fuggir degli Arcadi
    L'inesorabil belo,
    Della Germania al Cielo
    Cerco` sorti miglior.


    Ma sulla strada un pallido
    Giovinetto severo
    La soffermo`, dicendole:
    “Io mi chiamo Pensiero.
    “Il mondo mi perseguita;
    “Io gli grido che l'amo;
    “Ma son povero e gramo,
    “E non mi vuole udir!
    “Tu sei leggiadra, e gli uomini
    “Aman le cose belle;
    “Or ben, di' lor che il raggio
    “Io scrutai delle stelle,
    “Che la pena ed il premio
    “Impartiro` a chi tocca;
    “Per la tua rosea bocca
    “Io mi faro` capir!...”


    L'Arte e il Pensier si amarono.
    Ella porse al Pensiero
    Le gioje che sollevano;
    Egli le apprese il vero.
    Ma l'Arte, esperta e provvida,
    Reco` al novello tetto
    Di cortigiana il letto,
    Di monaca il pudor.
    Dall'ideal connubio
    (Non piu` Minerva strana
    Nata da stolto cranio,
    Ne` isterica cristiana,
    Ma dolce e melanconica,
    E d'austera parvenza)
    Nacque una figlia—o Scienza
    Tu palpitasti allor!


    E, gigante, fra gli uomini
    Gia` il tuo nome risuona!
    Ma corre ancora il popolo
    Alla tua madre buona,
    E la sua voce armonica
    E i suoi racconti adora,
    E ride e freme e plora,
    Udendoli narrar.
    E l'Arte narra i dubbi,
    Che ne assedian qui in terra,
    E i miti, e i sogni, e i simboli,
    E la pace, e la guerra;
    Parla di re e di popoli,
    D'amorose leggende,
    E, dai palagi, scende
    Al rozzo casolar.


    Poscia veggendo, trepida,
    Che dei tempi passati
    La monotona storia
    Ha i cerebri annojati,
    Sferza colla commedia
    Le goffe costumanze,
    E scruta nelle stanze
    Gli intrighi ed i mister.
    E, risalendo ai limpidi
    Fonti della natura,
    Ci canta in un Idillio
    Creato e creatura,
    E insegna all'occhio l'ultima
    Gradazione di verde,
    Che da lontan si perde
    In profumo leggier.


    L'Arte e` la candid'avola
    Che tesse le sue fole;
    E noi, che ancor siam pargoli,
    Amiam le sue parole;
    Ma, fatti adulti, i popoli
    La chiameran ciarliera,
    Ed alla figlia austera
    Rivolgeranno il pie`!...
    E cercheran l'oceano
    Del fiume antico uggiati;
    E scruteran dai vertici
    I cieli sconfinati;
    E chiederanno i fascini,
    Che il genio oggi dispensa,
    Alla natura immensa,
    Che tutto chiude in se`.


    Forse tu sola, o Musica,
    Astrazion dell'idea.
    Vivrai, dell'arti l'ultima
    E piu` perfetta Dea!
    L'altre morran!... Le statue
    (Simulacri pallenti
    Delle belta` viventi)
    Cadranno infrante al suol;
    E voi, riflesso inutile
    Di cio` che esiste, o tele,
    Voi copriran la polvere,
    L'oblio, le ragnatele!
    O libri, al fuoco!... Briciole
    Della filosofia!...
    Ogni fisonomia
    E` un libro aperto al sol!


    Alberto, ho il ciglio in lagrime
    Penso a quel di` fatale!
    Alla luce novissima
    Della scienza ideale!
    All'orrenda catastrofe
    Della tragedia trista!
    Penso all'ultimo artista
    Che quel giorno vivra`!
    Ei della madre suggere
    Vorra` l'esausto petto,
    E rabbioso e famelico
    Lo dira` maledetto;
    E forse, per resistere
    Un'ora all'ardua pugna,
    Lo graffiera` coll'ugna
    E il sangue ne berra`!


    Agosto 1876.

    DE MINIMIS.





    MORS TUA, VITA MEA


    Era un uomo sensibile; dicea
    Che tutto vive d'una vita arcana;
    Che, come il bruco, si forma l'idea;
    Che non e` sola l'esistenza umana.


    E predicava ai bimbi e ai giovinetti
    Di rispettar gli steli delle rose,
    I nidi delle rondini, e gli insetti,
    E le sementi, e gli uomini, e le cose.


    Poi, meditando l'incessante guerra
    Che la fame crudel move ai men forti,
    E pensando che ognun semina in terra
    Ad ogni passo migliaja di morti,


    D'infinita pieta` pianse angosciato,
    E, i cibi rifiutando alla natura,
    In un angol tranquillo del creato
    S'adagio`, come morto a sepoltura.


    La`, rivolgendo gli occhi moribondi
    Ai fil d'erba ed ai fior ch'avea vicini,
    Vide la vita di novelli mondi,
    La strana vita d'esseri piccini.


    Vide un bruco, due ragne e un capinero,
    Il bruco, rosicchiando un'erba-menta,
    Rotava in essa, senza alcun pensiero,
    Il pungolo, che sfibra e che tormenta.


    E poi che sazio, in estasi beate
    Levava il picciol capo verso il sole,
    Le ragne da una foglia arsa sbucate,
    Si divisero il bruco nelle gole.


    Le due comari, del bottino liete,
    Facevan l'una all'altra i complimenti,
    Quando, piombando dal vicino abete
    Il capinero, li muto` in lamenti.


    Nel giallo becco ei se le prese entrambe
    Trillando gajamente: Il colpo e` bello!...
    —L'uomo sensibil balzo` sulle gambe,
    Stese la mano... e si mangio` l'uccello.


    Luglio 1876.

    FLECTAR, NON FRANGAR


    (A LUIGI DELLA BEFFA)



    Tu vuoi saper perche` la vita mia
    Colla gente volgare si consumi,
    E come io pensi un'ode all'osteria
    Fra gli sconci profumi;


    Tu vuoi saper perche` fra gli imbecilli
    Cerco talora qualche idea sublime,
    E come mai le nebbie dei pusilli
    Mi dian l'audaci rime;


    Tu vuoi saper perche` passo le sere
    Giuocando un trivial giuoco coi cretini
    Bevendo spesso le tisane nere
    Che l'oste chiama vini!


    Io sono lo scultor che il sasso adora
    Con cui sapra` dar vita ad una Dea;
    So che dopo la notte vien l'aurora,

     Dopo il dubbio l'idea.


    So che il maggio fa seguito all'inverno,
    E che il torpore e` padre all'entusiasmo,
    E che la vita e` un alternarsi eterno

     D'olezzo e di miasmo!


    Come l'aquila anch'io dormo sovente
    In una grotta una lunga stagione,
    E nell'ore volgari e sonnolente

     Annego la ragione...


    Poi spicco l'ali dall'oscuro nido
    E, librandomi in ciel, nel volo immenso
    Saluto il mondo con superbo strido...—

     E` allor che canto e penso.


    Autunno 1875.

    MELODIA


    Gli amanti passeggiavano—mentre cadeva il sole;
    Mormoravan le labbra—portentose parole;
    Un inno solo dalle labbra uscia,
    Un inno che diceva:
    La parola dell'uomo e` melodia,
    Che sovra ogni idioma si solleva!



    Gli usignuoli cantavano—mentre cadeva il sole
    Echeggiavan nei boschi—i trilli delle gole;
    E un lieto canto dalle gole ascia,
    Un canto che diceva:
    Solo il nostro linguaggio e` melodia
    Che sovra ogni idioma si solleva!



    Sui rugiadosi margini,—mentre cadeva il sole,
    Nelle ebbrezze del polline—cantavan le viole;
    Cantavano con note di profumi,
    E cantavano il maggio;
    E tremolanti sui roridi dumi
    Diceano: Il nostro e` il piu` gentil linguaggio!


    Nascosta in un rigagnolo,—mentre il sol tramontava,
    La femmina d'un rospo—ancor essa cantava;
    Il prediletto che quel canto udia,
    Da lungi rispondeva:
    La tua voce, o mia sposa, e melodia
    Che sovra ogni idioma si solleva!



    Un pallido filosofo,—mentre il sol tramontava.
    Sulla strada maestra—pensieroso passava;
    Egli ascolto` gli amanti, i fior, gli uccelli
    E i rospi, e disse in cuore:
    I linguaggi quaggiu` son tutti belli,
    E specialmente se parlan d'amore!



    Luglio 1876

    SEMINARE E RACCOGLIERE


    Il cuore e` un ventilabro—e noi siam mietitori.
    Noi seminiam gli affetti a piene mani,


    Crediam nelle sementi—che promettono i fiori,
    Crediamo nelle messi del domani.


    Poscia, giunti nel mezzo—del campo della vita,
    Ci volgiamo alle zolle fecondate;


    Non crediam piu`: speriamo;—speriam la via fiorita;
    Vogliam mietere i fiori e le derrate.


    Ahime`!... Da pochi semi—la pianta si matura!
    Di molti sterpi la campagna e` piena!


    E un popolo d'arbusti,—spossati dall'arsura,
    Chinan la testa sulla gialla arena!


    Noi moriam, seminando—la fede e la speranza,
    Raccogliendo la noja e l'amarezza,


    Ai giovani invidiando—la inutile esultanza...
    E pur bramando lunga la vecchiezza!


    Il cuore e` un ventilabro—e noi siam mietitori;
    Noi guardiamo le zolle fecondate


    E le troviam coperte—di spine e di dolori
    O da compianti cippi funestate.

    IL MARE CANTA


    (A ENRICO CAROSELLI)


    Il mare canta, il fremito dell'onde
    Son note, son cadenze, son canzoni;
    E i raggi che la luna in ciel diffonde

      Son tremule visioni.


    I pescatori nelle glauche notti
    Del Gran Cantore ascoltano i concenti
    E alla spiaggia li recano, tradotti
    In melodici accenti.


    Napoli abbraccia il mar, come un poeta
    Abbraccia l'arpa, con cui ride o geme;
    Quando tranquillo e` il mar Napoli e` lieta,
    Quando e` in tempesta freme.


    Santa Lucia, febbrajo 1876.

    EN ATTENDANT


    Il ragno, che da un albero
    All'altro va tessendo la sua tela,
    Al poeta, che smania
    Dietro i suoi canti, un conforto rivela.


    Ei da un ramo si dondola,
    Acrobata sospeso a un fil d'argento;
    Tenta alla meta giungere,...
    Ma sempre invano!... E, allora,aspetta il vento.


    Cosi` il poeta penzola,
    Pria di spingersi a voi, sulle illusioni;
    E tenta, e veglia, e spasima...
    Indi aspetta le sacre ispirazioni.


    Luglio 1876.—In un bosco.

    A UN CALENDARIO AMERICANO


    Nella mia stanza ho un picciol calendario
    Da cui strappo un foglietto
    Tutte le sere, pria di pormi a letto.


    Quante cose stan scritte
    Sull'esil cartolina!
    In alto il mese; poi, sotto la data,
    L'effemeride e un piatto di cucina!
    Ieri diceva:—Luglio—Ventidue;
    San Prospero—Battaglia nel tal sito,
    L'anno tale—Bollito
    Di filetto di bue.



    Strano compendio della vita umana!
    La farsa e il dramma! Il sorriso ed il pianto
    L'esistenza e` una cinica fiumana
    Che a ignoto mar discende!
    Oggi a foschi burron passa daccanto,
    Tra i fior domani d'un giardin risplende
    Sotto i raggi dell'alba, ed alla sera
    Rugge fra i massi d'orrenda scogliera!


    Quand'io ti strappo, o breve cartolina,
    Sento una stretta al cuore;
    Sento la giovinezza che declina;
    Penso che l'uomo tutti i giorni muore!


    Luglio 1876.

    ACQUA DEI MONTI


    E` questa la purissima
    Acqua dei monti;
    La cristallina lagrima
    D'aeree fronti.


    Anche le vette piangono
    Ed han sorrisi,
    Ed i cipressi alternano
    Ai fiordalisi...


    L'acqua e` l'ingenua figlia
    Dei cicli azzurri,
    E parlano d'ambrosie
    I suoi susurri.


    L'acqua e` la figlia tenera
    D'inferociti
    Giganti e, quasi a molcerli,
    Lambe i graniti.


    Madonna d'Oropa, 1876.

    IN CORPO DI GUARDIA


    (A GIACINTO GALLINA)


    E` la sera.—Nei lunghi corridoi
    E nei vasti cortili
    Passeggiano i soldati.
    Ognun favella dei paesi suoi
    E dei volti gentili
    Che al villaggio ha lasciati.
    Si canta, si schiamazza, si riaccende
    La pipa.


    In fondo agli anditi risplende
    La lucerna notturna, la facella
    Che vegliera` di dentro,
    Mentre veglia di fuor la sentinella.


    Quanti giovani ardenti!
    Menenio Agrippa ha detto
    Che le nazion son uomini viventi;
    Chi ne forma la testa
    E chi ne forma il petto,
    Chi le braccia e chi il ventre; ed a me pare
    Che l'esercito sia
    Il giovin sangue della patria mia.


    Tramonteranno i giorni in cui le spade
    Scintilleranno ai rai del sole.—Allora
    Questi soldati di varie contrade
    Saluteranno la novella aurora;
    Rivedranno le madri e, l'ire spente,
    Muteranno l'acciaio dei fucili
    Nei miti aratri; e obliando la guerra,
    Feconderan la terra
    Della loro vallata sorridente.


    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


    I trombettieri sono usciti.—E` l'ora
    In cui debbo a sonar la ritirata;
    E una folla di gente entusiasmata
    Si fara` ad essi attorno,
    E udra` gli squilli acuti e le cadenze
    Che usciran dalle trombe luccicanti;
    E seguira`, con fervide movenze,
    I soldati che tornano al quartiere.


    Poi cessera` il clamor degli abitanti;
    Moriran le canzoni
    E moriranno delle trombe i suoni;
    Scendera` sui cortili e nelle stanze
    Un silenzio solenne;
    E l'ombra rompera` dei corridoi
    La lucerna notturna, la facella
    Che vegliera` di dentro,
    Mentre veglia di fuor la sentinella.


    Quartiere San Filippo, Milano, agosto 1876.

    ULTIMA RATIO


    Allor che tatto tace
    E mi rinchiudo nella stanza mia.
    Sento una voce in cuore, un'armonia,
    Che mi susurra: La vita e` la Pace.


    Allor che nella storia
    Dei popoli e dei re scruto le gesta,
    Una smania m'opprime e mi molesta,
    E mi ripete: La vita e` la Gloria!


    Allor che dal languore
    D'una notte di baci io son spossato,
    Una voce mi giunge dal creato,
    Che mi ripete: La vita e` l'Amore!


    Quando un vecchio piloto
    Mi narra gli usi di lontane genti
    E dei suoi giorni i fortunosi eventi,
    Io ripeto fra me: La vita e` il Moto!


    Quando la melodia
    D'un verso o d'un liuto mi percote,
    Mi echeggian nella mente colle note
    Le parole: La vita e` Poesia!


    Se alla diva potenza
    Io penso del cervello di Keplero,
    Se a Spallanzani rivolgo il pensiero.,
    Dico fra me: La vita e` la Scienza!


    Ma, se in mezzo a una brulla
    Campagna, a meditar mesto m'aggiro,
    Guardo il cielo, la terra... indi sospiro.
    E ripeto fra me: La vita e` il Nulla!

    DIES.



    ALBA


    E sia cosi`!—Sul nostro capo un altro
    Giorno risplenda!—A noi la luce; il bujo
    Agli antipodi!—A tutti la nojosa
    Catena della vita; a tutti, grami
    E possenti, la uggiosa vicenda
    Del cibo e delle vesti!


    Un'alba ancora!


    Pallida luce del lontano oriente,
    Sia tu di nebbie apportatrice o nunzia
    Di lieto sol; abbia tu rose al crine
    O di pioviggin umida ne venga,
    Nulla ti chieggo!...


    I desiderii miei
    Non han confine, e, novello Epulone,
    In questo inferno, ove innocente caddi,
    Io mille volte vo' morir di sete
    Pria di volgermi a te pietosamente
    Mendicando una gocciola!


    Ahi!... D'Abramo
    Piu` ancor spietata, a me,—che nulla chieggo—
    Un balsamo fatale, alba, tu imponi!


    L'illusion m'imponi e la speranza,
    Che renderan piu` amari i disinganni;
    E illumini le carte, ov'io favello
    Con me stesso; ed aggiungi un altro filo
    A questo cencio, a questa ragnatela
    Del mio futile orgoglio; e mi conforti
    Di sublimi parole:


    “All'opra!... Avanti!
    “Al lavoro!... Al lavoro!... A te, o poeta,
    “La luce e il moto!... A te l'immenso dono
    “Di qualche centinajo di minuti!!...”



    Vecchia megera, sfinge imbellettata,
    Scialba carogna rizzata sui trampoli,
    Dal ghigno stereotipo e dai mille
    Fronzoli in similoro,... ad altri narra
    Le tue storielle!... Un vecchio lupo io sono
    Che non da` nei tuoi lacci!


    “All'opra! All'opra!
    “Al lavoro!...



    E tu intanto, oscena arpia,
    Mi pagherai col rabescar di rughe
    Il mio sembiante; col pelarmi il cranio;
    Collo sfiaccarmi i muscoli e filtrarmi
    Nelle vene e nell'ossa,—a poco a poco,—
    Il gel dell'agonia!...


    Nulla ti chieggo
    Alba!...
    No!—Errai!—Ti chieggo un verso; un verso
    Per maledirti, quanto umanamente
    E` dato maledir!...
    Ora ai tuoi vezzi
    Presti fede chi vuole!... Io m'addormento!

    MERIGGIO


    9 FEBBRAJO 187*.


    Piegate per gli amanti, scongiurate il Signore
    Che creo` la sventura quando creo` l'amore.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


    Tutti abbiam nella vita
    L'ora fatal che resta, come negro stilita
    Sul nostro capo, immobile, finche' anuiam sottoterra.
    E. PRAGA.


    Questo e il mio di` fatale!...
    O genti buone,
    Se i canti miei v'han dato un entusiasmo.
    Se una scintilla dell'anima mia
    V'arse un istante, siatemi cortesi
    D'una lagrima.


    Ho qui dentro un'angoscia
    Che non ebbi giammai!... Oggi ho perduto
    L'illusione del mio primo amore!
    Un amore di fuoco, uno sfrenato
    Abbandono dei sensi!... Oggi colei,
    Che ieri ancor nei supremi deliri
    Mi chiamava il suo angelo, m'ha detto
    Che spento a un tratto si senti` nel coro
    Ogni disio di me!


    Questo e` il meriggio!
    Questo e` il triste meriggio della mia
    Povera vita!


    Io sono solo e piango,
    Ed amo ancora!


    Oh!... N'ho provate tante
    D'amarezze quaggiu`!... Negli anni primi
    Io senza guida rimasi qui in terra;
    Poscia, orrende compagne, ebbi la fame,
    E la miseria, e il freddo, e la crudele
    Compassion dei felici, e l'ironia
    Dei mille!...


    E quelli fur giorni di gioja
    Al paragon di questo!... Allora i canti
    Giocondamente mi nascean nel cranio.
    Ed io, recando un ideai tesoro
    Di poesia, indifferente o lieto
    Passavo in mezzo alle sventure mie!


    Oh! Maledetta la tua testa bionda,
    O creatura, che hai forma di donna!
    Tu, venuta per compier l'anatema
    Che un'altra mi scaglio`, quand'io non volli
    Da amor turbati i miei futili sogni
    Di gloria!... Oh!... Mille volte maledetta
    Quella tua bocca ch'io baciai fremendo!
    Quelle tue carni che col labbro mio
    Consacrai tutte!


    O carni!... O polve!... O vermi
    Olezzanti d'olezzi celestiali!
    S'agita ancora questo sangue mio.
    Tumultuando, s'io ripenso a voi!
    Ma un piu` intenso desir m'arde le vene!
    Ed e` quel di vedervi entro una bara
    Scender sotterra a tornar vermi e polve!
    Maledetta la man che mi porgesti,
    O donna, il di` che ti venni dinanzi!
    Maledetto il tuo seno e maledette
    Le tue spalle! Ed il pie`, con cui movesti
    Ai ritrovi d'amor che m'han beato!
    E la tua lingua e le belta` recondite
    Del tuo corpo, in eterno maledette!


    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


    Io nacqui buono, e la`, dove potea
    Giunger la mano mia, sempre una lagrima
    Tersi; e, piangendo, il perdono implorai
    Persin dai bimbi, se, cieco per l'ira,
    Recai loro un'offesa; ed amo i fiori
    E l'indulgenza; e un'immensa vergogna
    Mi sale al viso s'io penso che alcuno,
    Piu` debole di me, puo` dir: “Tu, forte,
    “Mi oltraggiasti!



    Ma in questa ora fatale
    Io medito un delitto; ed accarezzo
    Nefande idee di sangue; e s'io potessi
    Esser solo con lei, lontan da tutti,
    Non veduto, nell'ombra, io la vorrei
    Vigliaccamente uccidere!... Vorrei
    Vederla agonizzar fra le mie braccia;
    E guardarle negli occhi, annebbiati
    Dalla morte; e coll'ugne, gocciolanti
    Del sangue suo, vorrei scavarle io stesso
    La fossa; e seppellirla; e fra le genti
    Tornar ridendo; e pormi sulla faccia
    Una maschera; e il di`, che la sua salma
    Assassinata fosse discoverta,
    Vorrei mescermi al volgo impietosito;
    E simular le lagrime; e cantarne
    Le laudi: e a tutti asseverar, piangendo,
    Ch'io ne morro` d'angoscia!...


    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


    Oh!... Scellerate
    Aberrazioni!... Oh!... Mia povera mente!
    Oh!... Accesa lava dei miei fervidi anni!
    Deh'... Perdonate!... Io sono un pazzo!... Io piango
    E son solo!...





    E il profil di quella bionda
    Testa di donna io l'ho dinanzi agli occhi
    Come nei di` ch'io la copria di baci!


    Or mansueto le favello:


    “O amata
    “Creatura gentil, vorrei morire
    “Pria di vederti piangere!... Darei
    “Tutto il mio sangue per vederti lieta!
    “Alla legge d'amor chino la testa!
    “Qual colpa e` in te se i baci miei, che un giorno
    “Ti davano il delirio, or ti dan noja?
    “Qual colpa e in te, che., lagrimando, forse
    “T'aggrappasti, nell'ultime giornate,
    “Ai ruderi sconnessi d'un affetto
    “Che cadeva in rovina?!


    “E` eterna legge
    “Che la fiamma d'amor non duri eterna!
    “Ma eternamente io portero` nel cuore
    “La tua dolce memoria! E benedetto
    “Diro` il giorno, in cui tu, nulla chiedendo
    “Fuor che carezze, a me, che non osavo
    “Neppur sperarlo, spalancasti il cielo
    “Di tue belta`!...


    “Non ha gemme la terra
    “Che paghino una sola ora d'amore!...
    “Ed io fui ricco!... Ed or di mia dovizia
    “Le briciole soltanto, le memorie,
    “Conforteranno i miei venturi giorni!


    “Ah!... S'io potessi (ineffabil miracolo!)
    “Dimenticare le tue carni e il tuo
    “Sembiante, e il tuo nome, e rammentarmi
    “Dei nostri baci e delle nostre notti
    “Come di baci e di notti trascorse
    “In altra vita che non sia codesta!
    “Come di eventi di tempi remoti!


    “Deh!... Fa ch'io non ti vegga!... Solitario
    “Mi chiudero` fra quattro mura, e lungi,
    “Lungi di qui vo' seppellirmi, in fondo
    “A qualche tetra valle, o in cima a un'alpe,
    “Pur ch'io piu` non incontri nelle vie
    “Il tuo flessibil corpo da libellula,
    “Che nelle forme aggraziate ha un fascino
    “Voluttuoso che insulta e tormenta!
    “Pur ch'io piu` non ti vegga!... o un vel di sangue
    “M'offuschera` dell'intelletto il lume!
    “Ed io dovrei bruttar la vita mia
    “Inconsapevolmente (ahi mi perdona!)
    “D'una macchia di sangue!”


    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


    O genti buone,
    Se i canti miei v'han dato un entusiasmo,
    Se una scintilla dell'anima mia
    V'arse un istante, siatemi cortesi
    D'una lagrima!


    Ho qui dentro un'angoscia
    Che non ebbi giammai!... Oggi ho perduto
    L'illusione del mio primo amore!
    Questo e` il mio di` fatale!... E l'abbiam tutti,
    Genti buone, quaggiu`!... Questo e` il meriggio!
    Questo e` il triste meriggio della mia
    Povera vita!... E mi coce il sollione
    Dei piu` torbidi affetti, ed ho nel cuore
    Il fuoco e lo splendore smagliante
    Che nel meriggio abbacina ed uccide!


    Io sono solo, e piango, ed amo ancora!


    Milano, febbraio 187*.

    SERA


    Quando dai margini—verdi, le Driadi,
    Fuggendo i roridi—guazzi del Vespero,
    Solinghe traggono—verso gli spechi,
    I campi han echi


    Indefinibili;—la brezza mormora;
    L'estremo bacio,—coi raggi vividi,
    Sugli alti culmini—dardeggia il sole;
    Rose e viole


    Pingon la glauca—volta dell'etere;
    I grilli trillano—fra l'erbe tenui;
    E dentro il calice—chiuso dei fiori,
    Nido d'amori,


    Trovano un talamo—pieno d'effluvii
    Gli insetti; i placidi—sonni discendono;
    Ed accarezzano—le fronti umane
    Estasi arcane.


    E` allor ch'io medito—dei melanconici
    Miei versi il flebile—metro!... Di lagrime
    Un vel m'intorbida—l'occhio languente;
    Allor, dolente


    D'inconsapevoli—mali, di squallidi
    Giorni d'angoscia—sento il presagio;
    Ricordo i rantoli—dei moribondi,
    Penso ai profondi


    Misteri, ed evoco—mille fantasimi
    Torvi, ed enumero—tutte le noje,
    Tutte le ambascie,—tutti i sospiri,
    Tutti i deliri,


    Che angustian l'anima—di quei che vivono!
    E sulle spiagge—dei vasti oceani
    Singhiozzo e vagolo,—fremo ed impreco
    Al Fato bieco


    Che in quest'assidua—vita, pulviscolo
    Gramo, mi esagita;—che in questo circolo
    Triste m'avvinghia—dell'esistenza;
    Vana parvenza,


    Cui non i secoli—la via segnarono,
    E che precipita—(l'indivisibile
    Tarlo recandosi—d'un perche` ignoto)
    Giu` nel remoto!...


    Il Vespro e` l'incubo—della mia splendida
    Musa, che inebbriasi—di ardenti cantici
    Allor che in candide—nebbiose bende
    L'alba risplende;


    Il Vespro e` l'incubo—della mia splendida
    Musa, che veglia—serena ed ilare;
    E a me gli esametri, nella notturna
    Ora, dall'urna


    Dorata, prodiga—mescendo; il Vespero
    Ha, nella tremula—penombra, il dubbio
    E, nella mistica—melanconia
    Ha l'agonia!


    Ed io, che, trepido,—di questa effimera
    Mia vita medito—l'ora novissima,
    Reco nell'intima—mente una vaga
    Scienza presaga:


    Credo che il debole—fil, che mi tessono
    Le Parche, rompersi—dovra` al crepuscolo;
    E che il mio spirito—dovra` partire
    All'imbrunire;


    Poiche`, or che in fervidi—flotti il mio sangue
    Nelle ancor giovani—membra si esagita,
    Io, del crepuscolo—nella penombra,
    Mi sento un'ombra!


    Ottobre 1876.

    NOTTE


    A MARIA.


    Gli astri scintillano;—l'onda riposa;
    E sovra il glauco—specchio del mare
    Il raggio tremola—d'una pietosa
    Luce lunare.


    Da lungi il circolo—delle pendici
    Chiude la baja—con braccia immani;
    Ivi approdarono—Libii e Fenici
    Mori ed Ispani.


    Le barche dormono—presso la rada;
    Il flutto instabile—ne culla il sonno;
    Ed a fior d'acqua—guizzan l'orada
    La triglia e il tonno.


    I fari splendono—la`, in lontananza,
    Pupille immobili—fise nel vuoto;
    E par che evochino—la rimembranza
    D'un di` remoto.


    Maria, nell'anima—ho l'armonia
    Dei piu` ineffabili—sensi d'amore;
    Sul labbro ho un gemito—di poesia
    E di languore!


    E vorrei stringerti—sul petto, come
    Stretta e` la baja—dalle pendici;
    E col tuo incidere—leggiadro nome
    Queste felici


    Ore fuggevoli!—Libar vorrei
    Qualche satanico—filtro amoroso
    Che addoppi l'impeto—dei sensi miei!...
    Poscia al riposo


    Eterno chiudere—gli occhi; il passato
    Tutto in un'estasi—ridir fra noi...
    Scendere all'Erebo—martirizzato
    Dai baci tuoi.

    CITTA` ITALIANE





    NAPOLI


    (A MICHELE UDA)


    Napoli e` il pandemonio
    D'ogni stranezza umana;
    Vi si respira il soffio
    Dell'epoca pagana;
    Come al tempo dei Cesari
    Rimaser le taverne;
    Serban l'antica foggia
    L'anfore e le lucerne.


    Il popolo s'inebria
    Di leggende e di canti;
    Ama le notti tiepide,
    I tramonti smaglianti,
    L'albe serene, il glauco
    Color della marina,
    Cio` che fa chiasso e luccica,
    Il lotto e Mergellina.


    Ogni veste in fantastici
    Disegni si ricama;
    La ricchezza frastaglia
    I merletti alla dama,
    E l'abile miseria
    Alle povere donne
    In pittoreschi cenci
    Sa ricamar le gonne.


    Di poco pane e d'acqua
    La plebe si nutrica;
    Ha l'apatia mirabile
    Della sapienza antica;
    Come adorava gli idoli,
    Adora i santi adesso;
    I simboli mutarono,
    Ma il culto e` ancor lo stesso


    I cocchieri bestemmiano
    Per le marmoree vie...
    E salutano agli angoli
    I Cristi e le Marie.
    Spesso la fame, squallida
    Larva, i tugurii invade...
    E cogli aranci i pargoli
    Giuocano nelle strade.


    Oggi si muta in ghiaccio
    L'umor delle fontane...
    E le camelie sbocciano
    Col sol della dimane.
    Ogni edificio e` un'ampia
    Mole che in cielo ascende...
    E a vivere sul lastrico
    Il cittadin discende.


    Ieri l'orrendo tremito
    D'un sotterraneo moto
    Facea pregare e piangere
    Il popolo devoto...
    Oggi, gia` quasi immemore
    Del periglio mortale,
    Ei pensa alle baldorie
    Del pazzo carnevale.


    Napoli e` il pandemonio
    D'ogni stranezza umana!
    Un ineffabil fascino
    Dalle sue pietre emana;
    Pari alla vita assidua
    Di sua genial natura,
    Un incessante fremito
    Vibra fra le sue mura.


    Bimbi, cavalli e monaci,
    Soldati e marinari,
    Dame, accattoni e lazzari,
    Ganimedi e somari,
    Cocchi, carri e curricoli,
    Mercajuoli ed artieri,
    Un mondo indefinibile
    Brulica nei quartieri.


    I confratelli, in candidi
    Lenzuoli imbacuccati,
    Colle faci precedono
    I feretri dorati;
    E intanto, sotto i portici,
    Trofei multicolori,
    S'innalzano a piramidi
    Frutta, legumi e fiori.


    Come pesci, i ladruncoli
    Guizzan fra dorsi e petti;
    Le cortigiane passano
    Ridendo ai giovinetti;
    E fra le ruote, gli uomini,
    Le donne ed i cavalli
    Delle capre lampeggiano
    I limpid'occhi gialli.


    Echeggia intorno l'impeto
    Dalle robuste gole;
    La negra folla ondeggia
    Sotto i raggi del sole;
    Mille campane annunziano
    Battesimi e agonie...
    E Pulcinella sbraita
    Lazzi e corbellerie.


    Dal porto, colla candida
    Ala cercando il vento,
    Le navicelle salpano
    Per Gaeta e Sorrento;
    E in fondo (immane fiaccola
    Che il Tempo non consuma)
    Sovra le cose e gli uomini,
    L'alto Vesuvio fuma.


    O mia canzone, librati
    Nell'aria profumata;
    Guarda l'immensa cerchia
    Della citta` incantata;
    Vedrai che da Posilipo
    A Porta Capuana...
    Napoli e` il pandemonio
    D'ogni stranezza umana.


    Napoli, 3 febbrajo 1876.

    CAGLIARI


    (AD AGGELO SOMMARUGA)


    Cagliari e` fatta di case giallastre,
    Come un branco d'agnelle a un monte appese;
    E scivolan le scarpe sulle lastre
    Delle sue strade ripide e scoscese.


    C'e` una gran baja ed un porto piccino,
    Ove l'onda giammai freme adirata,
    E par che dica ad ogni brigantino:
    “Se tu cerchi la pace, l'hai trovata!”


    Cagliari e` gaja; ha un'aria patriarcale,
    E del buon tempo antico ama la legge;
    E non pensa a mutar la cattedrale
    Lo strano campanil che la protegge.


    La turba scarmigliata dei picciocchi
    Gira dovunque col corbello in testa,
    E sguscia dei passanti fra i ginocchi
    Piu` delle anguille irrequieta e lesta.


    Quel corbello e` il suo pane ed e` il suo tetto,
    Ed il picciocco mai non l'abbandona;
    Se vuoi dormire egli ne fa il suo letto;
    E` il suo scudo, il suo stral s'egli tenzona.


    Quando piove ei lo muta in un ombrello,
    Lo cambia in parasol quando e` l'agosto,
    Poi, pien di merci—tornato corbello—
    Per due soldi lo reca in ogni posto.


    La gente dorme quando il giorno cade;
    S'alza coi primi albori e va al mercato;
    E le donne sciorinan per le strade
    I pannilini freschi di bucato.


    I cittadini hanno la faccia rasa;
    Vengon dai monti i villosi sembianti;
    Le cittadine son massaje in casa
    E a San Remy son belle ed eleganti.


    Gli innamorati hanno un costume strano,
    E l'uso e` tal che nessuno ci abbada;
    La dama sta a un balcon del terzo piano
    Ed il damo le parla... dalla strada!


    Di sibili infiorato e` l'idioma,
    Dolce all'amore; auster su labbri austeri.
    C'e` qualche bimbo colla bionda chioma...
    Caso raro!... perche` son tutti neri!


    Cagliari guarda il mar, mentre al suo fianco
    Ha liete valli e colli pittoreschi,
    E larghe vie dal suol sassoso e bianco,
    Ed irte siepi di fichi moreschi.


    Grappoli enormi e picciolette viti
    Ornan le balze—ridenti festoni!—
    E all'arse gole fa graziosi inviti
    Lo scialbo color d'ambra dei limoni.


    Siam quasi al verno e par di primavera!
    E melegrane e cedri ed ananassi
    Ti mandan, colla brezza della sera,
    Un saluto d'effluvii quando passi.


    Cagliari guarda il mare, e, alle sue terga,
    Stan campi incolti e vergini foreste,
    Dove il cinghiale e dove il cervo alberga,
    Dove vette preziose alzan le creste.


    Ivi una febbre d'or spinge gli umani,
    Ma (ahime`!...) talvolta l'or sfugge agli audaci
    E resta sol la febbre all'indomani
    Che li dissangua cogli orrendi baci!
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


    Oggi e` sagra, ed il popolo ha indossato
    Il costume gentil del suo paese;
    Ne` piu` bello un pittor l'avria foggiato
    Cui fosse il Genio dei color cortese.


    Lungo la baja e` un ondeggiar festante
    Di gonne rosse dai botton lucenti;
    E` una baldoria, un correre incessante
    Di cavallucci magri e intelligenti.


    E intorno al picciol porto—ove die` fondo
    La carena panciuta dei velieri—
    Havvi una folla, un'accozzaglia, un mondo
    Di brache bianche e di berretti neri.


    Cagliari, domenica, 22 ottobre 1876.

    SOCIALISMO


    Uscita da caligini profonde,
    Ch'io vo tentando e a penetrar non basto,
    Salute a te, nelle tue vie feconde,
    O Umanita`, cui ciascun di` risponde
    Un ideal piu` vasto!



    27 ottobre 1860.


    (A. ARNABOLDI—Sulla montagna).





    EPISTOLA


    A


    ENRICO BIGNAMI


    SOCIALISMO


    Dal di` che pochi dissero:—“Ecco i nuovi orizzonti!”
    E che un fiero entusiasmo—scintillo` sulle fronti,
    E che feudi e tiranni,—pregiudizii e messali
    Entraron, colla peste,—nel novero dei mali,
    L'umanita` riarse—d'una febbre incessante:
    Dei soffrenti si mosse—l'esercito gigante,
    E la tema scotendo—giu` dai dorsi avviliti,
    Sorse a chieder ragione—degli insulti patiti.


    Furon giorni di sangue;—rosseggiaron le vie...
    E` ver!... Colle zizzanie—cadder rose e gazzie...
    Ma pari alle tempeste—son le amare vendette!
    Non han leggi in entrambe—e castighi e saette!
    Gli stolidi soltanto—vorrebber la Natura
    Eguale al freddo svizzero—che i suoi colpi misura!


    Un tempo era il carnefice—del popolo maestro;
    Ei l'educo` alla scuola—dei ceppi e del capestro;
    Al codice mitissimo—il popolo educato
    Si vendico` col sangue;..—come aveva imparato.


    Al!... Non gettiam la pietra—su chi lava un oltraggio!
    Chi, fra noi, del perdono—ebbe sempre il coraggio?
    Nelle pagine lunghe,—su cui veglia la Storia,
    Tra le feste d'un giorno,—tra una colpa e una gloria,
    Tra il sovrapporsi assiduo—d'un evento a un evento,
    Dalle viscere umane—esce sempre un lamento!


    Cristo, anch'egli, degl'empi—rese il braccio piu` ardito!
    E fu il giorno che in croce,—per le angoscie sfinito,
    Grido` un'ultima volta:—“Sopportate e tacete!”


    Gli empi ne profittarono.


    —E quando ei disse: “Ho sete!”
    D'aceto e fiel gli porsero—una spugna bagnata!


    Or ben, quando dei buoni—fu la bonta` oltraggiata,
    Non un giorno, ma secoli,—essi tacquer pazienti...!
    E gli empi li derisero—raddoppiando i tormenti.


    Ma venne il di` che i buoni-dissero anch'essi: “Ho sete!”
    E avean sete di scienza,—di liberta`!...
    “Bevete!...”
    Fu lor risposto.
    E il sangue—si diede lor dei figli!
    E morirono i padri—su fetidi giacigli!
    E messe alla tortura—fur le membra del saggio!


    Ah!... Non gettiam la pietra—su chi lava un oltraggio!
    Cristo era un uomo-dio;—noi non siam che mortali!
    Ei sapeva che il cielo—esisteva; che i mali,
    Con cui l'avean qui in terra—i tristi vilipeso,
    Gli fruttavan la gloria—del trono ov'era sceso!


    Ma per noi questo cielo,—questa speranza sola,
    E` un mistero!... Per noi—il cielo e` una parola!..


    Perche` voler, da fragili—e grame creature,
    Cio` che forse e` miracolo—per divine nature?


    Ma libriamoci in alto;—tra il vero e l'ideale;
    Ove l'aria non sfibra—questa carne mortale!
    E guardiamo sugli uomini;—sui viventi dell'oggi;
    Su coloro che popolano—le vallate ed i poggi,
    E che, orgoglio di vermi,—raggiungendo una vetta,
    A Giove antico atteggiansi—che scaglia la saetta...


    Guardiam giu`...
    Questo fiume—fatto di teste umane,
    Questa immensa valanga,—questo esercito immane,
    Ha un nome!
    Lo si mormora—con riverenza: Il Mondo!


    Ei cammina!... Ei cammina!...


    —Nel cerebro fecondo
    Dei mille pensatori—egli attinge i portenti,
    I segreti, che danno—la vittoria.
    Le genti,
    Attraverso agli oceani,—si favellano; i cieli
    Si spalancano; cadono—i fantastici veli
    Che rendean sacra d'Iside,—nei templi egizii, l'ara;
    Ogni giorno che sorge—ha un raggio che rischiara;
    Ogni giorno che passa—ha una tenebra spenta;
    E sull'eterna via—dei suoi destini (lenta,
    Per la vita degli uomini;—per un'idea, veloce)
    Mille grida adunando—in una sola voce,
    Travolgendo implacabile—chi non vuole o non vede,
    Questa immane fiumana,—questo Mondo procede!


    Avanti!... Avanti!... Al mare,—o mistica fiumana!
    Alla foce!... Alla foce!...


    —Ov'e` dessa?... E` lontana!
    Lontana piu` del sole!—Piu` del sol misteriosa!
    Chi potrebbe, osservando—ogni uomo ed ogni cosa,
    Predir l'ultimo giorno—dei terrestri abitanti?


    Ma che importa!...


    Alla foce!...-Al mare!... Avanti!... Avanti!...


    Pur, come un di` le streghe—di Macbeth sul sentiero,
    A soffermar per poco—del Mondo il passo altero,
    Sorgon tre sfingi; e sono—sfingi rabbiose e grame;
    I moralisti ipocriti,—gli eserciti e la fame!


    O roditori eterni—delle umane famiglie,
    Che dei padri cadenti—insultate le figlie,
    Perche` portan nel seno—un bambino illegale;
    Che vorreste la donna—ad una pietra eguale;
    Che eccitandone i sensi—con arti sopraffine
    Bramate, come i vecchi,—veder ignuda Frine
    Per turpemente chiederle:—“Sei tu ancora innocente?”
    O roditori eterni,—che dell'eta` fiorente
    Odiate i baci, e fate—che le madri, non spose,
    Cadano nei postriboli,—come foglie di rose
    Sui letamai; che, primi,—l'indagine vietando
    E incutendo nei cuori—un terrore esecrando,
    Obbligate le madri—a uccidere i bambini;
    O voi, che non leggete—negli umani destini
    Quest'ardente desio—di pace e fratellanza;
    Voi, che abbagliando gli uomini—con cinica baldanza,
    Togliete ai campi il braccio—dei giovani ventenni
    Per armarlo nei giorni,—in cui le idee solenni
    Sorgono a dimandare—che giustizia si faccia;
    O voi, che li spingete—all'orribile caccia
    Delle conquiste; o voi—che beati ridete
    Nelle comode case—e buoni vi credete
    Perche` date una veste—allo spazzacamino;
    O voi, gretti ambiziosi,—che annebbiate col vino
    L'orizzonte ristretto—d'un esile onorario,
    E, colla banda in testa,—ed al passo ordinario,
    Sfilate per le vie—tronfiamente, perche`
    Un circolo operaio—surse vostra merce`,
    Ditemi, nei banchetti,—parlando agli operai,
    A chi smuove la terra—non ci pensaste mai?...


    I poeti d'Arcadia—han pensato a costoro!
    Essi cantaron Fille,—Tirsi, Clori e Lindoro;
    Coprirono di cipria—le piaghe puzzolenti;
    Sulle teste dei villici—versaron l'acque olenti;
    Nascosero gli stracci—sotto i nastri ideali;
    Posero loro in bocca—idilii e madrigali;
    Indi li presentarono—alle dame annoiate!


    Oh!... Vigliacchi sarcasmi!—Oh!... Ironie scellerate!...


    Questi pastor da scena,—questi villan galanti
    Sono un popol di schiavi—dalle miserie affranti!
    Queste Filli, che cantano—canzonette si` gaie,
    Sono donne che muoiono—nelle immonde risaie!
    Questi Tirsi e Lindori,—che sputan madrigali
    Son pellagrosi e tisici!—Son carne da ospedali!
    Questi eroi dell'idilio,—nell'amore maestri,
    Stancaron fin ad oggi—e giudici e capestri!
    E, fra le lunghe prediche—di parroci o curati,
    Fra le sevizie orribili—di chi li ha dissanguati
    Per sprecar in un'ora—quanto ha negato loro
    Pel lavoro d'un anno;—fra la sete dell'oro
    E la fame, gli errori—e lo spregio, i meschini.
    Gli arcadici pastori,—son ladri ed assassini!


    Mentre noi cittadini,—nelle sere d'estate,
    Sorbiamo, a suon di musica,—le bevande diacciate,
    Essi cadon dal sonno,—veglian pallidi e infermi
    Nei campi, nelle vigne,—o attorno ai mille vermi
    Che daranno la seta!...
    —Mentre noi, nelle sere
    Invernali, danziamo,—o cerchiamo al bicchiere,
    O al teatro, o al tepore—d'un buon letto, la gioia,
    Essi treman dal freddo—su una lurida stuoia
    Sdraiati, e addormentandosi—nelle insalubri stalle,
    Invidiano lo strame—ai bovi e alle cavalle!


    Lamentando una salsa—noi biasciam le vivande;
    Essi mangiano un pane—ch'e` peggior delle ghiande!
    Noi ci lagniam d'un nodo—nei fili d'un lenzuolo;
    Essi dormon vestiti—sovra un umido suolo!
    Gli operai cittadini—sono ricchi in confronto;
    Men terribile e` il male—ove il soccorso e` pronto!
    Noi possiamo, mendichi,—trovar pietose mani;
    Essi son soli, poveri,—quasi ignoti... lontani!...


    E la Fame li decima!


    —Oh! la Fame!... L'arcano
    Problema, che scombussola—ogni sistema umano!


    Come mai questo squallido—fantasma esiste?
    Noi
    Siamo pochi; la Terra—e` grande; i frutti suoi
    Dovrebbero bastare—a color che vi stanno!
    Chi ruba?... Chi nasconde?—Ov'e` dunque l'inganno?
    Perche` dunque chi suda,—e raccoglie, e lavora,
    Digiuna presso un uomo—che oziando divora?
    Perche` mai chi le glebe—feconda di sua mano
    Ne reca ad altri il frutto—e muor di fame?


    E` strano!


    Io so ben ch'e` una fisima—l'eguaglianza sociale,
    Poiche`, qui in terra, tutto—e` bene, e tutto e` male;
    Poiche' ciascuno al mondo—predilige un tesoro;
    Il savio i suoi volumi,—l'usuraio il suo oro,
    Il poeta i suoi sogni;—poiche` e` vana speranza
    Fra miseria e ricchezza—ottener l'eguaglianza:
    Poiche` fin che degli uomini—saran diversi i volti
    E nasceranno belli—e brutti, furbi e stolti,
    Deboli e forti, arditi—e timidi, i mortali
    Si rassomiglicranno,—ma non saranno eguali;
    So, che se tutti gli uomini—avesser oggi un pane
    Chiederebbero unanimi—il lusso alla dimane;
    So che e` propria natura—d'ogni nostro bisogno
    Di svanir, soddisfatto,—creando un altro sogno;
    Ma so ancor che un diritto—inconcusso e` la vita;
    Che sovra cose ed uomini—una legge e` scolpita,
    Una legge che domina—eventi, gaudi e lutti;
    Che la Terra ci grida:—“Figli, vivete tutti!”


    Oh!... Tremiamo!... Nel sacro—nome di questa legge,
    Che prodiga i suoi doni—e che tutti protegge,
    Forse, un giorno, puo` insorgere—questo popol di schiavi!
    L'ire represse in Furie—posson mutar gli ignavi!
    I fucili cadranno—dinanzi alle bidenti!
    Come i patrizii antichi,—i borghesi piangenti
    Bacieranno i figliuoli—per morir di mannaia!
    Le canzoni, che ai padri—narrarono dell'aia
    E dei campi le cure,—tuoneran tra i macelli...
    E saran la funebre—ironia dei ribelli!
    Quelle mani incallite—saccheggieran le alcove
    Dove i ricchi dormirono—i lunghi sonni, e dove
    Procreavan tiranni—alla timida plebe!
    I badili e le vanghe,—use a romper le glebe,
    Sfracelleran le teste—dei bimbi e dei vegliardi!...


    Oh!... Facciamo giustizia—prima che sia gia` tardi!
    Prima che sorga l'alba—di quel giorno tremendo!
    Facciam che i nostri figli—non bestemmin piangendo
    L'avidita` degli avi—che, coi pingui retaggi,
    Avran lasciato ad essi—il livor dei servaggi!...


    Ed or, rispetti umani;—inutili timori;
    Fanciulleschi desiri—di fanciulleschi onori;
    Genuflessioni timide—ad idoli tarlati,
    Arido galateo—coi nemici garbati;
    Martirii del cervello,—che proromper non osa
    Per mercar da un giornale—una linea graziosa;
    Amarezze inghiottite;—malintese prudenze,
    Che contro il rancidume—delle viete sentenze,
    Domate i sillogismi—del bollente pensiero;
    Oltraggi silenziosi—allo splendido Vero;
    Tacite abiurazioni—per la lode d'un giorno;
    Debolezze dell'uomo,—venitemi d'attorno!...


    Io vi lascio sul limite,—che non varcai finora,
    Perche` siete il tramonto—ed io voglio l'aurora;
    Perche` se noi, qui` in terra,—viviamo una giornata,
    Io d'ineffabil luce—la mia vo' illuminata;
    Perche`, sazio degli uomini,—io voglio amar l'Idea;
    Perche` gli oscuri baci—di questa sacra Dea
    Valgono i mille affetti—della gente piccina;
    Perche` val piu` il delirio—d'un sogno che affascina.
    Dell'entusiasmo d'obbligo—d'un ballo mascherato;
    Perche` ai dolor dei molti—io mi sono temprato,
    Perche` i ghigni di scherno,—la fame e la Censura,
    (Dalla fronte brevissima)—non mi fan piu` paura;
    Perche` la solitudine—amo piu` della folla;
    Perche` abborro i miasmi—d'una carne gia` frolla;
    Perch'io cerco per scrivere—una pagina bianca
    E sui vecchi caratteri—il mio sguardo si stanca!...


    Enrico, il cor mi batte—di generoso orgoglio!
    Si`, nella santa pugna—esserti al fianco io voglio!
    Noi propugniamo i dritti—della famiglia vera,
    Dei morenti di fame!
    —Sulla nostra bandiera
    Noi non scriviam: Rivolta!—Scriviam: Giustizia!
    Molti,
    Che mi furon diletti,—lo so, torcendo i volti,
    M'avran da questo giorno—in abbominio!
    I grulli
    Negli amori e negli odii—sono sempre fanciulli!
    Odian senza discutere;—aman senza pensare!


    Tal sia di loro!...


    Avanti!...—Avanti!... Al mare!... Al mare!
    Alla foce!... Alla foce!...—Degli errori all'oblio!...


    Dammi la mano, Enrico,—son socialista anch'io!


    NOVELLE IN VERSI





    ACQUA E FUOCO





    A FELICE UDA


    ACQUA


    I.


    Chi conosce Mercallo?
    E` un povero paese
    Tra i monti che separano—il lago di Varese
    Dal Verbano.


    Fa in tutto—un seicento abitanti,


    Quando i bachi e le vigne—dan raccolti abbondanti,
    I villani, alla festa,—cantano all'osteria
    E giuocando alla mora—bevon la malvasia.
    Quando il raccolto e` scarso—e il pallido digiuno
    Entra nelle capanne,—e siede, come un bruno
    Fantasima, dappresso—ai freddi focolari,
    La taverna e` deserta;—la nenia dei rosari
    Esce fuor dalle porte—dei meschini abituri
    (Dove spiccan le teste—sovra dei fondi oscuri),
    Come fuor da una chiesa—esce l'odor d'incenso.


    Oh! La chiesa! La chiesa!—Ecco il tripudio immenso
    Dei villani!
    I beoni—frequentano la chiesa
    Anch'essi!.. Almeno la`—possono alla distesa
    Metter fuori la voce,—quando l'economia
    Nei di` grami li tiene—lungi dall'osteria!


         * * * * *


    Or nel mille ottocento—e cinquanta, a Mercallo,
    Nell'unica taverna—all'insegna del Gallo,
    Abitava un vecchietto—con una figlia, bionda,
    Bella, diciassett'anni,—ben tornita e gioconda.


    Gli affari prosperavano—che da parecchie annate,
    I villani contavano—men meschine derrate;
    E percio` nelle botti—non dormigliava il vino.


    La fanciulla avea nome—Lisa; il padre Martino.
    Era un buon galantuomo—(cosa in un oste rara
    Ed in tutti i mestieri).
    —Stando al mondo s'impara.
    E Martino a sessanta—anni aveva imparato
    A pigiar bene l'uva,—a trovar sul mercato
    Fiducia, e ad adorare—l'unica figliuola.


         * * * * *


    Nel cinquanta a Mercallo—fu fondata una scuola.
    Era il verno.—Il Comune—fe' venir da Milano
    Un maestro; un bel giovane;—avea nome Graziano;
    Gli die` il lauto stipendio—di quattrocento lire
    All'anno, e un bugigattolo—dove poter dormire.


    Con quattrocento lire—di Milano (vi pare,
    O miei buoni lettori?)—nessun la puo` scialare!
    Eppure il giovinotto,—contro ogni economia,
    Avea trovato il modo—d'andare all'osteria
    Tutte le sere!
    E` vero—che beveva assai poco!
    Un bicchiere soltanto!...—Se lo sorbiva al fuoco,


    Ma di bicchier quel verno—egli ne bevve tanti,
    Che in aprile Graziano—e Lisa erano amanti!


         * * * * *


    Il padre se ne accorse—e ne fu lieto assai,
    Ma ne` a Lisa ne` al giovane—volle parlarne mai.
    Gli piaceva il maestro.—Il suo piglio cortese
    Gli aveva cattivato—gli animi del paese.
    Era povero!... E` vero!...—Ma cos'era Martino?...
    Viveva! Questo e` il compito—di chi nacque meschino...
    E il vecchietto diceva:—“Presto l'avro` adempito!”


    Quando la primavera—col suo tiepido dito
    Venne a schiuder le imposte,—inchiodate dal verno;
    Quando i campi e il creato—col loro canto eterno
    Intuonarono l'inno—della vita novella;
    Quando Lisa a Graziano—parve farsi piu` bella;
    Quando fu del vin vecchio—vuota l'ultima botte;
    Il maestro veniva—dopo la mezzanotte
    A passeggiar soletto—intorno all'osteria.


    Allora al primo piano—una griglia s'apria.


    Era Lisa.


    I due giovani—non contavan piu` l'ore!
    Chi di voi l'ha contate—nei colloqui d'amore?


    Ma le contava il vecchio—dal suo secondo piano.


    “Come ti voglio bene!”—mormorava Graziano
    Alla bionda fanciulla.


    Ella diceva: “Anch'io!”


    Ed egli soggiungeva:—“Domattina, amor mio,
    “Voglio farmi coraggio!—Vo' chiederti in isposa
    “A tuo padre!...”


         * * * * *


    Il vecchietto—ascoltava ogni cosa,
    E rideva in cuor suo.—Eran tanto innocenti
    Quei colloqui!... Ei pensava—ai begli anni ridenti
    In cui per la sua donna—avea fatto altrettanto!
    Si sentiva commosso;—avrebbe quasi pianto
    Di gioia!...
    Ma l'aprile—passo`; giugno passo`;
    E l'estate trascorse;—e l'autunno arrivo`;
    Ne' il povero maestro—aveva ancor trovato
    Il coraggio di dire:—“Io sono innamorato
    “Di vostra figlia” al padre.
    —In settembre le notti
    Divenner fresche. Il vino—nuovo dentro le botti
    Bolliva.
    “E` strana cosa!”—Rifletteva Martino,
    “Graziano e Lisa in tutto—somigliano al mio vino!
    “Mentre di fuor fa freddo—hanno il cuore che cuoce!”


         * * * * *


    Una notte pioveva.—Parea quasi una voce
    Di lamento, lo squillo—delle poche campane
    Che suonavano l'ore—nelle valli lontane.
    Il tocco era passato.—Dal suo secondo piano,
    Ascoltando il colloquio—di Lisa e di Graziano,
    Il vecchietto tremava—pel freddo.
    Il giovinotto,
    Sfidando l'intemperie,—mormorava di sotto
    Alla nota finestra:—“Come ti voglio bene!”


    “Anch'io!” Lisa diceva.


    —E il maestro: “Conviene
    “Ch'io mi faccia coraggio!—Tuo padre domattina
    “Sapra` tutto!... Speriamo!...—E poi, Lisa, indovina
    “Che rispose il curato—quando ieri gli ho detto
    “D'amarti?”
    “Che rispose?”
    —“Ma, Signor benedetto!
    “Esclamo`: Fatti avanti!—Parla a Martino... Prova!...
    “Animo!... Se suo padre—la vostra unione approva,
    “Non c'e` nissuno al mondo—disposto a benedirla
    “Piu` di me!



    “Giurabacco!—E` tempo di finirla!”
    Spalancando le griglie—tuono` il vecchio dall'alto.


    Il coraggioso giovine—fe' per spiccare un salto...
    E fuggire...
    Martino—gli grido`: “Ma, per Diana,
    “Fermati, giovinotto!—Cosa son?... La befana?...
    “Via!... Piuttosto che espormi—a mille infreddature
    “Fate presto, sposatevi,—mie care creature!”



         * * * * *


    Graziano sposo` Lisa.
    —Era tempo!
    Martino
    Mori`.
    Il maestro allora—lascio` i libri pel vino.
    Divenne ostiere.
    Lisa,—dopo quattr'anni, anch'ella
    Spiro`, mettendo al mondo—una bambina bella
    Come un amore, e cui—lascio` erede del nome.





    II.


    Nel mille ed ottocento—settanta, colle chiome
    Che parevano d'oro,—allegra e ben tornita
    Era la nuova Lisa—la delizia e la vita
    Del padre, a cui la testa—s'era fatta canuta.


    Egli la contemplava—in un'estasi muta;
    Le baciava la fronte;—la chiamava folletto;
    Le dicea di ripetergli:—“Oh! Mio babbo diletto!”
    Ai villani, recando—la solita scodella
    Di vino, domandava:—“Non e` vero che e` bella?”
    Volea che alla domenica—ogni donna, alla messa,
    Mormorasse vedendola:—“Guarda com'e` ben messa!”


    Le aveva appreso a leggere.
    —Su un libro d'orazioni
    Avea di proprio pugno,—con grossi paroloni,
    Scritto dei versi (ignoro—di qual poeta); questi:


    Le fanciulle son angioli
    Che pregan col candore;
    Per esse il vecchio padre
    E` il loro primo amore!


         * * * * *


    Ma pel povero padre—vennero i giorni mesti


         * * * * *


    Il volto allegro e sano—della bella fanciulla
    Si fe' pallido e magro
    “Che hai?” Le chiese.
    “Nulla!”
    Ella rispose.
    Il vecchio—divenne da quel giorno
    Pensieroso. Le stava—ogni momento attorno;
    Volea leggerle in cuore;—di notte non dormiva.


         * * * * *


    Una notte, fra l'altre,—(era una notte estiva)
    Egli balzo` dal letto—e s'affaccio` inquieto
    Alla finestra,
    Il lume—degli astri, mansueto
    Come un guardo materno,—sulla terra piovea:
    Il corteggio dei colli,—da lungi, si perdea
    Dietro il caro ideale—dell'azzurro dei cieli;
    Lo stormir delle fronde—parea fruscio di veli;
    Le campagne riarse—dai torridi sollioni
    Beveano la rugiada;—le Talli aveano suoni
    Indistinti, soavi;—il villaggio dormia
    Sul guancial di granito—che e il monte gli fornia.


    Ei guardo` gli astri, i colli,—e l'azzurro orizzonte,
    E le piante, ed i campi,—ed il villaggio, e il monte
    Che gli sorgea daccanto...—Parea cercar la via
    Su cui stornar la mente—da una triste malia...


    Ma la cercava invano!—Ei pensava a sua figlia.


         * * * * *


    Che e` questo?
    Al primo piano—s'e` dischiusa una griglia,
    Giu`, nella via, si muove—un'ombra nera.
    Dice
    Una voce da basso:—“Lisa, notte felice!
    “Come ti voglio bene!”


    —L'altra risponde: “Anch'io!”


    Allor l'ombra soggiunge:—“Domattina, amor mio,
    “Voglio farmi coraggio!—Vo' chiederti in isposa
    “A tuo padre...”
    Ad un tratto—cordiale e fragorosa
    Scoppia, come una folgore,—una risata in alto.
    Gia` l'ombra coraggiosa—sta per spiccare un salto
    E fuggire...
    Ma il vecchio—le grida: “Evvia!.,. Perdiana,
    “Fermati, giovinetto!—Cosa son? La befana?
    “Orsu`!.. Per risparmiarmi—le mille infreddature
    “Fate presto! Sposatevi,—mie care creature!”


         * * * * *


    O lettrice cortese,—non dir che t'ho ingannata!
    E` vero, troppo semplice—novella io t'ho narrata!
    La colpa non e` mia—ma degli umani eventi!...
    Una storia monotona—han gli amori innocenti!
    Nella gente volgare—(che invidio e che rispetto
    Per rispettar me stesso)—si ricopia ogni affetto
    Di padre in figlio.


    E` un calcolo—infinitesimale;
    E` l'acqua, che puo` forse—aver nome termale,
    O salsa, o benedetta,—o tofana, o stagnante,
    Ma s'assomiglia sempre—con ben poca variante!


    E quest'acqua e` il racconto.


         * * * * *


    —“Per farlo men meschino
    (Tu mi dirai) “Poeta—ci hai messo anche del vino!


    Ahi!... L'acqua guasta tutto!—Persino il vino buono!


    La bevanda fu insipida—te ne chieggo perdono...
    Vuoi un'altra novella?
    —La leggerai fra poco.
    Bada!.. Non riscaldarti!..—Ha per titolo: Fuoco!


    Milano, 1875.





    FUOCO


    Era sera e pioveva.
    —Il tremolante raggio
    Delle lampade ad olio,—accese nel villaggio
    Dinanzi alle Madonne,—col giallastro bagliore
    Sulle pietre specchiavasi—della strada Maggiore;
    Sulle pietre, cui l'acqua—rendea lucide e nere,
    E alle quali imprecava—un grosso carrettiere,
    Perche` il mulo a ogni passo—scivolava.
    La via
    Era deserta.
    In alto—dicean l'avemmaria
    Due fesse campanuccie.
    —Di piombo il ciel parea,
    E la sottil pioviggine—silenziosa cadea.


         * * * * *


    Le galline e i piccioni,—nascosti sui fienili,
    O accovacciati agli angoli—dei luridi cortili,
    Borbottavan sommessi—cercando il posto adatto.
    Sulle ceneri calde—s'accoccolava il gatto.
    I dindi, che non amano—dormire affratellati,
    Sui carri e sulle travi—eransi sparpagliati;
    Taluni dai piuoli—d'una scala sbilenca
    Dominavan la scena.
    —Il bove e la giovenca
    Ruminavan sdraiati—nelle tiepide stalle,
    Pensando forse all'erba—brucata nella valle
    E alla miglior pastura—da sceglier la dimane.


    Col muso fra le zampe,—dalla sua cuccia, il cane
    Guardava con disprezzo—dell'oche la famiglia,
    Mentre un fanciullo lacero—con una fronda in mano
    Di spingerla all'asciutto—s'affaticava invano.


    L'orizzonte, all'occaso,—colla sua tinta scialba
    Facea dir: “Sol che guardaindietro, pioggia all'alba!
    E con questo proverbio—le rubizze comari
    Chiudevano le imposte—dei rozzi casolari.


         * * * * *


    Quella sera non c'era—benedizione in chiesa.
    La prebenda era povera,—non potea far la spesa
    D'accender tanti moccoli—tutti i giorni.
    Il curato
    Passava coll'ombrello—sull'umido sagrato,
    Movendo a lunghi passi—verso la farmacia.


    Cola` la vieta triade—del villaggio venia
    A far tutte le sere—la solita partita.


         * * * * *


    “Buona notte, Teresa!”—“Salute, Margherita!”
    “Dormite bene, Checca!”—“State bene, Gervasa!”


    Eran le donnicciuole—che rientravano in casa.


         * * * * *


    I lumi scintillavano—nelle rustiche stanze;
    Sui talami nuziali—scendevan le esultanze;
    I vecchi accarezzavano—le coltri cogli sguardi;
    I bimbi sonnecchiavano.
    —Alcuni, piu` testardi,
    Strillavan nella culla—con noiosi lamenti.
    La nenia dello gocciole—dalle gronde cadenti,
    Come un canto materno,—diceva lor: “Tacete!”


    I desiderii inutili—colle vampe segrete
    Turbavan le orazioni—delle fanciulle ed esse
    Accanto al picciol letto—pensavan, genuflesse,
    Dell'amante villano—all'ultima parola,
    E trovavano fredde—le candide lenzuola,
    E con stolidi accenti—pregavano il Signore
    Perche` la santa fiamma—spegnesse a lor nel cuore!


    Sovra le brune case—il silenzio scendea,
    E la sottil pioviggine—lentamente cadea.


         * * * * *


    A un tratto, come il lampo—che le nubi rischiara,
    Risuono` da lontano—un'allegra fanfara.


    I fanciulli, che uscirono—sugli alpestri sentieri,
    Tornarono di corsa—gridando: “I bersaglieri!
    I bersaglieri!!!”


    Allora—fu un batter d'impennate,
    Un cigolar sui cardini—d'imposte spalancate,
    Un vagolar di lumi—sulle negre baltresche,
    Un vociar di padrone,—un chiamar di fantesche.


    Si gridava: “Correte!...—Son qui!... Sono vicini!”


    Le madri abbandonavano—le culle dei bambini;
    E, fra l'essere donne—curiose o madri buone,
    Prendeano il mezzo termine—d'affacciarsi al verone,
    Tenendo sempre a bada—colla coda dell'occhio
    Il letticciuolo, dove—miagolava il marmocchio.


         * * * * *


    La fanfara appressavasi.—Con un piglio insolente
    Parean le note acute—sfidar l'ombra silente.


    Le fanciulle, lasciando—divozioni e rosari,
    Balzavan sulle soglie—dei bruni casolari;
    Colle pupille in fiamme,—battendo mano a mano,
    Saltellavan di gioia,—e guardavan lontano,
    In fondo alla contrada.
    —Gli squilli delle trombe,
    Come fitta gragnuola—che sui tetti precombe,
    Echeggiar nella via,—annunziando al villaggio
    Che i bersaglieri entravano.
    —Sotto il tenue raggio
    D'una lampada santa,—fantastiche visioni,
    Sfavillaron nell'ombra—le bocche degli ottoni.


         * * * * *


    I soldati marciavano—serrati; il suon dei passi
    Cadenzato e monotono—rimbombava sui sassi;
    I tinniti dell'armi—pareano strappi d'arpe;
    Nelle pozze e nel fango—cadean le larghe scarpe
    Insudiciando l'uose—strette sulle caviglie;
    La pioggia scivolava—sulle negre mocciglie
    E imperlava i cocuzzoli—dei cappelli alla scrocca.


    I fanciulli, guardandoli,—aprian tanto di bocca;
    Le ragazze esclamavano:—“Che bei giovani!”


    Ed era
    Bujo!!!


         * * * * *


    Dinanzi a tutti,—accanto alla bandiera,
    Marciava un uffiziale—dal torace spazioso,
    Dalle spalle quadrate.—Marciava silenzioso,
    Colla fronte dimessa;—parea sopra pensieri.


    Pensava egli al domani?—Pensava egli all'ieri?
    Forse pensava a nulla!
    —Con piglio indifferente
    Egli passava in mezzo—allo stuol della gente
    Ed automa ambulante—si guardava i ginocchi.


    Giunto presso a una lampada—l'uffiziale alzo` gli occhi
    E si fermo`.
    Due stelle—gli brillavan davanti;
    Due stelle nere, lucide,—che parevan diamanti.
    Erano due pupille,—cui fea cornice un volto
    Di giovinetta, pallido,—nella penombra avvolto.


    Il soldato col guardo—esperto ed indovino
    S'accorse che quel volto—era un volto divino;
    Un volto sedicenne—di bellezza ideale!
    Vide due labbra tumide—dal taglio sensuale,
    Una fronte purissima,—un mento ovale e fine,
    Dalla pelle cosparsa—di linee azzurrine,
    E su due guance bianche—cader due brune anella.


    Il soldato, baciandola,—disse: “Quanto sei bella!”


         * * * * *


    La fanciulla fu presa—da uno strano languore
    E mormoro`, abbracciandolo:—“Assistimi, o Signore!”
    Indi trasse il soldato—sotto un andito oscuro;
    Spinse una porticella—che s'apriva nel muro
    E fe' cenno che entrasse.
    —Ei la segui`...
    La porta
    Fu chiusa.


         * * * * *


    Era una stalla.—
    Piovea la luce smorta
    Da una piccola lampada—che dall'alto pendea;
    Una magra giovenca—gravemente giacea
    Su poca paglia; agli angoli—delle rozze pareti
    I ragni sciorinavano—le polverose reti;
    La soffitta, composta—d'esili travicelli,
    Era negra pel fumo;—vanghe, zappe, rastrelli
    In un canto appoggiavano—l'aste lunghe e lucenti;
    In fondo c'era un mucchio—d'erbe e di fiori olenti
    Falciati nella sera.
    —La fanciulla s'assise
    Su quel mucchio di fiori;—alzo` gli occhi e sorrise.
    Poi disse a voce bassa:—“Qui ci vede nessuno!
    “Mio padre dorme... E poi—sara` un minuto!”
    Il bruno
    Ufficiale si pose—a sederle dappresso.


    Ella guardo` per poco—lo smagliante riflesso
    Dei bottoni dorati—del giovane soldato;
    Li toccava, tremando,—col dito fusellato;
    Sembrava come assorta—in un sogno; chinava
    La testa sovra il petto—e quel petto anelava...


    Ad un tratto, cogli occhi—socchiusi, alzo` la faccia;
    Cinse il collo del giovane—con entrambe le braccia
    E...........—............
    ...........—.............


         * * * * *


    Giovinette ardenti,—donne all'amor create,
    Da una stolida legge—a soffrir condannate,
    Non sognaste voi forse—il gaudio d'un istante
    Ricordando il profilo—d'un maschio sembiante?


    O superbe matrone,—dalle vesti scollate,
    Che parlate d'onore—e di virtu` parlate,
    Io sorrido al severo—vostro piglio glaciale
    Perche` so che i viventi—hanno un nemico eguale!
    La carne!... Questa schiava—ribelle, non mai doma,
    Che freme al sol contatto—d'una leggiadra chioma!


    Voi pur siete di carne,—o severe matrone,
    E forse in qualche giorno—di suprema oblivione
    E d'ardore supremo,—da ogni sguardo lontane,
    Voi pure calpestaste—le convenienze umane,
    E ai baci d'un ignoto—vi abbandonaste ignude!


    Chi narrera` i misteri—che un cuor di donna chiude?
    Chi gli incontri fatali—che il caso ha preparato?


    Fu un istante!... Nessuno—lo seppe... Il fortunato
    Bacio`, tacque e passo`...
    —La matrona severa
    Ripiglio` la sua maschera—nei crocchi della sera;
    Ad un detto men cauto—finse sentirsi offesa;
    Frequento`, come al solito,—e corsi, e balli e chiesa;
    Licenzio` la domestica—e il fedel servitore
    Perche` nell'anticamera—parlavano d'amore;
    E, suscitando intorno—mille fiamme lascive,
    Visse, come ogni dama—che si rispetta, vive:
    Ipocrita a trent'anni,—bacchettona a cinquanta,
    Borbottona a sessanta,—e nel feretro santa!...


    Giovinette di fuoco,—donne all'amor create,
    Da uno stolto egoismo—a soffrir condannate;
    Giovinette di fuoco—e superbe matrone,
    Che forse in qualche giorno—di suprema oblivione
    E di supremo ardore,—da ogni sguardo lontane,
    Calpestaste con gioia—le convenienze umane
    E ai baci d'un ignoto—v'abbandonaste ignude,
    Voi capirete il senso—che il mio racconto chiude!


         * * * * *


    Quando il bruno soldato—usci` sopra la via
    Gli passava dinanzi—l'ultima compagnia.
    Ei, raddoppiando il passo,—raggiunse la bandiera.


    La fanciulla (che tale—da un istante non era),
    Sovra il mucchio di fiori—pareva addormentata...
    I suoi sogni di languide—vision la fean beata.


    Come noi sogniam spesso—negli anni adolescenti
    Di leggiadre donzelle—i bei volti ridenti,
    Ella sognava un nimbo—di giovinetti gai...


         * * * * *


    La fanciulla e il soldato—non si vider piu` mai,


    Napoli, 29 febbraio 1876.


    MASTRO SPAGHI


    A


    FELICE CAMERONI


    MASTRO SPAGHI


    I.


    Mastro Spaghi era il boia—della citta` d'Urbino.
    Contava cinquant'anni;—era smilzo e piccino;
    Era calvo; il suo cranio,—da lontano, pareva
    Una palla di vetro.—Sul petto gli cadeva
    Una candida barba.—Avea gli occhi profondi,
    L'orbite cavernose,—i pomelli rotondi
    E violetti, le labbra—grosse e larghe.
    Campava
    Tirando il collo agli altri.


         * * * * *


    —La forca prosperava
    Nell'Evo Medio!
    Oh! Quelli—eran tempi beati!
    Ne` i maggiori colpevoli—erano gli appiccati!


    I furbi ed i potenti—facevano man bassa,
    Come chi taglia spiche,—sui capi della massa.
    Le tanaglie e l'eculeo,—le scuri ed i capestri
    Fiorivan dappertutto.
    —Percio` v'eran maestri
    Nell'arte del carnefice!
    —A Roma avea gran nome
    Un boia, che sapeva—dal calcagno alle chiome
    Tanagliare una vittima,—senza farla spirare.


    La Santa Inquisizione—avea fatto educare
    Molti allievi alla scuola—di cotanto maestro.


    In quanto a mastro Spaghi—s'era dato al capestro.


         * * * * *


    Perche` vi spaventate,—o lettori cortesi,
    S'io parlo di carnefici?
    —Il nome lor lo appresi
    Nella storia dei popoli,—in cui tengon gran parte,
    Il dire mastro Spaghi—o il dire Bonaparte
    Per me suona lo stesso.—Ammazzare al dettaglio
    O in partita, gli e` sempre—ammazzare.


    Il barbaglio
    Della gloria e del genio—pel filosofo e` nulla!
    Che`, sfrondati gli allori,—v'e` la campagna brulla;
    V'e` la campagna brulla,—tutta a macchie di sangue;
    Ove il forte sogghigna;—ove il debole langue;
    Ove stanno i carnefici—e le vittime.
    Evvia!
    Perche` mai vi spaventa—questa novella mia?
    Converrebbe abolire—la storia ed i cannoni
    Per non parlar di boia!
    —Abolirli?... Illusioni
    D'anime semplicette!
    —Togliam le guerre e il boia,
    E impossibile e` il dramma,—e morirem di noia!


    L'umanita` e` un malato—che di salassi ha d'uopo!


    Ma finiran le guerre—e i carnefici!...
    E dopo?
    Che faranno i mortali?—Quali saranno i temi
    Degli umani discorsi—degli umani poemi?


    Saran la fede immensa;—l'amore universale;
    I viaggi nell'aria,—e l'assenza del male;
    Del male, che pei posteri—sara` l'egual chimera
    Di quel che e` il ben per noi!
    —E s'anco fosse vera
    Questa ideal famiglia—degli umani (fra mille
    Miliardi di secoli)—figgiamo le pupille
    Ancor piu` innanzi...
    Il cerebro—Mormora ancora: “E poi?...”
    Siam daccapo alla noia!





    II.


    —Fra tutti i pari suoi
    Mastro Spaghi emergeva—nell'arte del capestro.
    La gran pratica e` vero—l'avea reso il piu` destro
    In tal ramo di scienza;—ma il suo merito c'era.
    Fabbricava lacciuoli—in siffatta maniera
    Che gli altri d'imitarlo—avean tentato invano!
    La seta piu` ribelle—di mastro Spaghi in mano
    Si mutava in un filo—cosi` forte e sottile,
    Qual non l'avria mutato—la mano piu` gentile
    D'una donna ai ricami—espertissima.


         * * * * *


    Quando
    Saliva sopra il palco—era proprio ammirando!


    Dall'alto della forca—con un braccio potente,
    Al segnale prefisso,—ei ghermiva il paziente;
    Gli chiudeva la strozza—col famoso lacciuolo;
    Poi, lasciata la vittima,—ratto balzava al suolo
    E, con ambe le mani—afferrati i ginocchi,
    Dava uno strappo...
    Il misero—schizzava in fuori gli occhi
    Tremava in tutto il corpo;—contorceva la faccia;
    Allungava la lingua;—dibatteva le braccia;...
    Ma era affar d'un istante!...
    —E il popolo plaudiva
    A lui che cosi` presto—d'una persona viva
    Sapea fare un cadavere!


         * * * * *


    Il popol gli era grato,
    Perche` soltanto il popolo—era allora appiccato.
    I nobili morivano—di scure, e i popolani
    Dicean: “Se mi facessero—appiccare domani
    “Per man di mastro Spaghi—preferirei morire.
    “Mastro Spaghi ama il popolo,—che` non lo fa soffrire!”



    III.


    In vent'anni la fama—del nostro personaggio
    Nelle citta` d'Italia—avea fatto viaggio,
    Raccontando la storia—di mille impiccamenti,
    Miracoli dell'arte,—alle estatiche genti;
    Tantoche` mastro Spaghi,—il carnefice artista,
    Era chiamato ovunque,—al par d'un concertista
    Nei di` presenti; ed egli—era sempre in cammino.


    Oggi appiccava un ladro—nella citta` d'Urbino;
    L'indomani a Piacenza—giungeva di gran fretta
    Per un villan, che avea—tentato far vendetta
    Contro il Duca, perche`—questi gli avea (badate
    Che inezia!) la sorella—e la sposa violate;
    Il di` dopo correva—a Firenze, chiamato
    Per un giovane ardente,—che aveva cospirato
    (Diceva la sentenza),—contro le leggi.
    Insomma,
    Mastro Spaghi pareva—una palla di gomma
    Che balza, ed agli astanti—sembra dir: “Dove vado?”





    IV.


    Adesso lo troviamo—a Sant'Angelo in Vado,
    Grossa borgata allora,—posta tra l'Appennmo
    Ed i repubblicani—colli di San Marino.


    A Sant'Angelo in Vado—non c'e` che una prigione.


    Nel mille e due (secondo—la vecchia tradizione)
    V'abitavano i frati;—era un piccol convento;
    Non divenne prigione—che nel mille e trecento.


         * * * * *


    Mastro Spaghi sedeva—in un umida stanza,
    I cui muri, giallognoli—e a macchie, avean sembianza
    Di facce d'appiccati.
    —Era una notte estiva.
    Sui campi la finestra—della stanza s'apriva.
    Di fronte alla finestra—c'era una porta, quella
    D'un carcere, che un tempo—era stato una cella,
    La` stava il condannato—a morire domani
    Sulla forca.


    Il carnefice—torceva nelle mani
    Un superbo lacciuolo.—Splendeva alla sua destra,
    Su un tavolo, una lampada.
    —La vicina finestra
    Tormentava il lucignolo—con buffi violenti,
    Di profumi campestri—soavemente olenti.


    Mastro Spaghi annasava—le odorose zaffate
    Come un fanciul che sogna—le libere giornate
    Nella scuola rinchiuso,—e il cui sguardo si perde
    Alle cime dei pioppi—che si pingon di verde,
    E al cielo azzurro, mentre—il professor di greco
    Gli spiega la grammatica.
    —Non la piu` debol eco
    Il silenzio turbava.
    —S'erano i borghigiani
    Coricati assai presto,—per poter l'indomani
    Svegliarsi di buon'ora,—e gustar per intero
    La festa della forca.


         * * * * *


    —Dormiva il prigioniero?
    Io l'ignoro.
    Chi veglia—e` mastro Spaghi.
    E questi
    Faceva a bassa voce—dei monologhi mesti:





    V.


    “Questo e` quel dei dugento—che in vent'anni suonati
    “Spacciero` sulla forca.—I primi che ho spacciati
    “Mi costarono lagrime—di compassione! Io penso
    “Con vergogna a quei tempi!-Non avevo buon senso!
    “Cos'e` strozzare un uomo?—Mandarlo all'altro mondo!
    “E questo (almen mi pare)—e` un beneficio, in fondo!
    “Forse, che in questo qui—si sta meglio? Che bazza!
    “Chi non vi nasce ricco,—o di nobile razza,
    “O vigliacco del tutto,—o forte, o scaltro, od empio,
    “Ci viene per soffrire,—o per fare, ad esempio
    “Di me, la bella parte—di carnefice!”


         * * * * *


    Un grillo
    Lungi nella campagna,—turbo` il sonno tranquillo
    Alle cicale, sopra—le piante addormentate,
    Con note cosi` allegre—che parevan risate.


         * * * * *


    “Oh!... Le note dei grilli,—umili creature,
    “Piccioletti filosofi—desti nell'ore oscure,
    “Come son liete!” disse—il boia sospirando.
    “Essi vivono poco;—e col profumo blando
    “Delle erbette si innebriano;—son vestiti di nero
    “Per darsi fra gli insetti—un tal piglio severo,
    “Ma in cuor ridon di tutto!—Dormono la giornata,
    “Poi di notte nei campi—corrono all'impazzata!...


    “E dir che, giovinetto,—io n'ho ammazzate tante
    “Di queste bestioline!...
    —Allora ero l'amante
    “Di Rita, la piu` bella—forosetta che Iddio
    “Ai campi regalasse!...—Almeno, a parer mio!


    “Era bionda; abitava—qui presso, a poche miglia,
    “In una casettina—tra i monti. La giunghiglia
    “Ne baciava i mattoni—profumandola tutta.
    “Una quercia, simile—ad una vecchia brutta
    “Che s'e` presa d'amore—per un bel giovinetto,
    “Abbracciar del tugurio—parea volesse il tetto;
    “Un tetto di lavagna—nera, lucente, lina,
    “Su cui ridean gli steli—d'una rosa canina.
    “Mi parea che si amassero—quel tetto e quella rosa!
    “Anzi il tetto, agli abbracci—di Madonna Ghiandosa
    “Quasi per isfuggire—parea farsi piu` basso!
    “Chi conosce i misteri—d'una pianta o d'un sasso?
    “Noi ci viviamo in mezzo—cogliam le frutta e i fiori,
    “Caviam fuoco dal sasso...—ed ecco tutto!”





    VI.


    Fuori,
    Nell'aperta campagna,—il grillo allegramente
    Trillo` ancor. Mastro Spaghi—sospiro` nuovamente.


         * * * * *


    “Poveri grilli! Povere—bestiole liete! Quante
    “N'ho ammazzate!... Di Rita—ero allora l'amante!
    “La notte, quando tutti—dormivano, soletto
    “Io m'aggiravo intorno—alla quercia ed al tetto,
    “Spiando la finestra—dove Rita dormiva.


    “Talora ella l'apriva,—ma quando non l'apriva
    “Che fare in mezzo ai monti—aspettandola?—Un poco
    “Sedea sull'erba e il guardo—alzavo al cielo. Il fioco
    “Lume degli astri piovere—sentia nelle pupille!
    “Oh! Quanti dolci fascini—han le notti tranquille!
    “Poi dagli steli, madidi—di rugiada, sul volto
    “Mi balzava un insetto.—Io ghermivo lo stolto...
    “Era un grillo; io grattavo—il suo ventre, per fare
    “Che il povero piccino—avesse a strimpellare
    “Qualche rullo di note—che svegliassero Rita...
    “Ma la bestiola in mano—mi moriva sfinita!
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


    “Oh!... Sta a veder ch'io piango—perche` ho ucciso dei grilli!
    “Per Dio! Strozzai tanti uomini—ed ho i sonni tranquilli!”





    VII.


    La lampada schizzava—bagliori incerti e vaghi
    Sovra il meditabondo—cranio di mastro Spaghi,
    Il lacciuol, colle mani—inerti, sui ginocchi
    Del boia era caduto.—
    Ei tenea fisi gli occhi
    Sul laccio e sulle mani...
    —Ma il suo pensier dovea
    Essere ben lontano.


         * * * * *


    —Il vegliardo dicea
    A fior di labbra:
    “Rita!...—Vent'anni son trascorsi!
    “Da allora n'ho provati—di angosce e di rimorsi!
    “Sono stato un vigliacco!—Quando il Duca d'Urbino,
    “Dopo l'jus primae noctis,—sorridendo, il mattino
    “A me t'ha rimandata,—io dovevo tacere,
    “O ucciderlo... od uccidermi!—Quando il tristo messere
    “Io di spacciar tentai—per vendicarmi, invano
    “Io raccolsi il coraggio—in codesta mia mano!
    “Questi privilegiati—che portano un gran nome
    “Hanno un certo prestigio—che fa rizzar le chiome
    “Ai piu` arditi; hanno un fascino—che noi, povera gente,
    “Siam dannati a subire;—hanno un piglio insolente
    “Che agghiaccia!... Superiori—a noi li fece Iddio!
    “Sospeso sul suo petto—rimase il braccio mio,
    “E la mano ribelle—non mi volle ubbidire!”


         * * * * *


    Una nottola venne—nella stanza a squittire
    Attirata dal lume;—fece due giri in tondo
    Nelle pareti urtando;—poi nel buio profondo,
    Fuori della finestra,—torno`, battendo l'ali,
    Spaventata d'avere—osato tanto.



    VIII


    Eguali
    Alle gocce che il tufo—nell'umide caverne,
    Lagrime solitarie,—lentamente secerne,
    Poche gocciole fredde—imperlavan la testa
    Del boia.


         * * * * *


    Egli diceva:
    ”—Fu una notte funesta!
    “So che mi son svegliato—con pesanti catene
    “Ai polsi e alle caviglie.—Me ne ricordo bene!


    “Non un raggio di luce!—Un fetore di morte
    “Mi saliva alle nari.—Le catene eran corte.
    “Mi addormentai di nuovo.—E d'essere un mastino
    “Sognai.—
    Fui risvegliato—sul fare del mattino
    “Da un uomo lungo e pallido.—
    Io gli chiesi chi fosse.
    “Ei non rispose, colto—da un accesso di tosse;
    “Il fetor della carcere—gli grattava la gola.


    “Fui condotto all'aperto.—
    Un frate colla stola
    “Negra mi passo` accanto.
    Lo seguivan dei ceffi
    “Da ribaldi, che feano—orribili sberleffi
    “A un meschin che legato—ne veniva con loro.


    Alla forca!... Alla forca!”—gli gridavano in coro.


    “Egli batteva i denti,—era tutto tremante;
    “E, non potendo piangere,—contorceva il sembiante.


    “Allora l'uomo pallido,—che mi stava vicino,
    “Mi tocco` sulla spalla,—e additando il meschino,
    “Miagulo`:—
    Il Serenissimo—Luca ti manda a dire
    “Se ti piace di vivere,—o ti piace morire.
    “Il carnefice e` vecchio.—Se ti garba il mestiere
    “Comincia a strozzar questo.—Verra` il Duca a vedere.
    “Se il mestier non ti garba,—oppur non ci sei nato,
    “Invece d'appiccare—sarai tu l'appiccato.
    “Il Duca e` giusto e buono;—a tanta sua clemenza
    “Mostrerai collo zelo—la tua riconoscenza.
    “Rispondi? Che vuoi essere:—Od appiccato, o boia?



    ”—Il secondo! Il secondo!”—Io risposi con gioia!



    IX.


    Egli stringea le labbra—e aveva chiuso gli occhi,
    Che` il duolo ama le tenebre.
    Le mani sui ginocchi
    Tremavano, ed il mento—sul petto si appoggiava.


         * * * * *


    “Me due volte vigliacco!”—mastro Spaghi pensava.
    “Potevo una sol volta.—esserlo!... Avrei dovuto
    “Tenermi la mia sposa—e scordar l'accaduto!
    “L'oltraggio era comune—a mille! Sarei stato
    “Felice! Forse un figlio—Iddio m'avrebbe dato
    “O una figliola, bella—come sua madre!
    Oh! Rita.,.
    “Dove sei?
    Mi narrarono—che te ne sei fuggita
    “In paese lontano,—quando ti venne detto
    “Ch'io facevo il carnefice,—e che m'hai maledetto!
    “Un pastore stamane—m'asseriva che al seno,
    “Partendo, ella teneva—sospeso il frutto osceno
    “Di quella notte orrenda...—una bimba dormente!
    “Da allora in poi nessuno—la rivide...
    Clemente
    “Iddio, se rivedere—un di` potessi almeno
    “Questa bimba, che Rita—tenea sospesa al seno!”





    X.


    E alzo` gli occhi.
    Miracolo!—Dinanzi a mastro Spaghi
    Una forma di donna,—ai raggi fiochi e vaghi
    Della lampada, spicca,—sul buio della stanza.


    E` una fanciulla pallida—e bella. Ella s'avanza,
    Tenendo sulle labbra—l'indice, a passi lievi.
    Le sue pupille intorno—schizzano lampi brevi
    E inquieti, e, scorgendo—cola` soltanto il boia,
    Si volgono all'usciuolo—scintillanti di gioia.


    Ella s'appressa al tavolo—e, tremando, vi getta
    Una manata d'oro.
    —Poi si ferma ed aspetta.


         * * * * *


    “Chi sei?” chiede il carnefice,
    —Ella cade ai ginocchi
    Di mastro Spaghi e dice—piangendo e alzando gli occhi:
    —“Tutto quest'oro e` tuo;—questo e` quanto possiedo...
    Guarda!”
    L'altro rispose—balbettando: “Lo vedo!”


    Ma sulla giovinetta—il suo sguardo cadea,
    E la sua mano secca—a un altr'oro correa!
    All'oro dei capelli,—che le scendean qual velo
    Sulla fronte; e che gli occhi,—d'un azzurro di cielo,
    Coprivan quasi.
    “Dimmi,—dimmi dunque il tuo nome?”
    Soggiunse mastro Spaghi,—ravviando le chiome
    Alla bella fanciulla.—“Dimmi dunque, chi sei?”


         * * * * *


    —“Son orfana. Bambina—padre e madre perdei.
    “Eppure per molt'anni—sono stata felice!
    “Son bella; ho il sangue ardente;—faccio la meretrice.
    “Gli uomini li sopporto—se son vecchi o cattivi;
    “Cerco i baci di quelli—che son belli e giulivi.
    “Non ho fatto mai male—a nessuno! Giammai
    “(Pria per nulla, per poco—poscia) il piacer negai.
    “Eppur tutti, cercando—i miei vezzi procaci,
    “M'insultano! Gli insulti—scordo coi nuovi baci!
    “Amo le feste, i campi,—l'aria aperta ed i fiori,
    “E il vin che rende immemori—e che infonde gli ardori!
    “Le donne m'abborriscono!—Io rubo lor gli amanti!...
    “E dovunque si balli,—e dovunque si canti,
    “Il mio piede non manca,—non manca la mia gola!”


         * * * * *


    Mastro Spaghi esclamo`:—“Povera figliuola!


         * * * * *


    —“Un di` venne a trovarmi—un bruno giovinetto,
    “Bello; parlava sempre—con dolcezza ed affetto...
    “Nicasio insomma! Tu—sai bene di chi parlo!
    “Del condannato....
    “Ah!... Diamine!—Ch'egli abbia nome Carlo
    “O Nicasio,” interruppe—mastro Spaghi, “giammai.
    “A color ch'ho appiccato—il nome domandai!
    “Che mi preme del nome—che porta un condannato!”


         * * * * *


    —“Anch'io feci lo stesso—con color che ho baciato!.....
    “Ma a Nicasio l'ho chiesto!—Mai non seppi spiegarmi:
    Il perche` glielo chiesi!—Ei diceva d'amarmi...
    Mi piaceva. Era bello!
    —Ma poi ne fui noiata....
    “Era povero!...
    Eppure—egli non m'ha insultata
    “Quando gliel dissi!
    Pianse;—mi bacio` il volto e il seno,
    “Quasi per ridestarvi—l'amore, e disse: Almeno
    Non odiarmi!...”
    Venia—ogni giorno, recando
    “Cibi e fiaschi di vino.
    —Io ridevo trincando;
    “Ed ei parea tornare—dalla morte alla vita
    “Vedendomi gioconda.
    —Un di` esclamai: “Squisita
    Dev'essere una lepre—col vin di Mercatello!


    Ei rispose: “Domani—portero` questo e quello.”


    Baje!...” dissi ridendo,—“Tu una lepre?... Non sai
    “Che soltanto d'Urbania—col Signor ne mangiai?
    “Tu portarmi una lepre?—Tu pezzente e meschino?



    —L'indomani egli venne—colla lepre e col vino!..


    “Ah!... Io sono un'infame!—Egli aveva rubato!...
    “Gli intendenti del Duca—l'han preso e condannato!”





    XI.


    Ella si copri` il viso—con entrambe le mani.


         * * * * *


    La campagna avea un'eco—di gemiti lontani.
    Le foglie che stormivano—di fuori, nell'ortaglia,
    Parevano il fruscio—d'un abito a gramaglia.
    La lampada moriva.
    —Mastro Spaghi avea detto
    Ravvivandola: “E` triste!—Povero giovanotto!”


    E nell'olio una lagrima—al boia era caduta.


         * * * * *


    La fiamma scoppiettando—la stilla avea bevuta.





    XII.


    La fanciulla riprese:
    —“Io l'amo! Io l'amo! Io l'amo!
    “Io morro` s'egli muore!—Egli, povero e gramo,
    “Mi pago` piu` di tutti!—Ei d'amor mi ha arricchita!
    “Gli altri mi dan dell'oro!—Egli mi die` la vita!
    “Io lo voglio!... Dovessi—dar fuoco alla borgata!
    “Io pretendo di vivere—perche` mi sento amata!
    “Perche` voglio adorarlo,—e coprirlo di baci!
    “Lo comprendi, o carnefice?—Tu mi guardi? Tu taci?”


         * * * * *


    Ella facea paura.
    —Agitava le braccia,
    E diceva: “Lo voglio!”—con aria di minaccia.
    Correva per la stanza.—Abbrancava le grate
    Dell'usciuolo del carcere—con mani forsennate,
    Gridando: “Spingi! Aiutami!—Aiutami, amor mio!”


         * * * * *


    Ei mormoro` di dentro:—“Lea, non perderti!... Addio!”



    XIII.


    Allora la fanciulla—divenne mansueta
    Come un pazzo, cui nota—voce d'amico accheta.
    Il suo viso, che l'ira—aveva imporporato
    Torno` pallido.
    Il labbro,—qual ferro arroventato,
    Resto` sol di carminio.
    —Ivi il sangue soltanto
    Affluiva nei giorni—della gioia e del pianto;
    Ed un genio, guardando—quelle labbra procaci,
    Dovea dir: “Questa donna—e` nata per i baci.”


         * * * * *


    Mastro Spaghi, seduto—vicino alla lucerna,
    Somigliava alla statua—dell'attenzione eterna.
    Il morente lucignolo,—mobile e vaporoso,
    Fissava sul suo cranio—un punto luminoso.


         * * * * *


    Come un rettile, a terra—la fanciulla strisciando,
    A lui venne dinanzi;—e, gli stinchi abbracciando
    Del vegliardo, gli disse:
    —“Tu non l'ucciderai,
    “Non e` vero?... Perdonami—s'io piansi e mi sdegnai...
    “Come sei bello!... Parla!—Io non credea davvero
    “Che gli uomini che fanno—un simile mestiero
    “Avessero una faccia—cosi` buona, e che pare
    “Quella dipinta in chiesa—sul quadro dell'altare!”



    XIV.


    Mastro Spaghi taceva—fissandola nel viso;
    E nei suoi occhi azzurri—vedeva un paradiso.
    Un'iride ideale—di memorie e d'amore,
    Di dolci desiderii—soffocati nel cuore.


    Come in mezzo alla nebbia—gli passava davante
    Della perduta sposa—il leggiadro sembiante,
    Che gli dicea:
    Coraggio!—Se tu cedi, io perdono!


    Poi gli giungea all'orecchio—con argentino suona
    Una voce infantile;—quella d'una bambina;
    Che vinceva gli accordi—d'un'armonia divina.


         * * * * *


    Sovra la rozza panca—il vegliardo si scosse.
    Avea il pianto negli occhi—e mormoro`:
    “Se fosse
    “Viva, avrebbe vent'anni—la povera piccina!
    “Vorrei diventar cieco—per averla vicina!
    “Che sara` divenuta?—Sara` dessa felice?
    “Forse e` una gran signora...—Forse una meretrice!


         * * * * *


    Cosi` parlava.
    Intanto—la dolente fanciulla
    Gli abbracciava gli stinchi,—senza comprender nulla.


    Alfin surse da terra,—che` volavano l'ore.
    Avea l'occhio velato—da un osceno languore,
    Ed additando l'oro—mormoro` al vecchio:


    “Senti:
    “Questi sono testoni—tutti nuovi e lucenti...
    “Son dieci!... Sono pochi!—Ma se tu mi concedi
    “La sua vita, oltre l'oro—che scintillar qui vedi.
    “Io ti daro`... me stessa!...—E sono bella!... Guarda!...”
    E si slaccio` le vesti.
    —Ei con mano gagliarda,
    “Quasi sdegnato, e altrove—guardando, ricompose
    Le vesti.
    Ella la destra—gli strinse. Vi depose
    Un bacio e disse:
    “Grazie!—Oh!... Grazie, padre!


         * * * * *


    Allora,
    Nelle braccia serrandola:—“Lontana e` ancor l'aurora!”
    Esclamo` il vecchio. “Insieme—con voi verro`!.. Mia figlia,
    “Si`, mia figlia sarai!”





    XV.


    —E dalla ferrea griglia
    Del carcer, pochi istanti—dopo, uscivan tre ombre.


    Le vie del firmamento—eran di nubi sgombre;
    La luna era abbagliante—d'ineffabil splendore;
    Nicasio e Lea correano—parlandosi d'amore.


    Quella luna invitava—a amar, solo a vederla.
    La terra era d'argento,—il ciel di madreperla.
    E in quell'onda di luce—il triste gruppo avvolto
    Pareva un gruppo d'angioli—dal Signore raccolto,
    Perche` nel santo affetto,—che purifica tutto,
    Obliasse ogni colpa,—obliasse ogni lutto.


    Di mastro Spaghi il cranio—fulgeva in modo strano;
    Lo si saria veduto—a tre miglia lontano.


    Ei non se ne accorgeva.
    —Celiando, il giovinetto
    Quel cranio traditore—copri col suo berretto,
    E disse:
    “Affeddidio!—Questo tuo cranio vuole
    “Col suo sfarzo di luce—comprometter tre gole!”


         * * * * *


    Cosi` senza spettacolo—rimaser l'indomani
    Di Sant'Angelo in Vado—i buoni borghigiani:
    E cosi`, nella corsa—facendo invidia al vento,
    Sullo scorcio d'aprile,—l'anno milletrecento,
    Giungean, per imbarcarsi,—all'adriaca marina
    Un carnefice, un ladro—e una bella sgualdrina.


    FINE.